Fonte: Minima Cardiniana
QUESTIONI DI PAROLE, DI VALORI, DI CONTRADDIZIONI
ONORE E DISONORE
“Arriva un momento in cui il funzionamento della macchina diventa così odioso, ti rende così infelice che non puoi più farne parte. Non puoi farne parte nemmeno passivamente. E devi mettere il tuo corpo sugli ingranaggi, sulle ruote, sulle leve, su tutto l’apparato, e devi farla fermare. E devi mostrare alle persone che la gestiscono, alle persone che la possiedono, che se non sarai libero alla macchina sarà impedito del tutto di funzionare”.
Sacrifici umani
Lo disse Mario Savio (1942-1996), statunitense non ancora ventiduenne figlio d’italiani e studente alla californiana Berkeley University, il 2 dicembre 1964. Quel discorso diede convenzionalmente inizio al Free Speech Movement (movimento per la libertà di parola) e di fatto al Sessantotto americano. Mi è tornato in mente quando Aaron Bushnell, il 25 febbraio scorso, ha deciso di morire cospargendosi di benzina davanti all’ambasciata israeliana a Washington dandosi fuoco al grido di: “Free Palestine!”. Palestina libera.
Ian Palach volle morire allo stesso modo nel gennaio ’69 per protestare contro l’invasione sovietica che aveva messo fine alla primavera di Praga. Nel ’63 il monaco buddista Thích Quảng Đức si era immolato per protestare contro la dittatura del presidente cattolico del Vietnam del Sud, Ngô Đình Diệm, che opprimeva la religione buddista: trentatré confratelli e consorelle fecero altrettanto fino al ’66. L’immolazione dandosi fuoco, fu spiegato in seguito agli occidentali sconcertati, non doveva essere considerata un suicidio, espressamente vietato dal buddismo, ma un atto di compassione, cioè mostrare agli altri la situazione per quella che era e indurli a favorire un’evoluzione positiva della società.
Per protestare contro la guerra del Vietnam, nel ’65 si diedero fuoco l’ebrea tedesca Alice Herz a Detroit, il quacchero pacifista Norman Morrison al Pentagono presso l’ufficio del segretario alla Difesa, Robert McNamara, il cattolico anarchico Roger Allen LaPorte a New York davanti al Palazzo delle Nazioni Unite. Nel 1970, per la stessa ragione, lo fece un altro giovane, lo studente George Winne Jr., nel campus dell’Università della California a San Diego.
Nel 1993 l’inglese Graham Bamford si cosparse di benzina e bruciò vivo davanti alla Camera bassa del Parlamento britannico per attirare l’attenzione sui massacri nella Bosnia. Nel 2006 Malachi Ritscher, un musicista e attivista americano, si diede fuoco a Chicago per protestare contro l’invasione dell’Iraq. Cinque anni dopo Mohamed Bouazizi, fruttivendolo ambulante tunisino per anni vessato dalla polizia, s’immolò, dopo un’ulteriore confisca della merce, per protestare contro le condizioni economiche in cui era costretto. Fu la metaforica scintilla che, oltre a favorire la rivolta che portò alla fuga, dopo ventitré anni al potere, del presidente Zine El-Abidine Ben Ali, incendiò i moti rivoluzionari in Nord Africa e nel Medio Oriente passati alla storia come primavere arabe.
Israele, Stati Uniti, Sud Africa
Aaron Bushnell era un aviere di venticinque anni di stanza a Sant’Antonio, nel Texas. Aveva scritto su Facebook: “Molti di noi amano chiedersi: cosa avrei fatto se fossi stato vivo durante la schiavitù? O durante le leggi Jim Crow degli stati del Sud? O l’apartheid? Cosa farei se il mio Paese stesse commettendo un genocidio? La risposta è: quello che stai facendo. Proprio adesso”.
Le leggi Jim Crow, il cui nome s’ispirava a un’idea caricaturale degli afroamericani, causarono la segregazione razziale nei servizi pubblici statunitensi tra i bianchi e gli altri gruppi umani, principalmente i discendenti degli schiavi africani, tra il 1876 e il 1965. Si trattò del combinato disposto di leggi locali e di singoli Stati meridionali, promulgate principalmente per volontà del Partito Democratico, che fissavano la segregazione nei luoghi pubblici: bagni, ristoranti, scuole, mezzi di trasporto. Furono superate gradualmente grazie alle battaglie per i diritti civili, ultima quella del movimento guidato da Martin Luther King con il sostegno, talvolta, di John Kennedy, fino alle leggi, volute dal presidente Lyndon Johnson, che le abolirono.
