Fonte: La stampa
L’attacco al dissenso in tempo di guerra
I conflitti armati hanno conseguenze inevitabili sulla vita di un Paese. E alle forme di censura imposte dal potere si aggiungono quelle di autocensura
Si discute molto su certe manifestazioni di insofferenza alle critiche da parte dei nostri attuali nocchieri e sui tentativi da parte loro, peraltro spesso maldestri, di condizionare l’informazione o pseudo-informazione fornita dal “servizio pubblico” radio-televisivo.
È un modo assai riduttivo di affrontare oggi il problema della libertà di espressione. Di tale problema si potrà intendere tutto il significato soltanto se lo si colloca nel contesto delle tragedie globali che attraversiamo. E anche in questo caso vale la massima che tante volte ho ricordato: ogni speranza deve essere riposta al di là del più crudo realismo.
Il contesto è, molto semplicemente, quello della guerra. Siamo in guerra e nessuno sembra volere o potere contenerne gli sviluppi. Da una parte e dall’altra il problema sembra soltanto quello di quali armamenti schierare, quali truppe e di chi, con che mezzi finanziare il proseguo del massacro. Rispetto a crisi precedenti la differenza di comportamenti e atteggiamenti è abissale, e ahimè conta poco fingere di non vederlo. In passato le Nazioni Unite erano state in grado di promuovere forze di interposizione tra i duellanti, con efficacia diversa, ma almeno si era fatto quasi sempre il tentativo. Il fallimento dell’Onu e dei resti di un diritto internazionale è in questa fase impressionante, neppure il velo dell’ipocrisia riesce ormai a nasconderlo.
Il consenso intorno alla narrazione decisa dall’élite dirigente è elemento importante, se non decisivo, dello scontro che è in atto. In guerra il rapporto politico si esalta e semplifica nell’aut-aut Amico-Nemico, e ciò non può non finire col valere anche sul fronte interno. Più si aggravano le guerre in atto, più questa situazione è destinata ad assumere tratti permanenti. Basterebbe questa constatazione a suggerirci di compiere ogni sforzo politico e diplomatico per arrestare l’incendio. La guerra non è affatto la sola causa del restringersi degli spazi di libertà di espressione e di pensiero critico. La crisi viene da lontano: è intrinseca al progressivo indebolirsi delle assemblee legislative, al potere sempre più determinante delle oligarchie monopolistiche in tutti i settori chiave dell’economia e della finanza, alle nuove forme di comunicazione, che esaltando la chiacchiera individuale non fanno che creare un rumore di fondo in cui tutte le opinioni diventano perfettamente equivalenti, merci di un unico mercato.
Viviamo in un regime di permanente emergenza almeno dall’11 settembre. L’“infezione” dilaga e l’esercizio del potere, che è lungi dall’essere soltanto politico, si trasforma in un controllo onnipervadente, capace di prevedere e orientare tutti i nostri comportamenti. Esso si alimenta dello stato di emergenza e lo rigenera di continuo. Ma è evidente che risulterà tanto più efficace quanto più il nostro linguaggio sarà ripulito da ogni forma di paradosso e di ironia. Creatività, sì, “anime creative” sì, per dirla con il libro di Paolo Perulli, ma “al servizio” del nuovo sistema di macchine – guai a quella creatività “anarchica” che mette in gioco la narrazione dominante, che non usa la parola come strumento di dominio, che la libera, anzi, proprio dal suo essere un mero strumento
Il pericolo per la libertà di espressione non viene, dunque, da qualche improvvisata insofferenza di qualche ministro di passaggio. Viene oggettivamente dalla situazione geo-politica in cui ci troviamo e dalla incapacità da parte delle leadership di concepire un nuovo Nomos della Terra che non passi attraverso una catastrofe.
Sintomi evidenti di questa crisi della libertà di espressione è anche l’irrefrenabile dilagare dell’ossessione del politically correct. Le sue prime vittime non sono, come qualsiasi visita sui social dimostra, maleducazione e ignoranza, ma quella prima virtù dell’europeo che era l’ironia, il distacco dall’opinione corrente, il sapere comprendere la realtà senza adattarvisi. Esempio massimo di questa perdita è la cancel culture. Che mai cultura è quella che cancella? Cultura è comprendere, in uno, quanto il passato pesi e quanto sia portante. Nessuno ne è libero, e solo conoscendolo non te lo tirerai dietro come un lutto che non hai superato. La cultura non cancella, elabora, trasforma e solo così innova. Somma censura è la cancellazione del nostro passato in base alla assolutizzazione dei presunti valori del nostro presente. Così l’opinione corrente assurge a una dimensione meta-storica, il suo attuale linguaggio diviene il Verbum sul cui unico metro ogni altro deve essere giudicato. Condannato, cancellato e dimenticato. Senza bisogno alcuno di ricorrere a dittature e violenze fisiche.
Il linguaggio del calcolo tecnico-burocratico è quello stesso del Nemico-Amico, del politically correct, della cancel culture – come non vederlo? Tutto si tiene. E ci tiene sempre più nella sua rete. Sta a noi comprenderlo e cercare di reagirvi. O le stesse censure e minacciate censure di oggi ci appariranno domani sublime esempio di libertà di espressione