Fonte: strategic-culture.su
Una volta, il defunto Ariel Sharon, leader militare e politico israeliano di lungo corso, aveva confidato al suo caro amico Uri Dan che “gli Arabi non avevano mai veramente accettato la presenza di Israele… e quindi una soluzione a due Stati non era possibile – e nemmeno auspicabile“.
Nelle menti di questi due – così come della maggior parte degli israeliani di oggi – c’era il “nodo gordiano” che caratterizza l’essenza del Sionismo: come mantenere diritti differenziati su un territorio fisico che include una vasta popolazione palestinese.
I leader israeliani ritenevano che, con l’approccio non convenzionale di Sharon basato sull’”ambiguità spaziale“, Israele fosse sul punto di trovare una soluzione all’enigma della gestione dei diritti differenziati in uno Stato a maggioranza sionista ma con al suo interno minoranze consistenti. Molti israeliani ritenevano (fino a poco tempo fa) che i palestinesi fossero stati relegati con successo in uno spazio politico e fisico delimitato – e che fossero addirittura “scomparsi” da ogni parvenza di significato – solo che Hamas, il 7 ottobre, ha fatto saltare in aria tutto questo elaborato paradigma.
Questo evento ha innescato un diffuso ed esistenziale timore che il progetto sionista possa implodere, se le sue particolari fondamenta sioniste dovessero essere messe in dubbio da un’ampia resistenza pronta ad entrare in guerra per risolvere la questione.
Un recente articolo del giornalista statunitense Steve Inskeep – Israel’s Lack of Strategy is the Strategy – mette a fuoco un apparente paradosso: mentre Netanyahu è molto chiaro su ciò che non vuole, allo stesso tempo rimane ostinatamente opaco su ciò che vuole come futuro per i palestinesi che vivono in un territorio condiviso.
Per coloro che pensano che la pace in Medio Oriente possa (o debba) essere l’obiettivo di Netanyahu, questa opacità appare come una grave “falla” nella risoluzione della crisi di Gaza. Tuttavia, se Netanyahu (sostenuto dal suo gabinetto e dalla maggioranza degli israeliani) non offre alcuna strategia di pace con i palestinesi, probabilmente la sua omissione non è un “difetto”, ma una caratteristica.
Per comprendere l’ossimoro di fondo, bisogna capire perché Ariel Sharon e Uri Dan “avevano detto quello che avevano detto“, e comprendere come l’esperienza militare di Sharon, risalente alla guerra del 1973, avesse effettivamente plasmato l’intero paradigma palestinese. Nel 2011 avevo scritto un articolo su Foreign Policy in cui sostenevo che il concetto di Ambiguità Permanente Palestinese di Sharon era – ed era stata – la principale risposta dei Sionisti a come aggirare il paradosso insito nel Sionismo. A distanza di trent’anni, questo paradosso lo si intravede in tutte le recenti dichiarazioni di Netanyahu (e dei leader israeliani di tutto lo spettro politico).
Già nel 2008, il ministro degli Esteri (e avvocato), Tzipi Livni, spiegava perché “l’unica risposta di Israele (al problema di come sostenere il Sionismo) è quella di mantenere indefiniti i confini dello Stato – appropriandosi delle scarse risorse idriche e terrestri – e lasciando i palestinesi in uno stato di continua incertezza, dipendente dalla buona volontà israeliana“.
E avevo notato in un altro articolo:
“Livni sta dicendo che vuole che Israele sia uno Stato sionista – basato sulla Legge del Ritorno e aperto a qualsiasi Ebreo. Tuttavia, garantire uno Stato di questo tipo in un Paese con un territorio molto limitato significa che la terra e l’acqua dovrebbero essere mantenute sotto il controllo ebraico, con diritti differenziati per Ebrei e non Ebrei – diritti che riguarderebbero tutto, dalla casa e l’accesso alla terra, ai posti di lavoro, ai sussidi, ai matrimoni e alla migrazione”.