Il 18 luglio 2018 la Knesset ha approvato (62 voti favorevoli, 55 contrari e due astenuti) una legge, The Basic Law: Israel as the Nation State of the Jewish People, che per la prima volta nella storia definisce ufficialmente Israele come “la casa nazionale del popolo ebraico”. Si tratta d’una legge fondamentale che in Israele, in cui manca una Costituzione, assolve a questa funzione insieme alle altre undici dello stesso tipo. Raniero La Valle, intervistato da Umberto Giovannangeli per l’Unità, ha spiegato le conseguenze di quella che in Israele è considerata una legge discriminatoria nei confronti degli israeliani arabi e delle minoranze e che, sostiene, ha cambiato l’identità del Paese.
“Se prima lo Stato d’Israele era uno Stato democratico, con quella legge del luglio 2018 viene trasformato nello ‘Stato nazione del popolo ebreo’. In questa legge d’identità, ci sono tre pilastri che spiegano tutto quello che è venuto dopo e in qualche modo, se vengono mantenuti, attestano anche la impossibilità di risolvere il problema israelo-palestinese. Per cui questa ripetizione della proposta di ‘due popoli, due Stati’, anche se fatta in buona fede, non ha in questo momento, come del resto non l’ha avuta per tutti questi decenni, alcuna possibilità di realizzazione”.
I tre pilastri sono: la sacralità della terra il cui insediamento da parte degli ebrei è definito un diritto naturale e non politico, per cui “il diritto di esercitare l’autodeterminazione nazionale nello Stato d’Israele è esclusivamente per il popolo ebraico”, quindi “se questo popolo è l’unico ad avere i diritti politici, viene definito per Costituzione che nessun altro popolo li possa avere”; la rivendicazione di Gerusalemme capitale integra e unita, per cui “le istanze della comunità internazionale di fare di Gerusalemme la capitale, certo d’Israele ma anche la capitale della Palestina, sono cancellate, escluse da questa legge”; la definizione delle colonie come “valore nazionale” rispetto al quale Israele “agirà per incoraggiare e promuoverne l’insediamento e il consolidamento”, ragione per cui diventa “impossibile pensare ad uno Stato palestinese, anche perché questi insediamenti sono fatti a rete, collegati gli uni con gli altri, per cui resta una pelle di leopardo per i palestinesi”. Vengono in mente i bantustan, cioè i territori assegnati alle etnie nere dal governo sudafricano quando vigeva l’apartheid.
Infine, Raniero La Valle evidenzia un’anomalia che non esiste per nessun altro stato al mondo: la competenza statale è estesa agli ebrei della diaspora, cioè agli ebrei che vivono in qualsiasi altra parte del mondo e non in Israele, con la conseguenza di coinvolgere la religione ebraica nell’esistenza politica di quest’ultimo identificando l’uno nell’altra.
Il senso dell’onore
Il post sul profilo di Bushnell includeva un collegamento a uno streaming in diretta della sua protesta sulla piattaforma Twitch. “Il mio nome è Aaron Bushnell” ha detto mentre si cospargeva il corpo di benzina. “Sono un membro in servizio attivo dell’Aeronautica degli Stati Uniti e non sarò più complice del genocidio. Sto per intraprendere un atto di protesta estremo, ma rispetto a ciò che la gente ha vissuto in Palestina per mano dei loro colonizzatori, non è affatto estremo. Questo è ciò che la nostra classe dirigente ha deciso che sarà normale”.
Durante i suoi pochi anni, il giovane americano si era segnalato per la sensibilità verso i poveri e gli oppressi, oltre che per i saldi principi. Viceversa, come per i dissidenti sovietici screditati dal regime comunista, per spiegare il suo gesto alcuni ne hanno messo in dubbio la sanità mentale. Eppure la ragione è molto chiara: non poter accettare che i governanti degli Stati Uniti, e delle nazioni occidentali, siano complici del crimine dell’assassinio indiscriminato di trentamila esseri umani (finora), di cui circa dodicimila bambini, più l’esodo forzato di circa due milioni di persone ridotte alla fame, che il governo oltranzista di Benjamin Netanyahu sta perseguendo bombardando Gaza con una ferocia che i nazifascisti non ebbero per Guernica.