Una soluzione a due Stati, quindi, non avrebbe risolto il problema di come mantenere il Sionismo; anzi, lo avrebbe aggravato. L’inevitabile richiesta di pieni ed eguali diritti per i palestinesi avrebbe portato alla fine dei “diritti speciali” degli Ebrei e del Sionismo stesso, aveva sostenuto Livni – una minaccia con cui la maggior parte dei Sionisti concorda.
La risposta di Sharon a questo paradosso finale, tuttavia, era stata diversa:
Sharon aveva un piano alternativo per gestire un grande “gruppo esterno” non ebraico, fisicamente presente all’interno di uno Stato sionista a diritti differenziati. L’alternativa di Sharon consisteva nel vanificare la soluzione dei due Stati all’interno di confini prefissati.
Questo suggerisce un modo di pensare molto diverso, assai differente da quello che è stato a lungo ipotizzato dal consenso internazionale (che, in ogni caso, una soluzione a due Stati sarebbe finalmente emersa), perché era nell’interesse demografico finale di Israele che ciò accadesse.
Le radici dell’”alternativa” di Sharon risalgono alla sua dottrina militare, radicalmente eterodossa, su come difendere il Sinai, allora occupato, dall’esercito egiziano durante la guerra con l’Egitto nel 1973.
L’esito della guerra arabo-israeliana del 1973 aveva pienamente giustificato la dottrina di Sharon di una difesa a reticolo, basata su una matrice di punti di forza elevati e distribuiti in tutta la profondità del Sinai – una struttura che agiva come una “trappola” spaziale estesa e che forniva agli israeliani un alto livello di mobilità, paralizzando al contempo il nemico catturato all’interno della sua matrice di punti di forza interconnessi.
(Se il lettore nota la somiglianza con i loci strategici israeliani, i “punti di forza” degli insediamenti sparsi oggi in Cisgiordania, non è una coincidenza).
Sharon aveva immaginato la Cisgiordania, nella sua interezza, come una “frontiera” estesa, permeabile e temporanea. Questo approccio poteva quindi prescindere da qualsiasi sottile linea di matita tracciata per indicare un confine politico. Questo quadro era destinato a lasciare i palestinesi in uno stato di incertezza permanente, intrappolati in una matrice di insediamenti interconnessi e soggetti all’intervento militare israeliano, a sola discrezione di Israele.
Nel 1982, Sharon aveva elaborato il suo Piano “H”, una matrice di insediamenti in Cisgiordania che rispecchiava la strategia nel Sinai. Questa strategia difensiva, tuttavia, aveva avuto anche l’effetto di conferire al “Sionismo dei coloni” un nuovo scopo e una nuova legittimità.
Il successo di questa strategia l’ha vista quindi trasformarsi da struttura difensiva essenzialmente militare (per paralizzare i palestinesi all’interno di una matrice di punti di forza dell’IDF) a base per una gestione più ampia dei palestinesi. Nel corso degli anni è diventata sempre più repressiva, iniqua e odiata. E, alla fine, ha dato vita alla soluzione dell’apartheid a due Stati.
Quando Ariel Sharon aveva “disegnato” il bordo estremo della linea di confine di Israele e vi aveva compreso entrambi i lati della Cisgiordania, di fatto stava dicendo che i coloni della Cisgiordania erano la linea di confine spazialmente estesa del territorio pre-1967, proprio come nel Sinai aveva allargato la frontiera di Israele attraverso la matrice dei punti di forza.
Era proprio questo il punto della sua visione: non importa se Israele era il territorio pre-1967 o post-1967 – tutti i confini avrebbero dovuto essere fluidi e mutevoli, secondo lui. La “frontiera” di Sharon, estesa, elastica, permeabile e con trappole a matrice, aveva così dato inizio al processo (nella sfera militare) di offuscamento delle distinzioni tra interno ed esterno politico. Questo, insieme al concetto di Sharon di spazio “non rispettato”, era diventato il vero e proprio credo militare israeliano.
“Vogliamo confrontare lo spazio striato della pratica militare tradizionale e antiquata con una fluidità che consenta il movimento attraverso lo spazio e che attraversi qualsiasi confine e barriera senza impedimenti. Piuttosto che contenere e organizzare le nostre forze secondo i confini esistenti, vogliamo muoverci attraverso di essi“, aveva osservato nel 2006 un alto ufficiale israeliano.
In modo cruciale, l’offuscamento dello spazio stabilito e delimitato era lentamente passato dal campo militare alla sfera politica israeliana. Inoltre, il principio di confusione tra ciò che è dentro e ciò che è fuori era stato esteso allo spazio politico e legale dei Territori Palestinesi Occupati. Aveva permesso la creazione di uno spazio a due livelli, inserendo gli Ebrei israeliani e gli Arabi palestinesi in matrici di mobilità e trattamento amministrativo completamente diverse.
Lo spazio giuridico e amministrativo differenziato aveva quindi solidificato il principio politico sionista dei diritti politici differenziati. Questo sistema a due livelli prevedeva l’esclusione politica dei palestinesi, ma manteneva la dipendenza e l’inclusione legale dei palestinesi sotto l’apparato di controllo israeliano. Si tratta essenzialmente di un sistema di eccezione sovrana, di cui si sono occupati filosofi come Carl Schmitt e Giorgio Agamben.
Arriviamo a oggi: una volta capito che l’obiettivo principale è il mantenimento del Sionismo, allora tutto ciò che Netanyahu sta facendo ha senso. Il nocciolo del problema è immutato: la contraddizione intrinseca di uno Stato sionista eccezionalista che incorpora un gruppo esterno non ebraico sostanziale e privo di diritti – sia esso detenuto nel ghetto recintato di Gaza o in una “matrice di roccaforte dei coloni” in Cisgiordania – è diventata insostenibile.
Una volta che il “sistema” biforcato di Ariel Sharon si rompe (come è successo il 7 ottobre), nozioni come le proposte di Blinken sul “giorno dopo” per Gaza mettono in dubbio la fattibilità del progetto sionista in sé. In parole povere, il Sionismo dovrà essere ripensato – o abbandonato.
Anche le risposte politiche dell’Occidente dovranno essere riviste. I luoghi comuni ben intenzionati sulla “soluzione” dei due Stati sono arrivati con anni di ritardo. Troppa acqua è passata sotto i ponti. Piuttosto, l’Occidente potrebbe iniziare a considerare le implicazioni della sconfitta per coloro che hanno abbracciato uno degli schieramenti di questo conflitto. Per i fatti di Gaza non è solo Israele ad essere sul banco degli imputati all’Aia, ma c’è anche molto altro (dal punto di vista del Sud globale).
Potrebbe veramente continuare questa “inclusione escludente” israeliana? Il sistema politico tecno-spaziale sharoniano, nonostante la sua pretesa di legittimità filosofica, in fondo non è altro che un’evoluzione del paradigma associato ad un importante stratega sionista, Vladimir Jabotinsky: un modo diverso per far “sparire” i palestinesi.
E se l’”out-group” palestinese non può essere fatto “sparire” da costruzioni tecno-spaziali, non sorprenderebbe se la logica della situazione portasse Netanyahu e il suo governo a tornare alla strategia originaria di Sharon di radicale mancanza di rispetto per lo spazio militare e i confini politici – per sorprendere e creare una estesa trappola spaziale per i palestinesi (proprio come Sharon aveva fatto con l’esercito egiziano).
“Israele è lo Stato del popolo ebraico“, aveva sottolineato la Livni nel 2008 – facendo particolare riferimento alla “linea di fondo” sionista – “e vorrei sottolineare che il significato di ‘suo popolo’ è il popolo ebraico, con Gerusalemme capitale unita e indivisa di Israele e del popolo ebraico da 3007 anni“.
Alastair Crooke
Fonte: strategic-culture.su
Link: https://strategic-culture.su/news/2024/01/22/netanyahu-shape-shifting-endgame-ino-ploy-but-reversion-earlier-zionist-strategy/