Il filosofo Eugenio Mazzarella, commentando il sacrificio di Bushnell, ha scritto su Avvenire: “Nella vita talvolta siamo messi in condizione […] che l’unica cosa che possiamo fare è limitare il disonore di questo mondo, del nostro stare al mondo. E farlo per tutti”. L’aviere, come i monaci vietnamiti sessant’anni fa, ha voluto mostrarci come stanno le cose affinché reagissimo. Ad esempio alle dichiarazioni, queste sì degne almeno d’un test attitudinale, di Emmanuel Macron e Ursula von der Leyen che hanno invitato gli europei a riarmarsi in previsione d’una possibile guerra con la Russia, e di Vladimir Putin che ha risposto con analogo senso apocalittico elencando sistemi d’arma che, se impiegati, porterebbero alla fine del mondo.
Jurgen Habermas, dopo l’inizio della nuova epoca di violenza e terrore inaugurata ventitré anni fa dall’interventismo internazionale della presidenza di George Bush sotto la spinta ideologica dei neoconservatori (neocon), avendo come casus belli l’11 settembre, ha scritto: “L’Occidente è stato diviso non dal pericolo del terrorismo internazionale, bensì dalla politica dell’attuale governo statunitense che ignora il diritto internazionale, emargina le Nazioni Unite e dà per acquisita la rottura con l’Europa. In gioco è il processo kantiano dell’abolizione dello stato di natura tra gli Stati. Le menti si dividono non su fini politici superficiali, ma su una delle più grandiose iniziative tendenti a civilizzare il genere umano” (L’Occidente diviso, Laterza, 2005).
Tre secoli fa Immanuel Kant scelse il motto sapere aude! (abbi il coraggio di conoscere) per l’Illuminismo di cui fu considerato, in Europa, l’inventore. Esortò così gli uomini a servirsi del loro intelletto per conquistare la libertà e la verità. Ciò anche per giungere, attraverso il diritto, alla pace perpetua o a qualcosa che ci somigliasse.
L’asse tra Stati Uniti e Israele ha determinato, grazie anche alla comune visione d’intenti tra i neocon e l’estrema destra di Netanyahu, l’instabilità internazionale causata dagli americani attraverso la guerra preventiva e la trasformazione della Nato in strumento di accerchiamento da ovest della Russia, e dagli israeliani rifiutando gli accordi di Oslo voluti da Izthak Rabin e favorendo, più o meno indirettamente secondo una logica divisoria, la parte fondamentalista e intransigente dei palestinesi, Hamas, a discapito di quella laica e tendenzialmente democratica, al-Fath, che avendo riconosciuto Israele potrebbe legittimamente costituire uno stato palestinese.
Al moderno diritto internazionale che, con tutte le imperfezioni e le contraddizioni, si è cercato di organizzare e attuare dopo la seconda guerra mondiale con la Dichiarazione universale dei diritti umani e la costituzione delle Nazioni Unite, nonché con la creazione di organismi internazionali nei quali ricondurre in maniera pacifica le legittime aspirazioni dei popoli, si è progressivamente tentato di sostituire, nell’ultimo quarto di secolo, una politica unilaterale che, perseguendo interessi immediati e di natura privata o di gruppi piuttosto che di stati e di popoli, ha negato al mondo una prospettiva pacifica. L’Europa, che si sperava potesse esercitare un ruolo di equilibrio, si è piegata ai voleri delle lobby accettando d’isolare la Russia, favorendo così il radicamento autocratico di Putin, fino ad avere pesanti responsabilità nella situazione in Ucraina. Nello stesso tempo sono state considerate inevitabili delle inquietanti ingerenze spionistiche mediante le nuove tecnologie di sorveglianza di massa, e situazioni ignobili come la persistenza del carcere di Guantanamo e la persecuzione angloamericana ai whistleblower come Julian Assange ed Edward Snowden che hanno rivelato crimini militari e governativi che pregiudicano la libertà e la sicurezza dei cittadini.
Di fronte a tutto questo, diventa quasi normale accettare il castigo di Israele alla popolazione di Gaza dopo l’eccidio tremendo perpetrato da Hamas il 7 ottobre. Altrettanto normale è che uno stato, nonostante Netanyahu, ancora democratico, risponda con attacchi indiscriminati all’azione criminale d’un gruppo terrorista. E normale è il plauso che riceve dagli intellettuali suoi complici.
A questa vergogna l’aviere Bushnell, con alto senso dell’onore di essere umano, si è opposto gettando il suo corpo, come diceva Mario Savio, sull’apparato della macchina. Il minimo che si possa fare per esserne degni è smuoversi dall’immobilismo, cercare di capire quello che sta succedendo, organizzarsi per tentare d’impedirlo.