Autore originale del testo: Fausto Anderlini
Napolitano
Bene navigavi, naufragium feci. Si deve a Massimo Cacciari l’epitaffio che meglio descrive il passaggio di Giorgio Napolitano nella vicenda politica. Con l’aggiunta che è della nostra fabula che si narra.
Giorgio Napolitano non è stato un ‘moderato’ e men che meno un ‘revisionista’. Proprio per nulla un pavido. Se il Pci ha coinciso con una complessità di istanze sociali e linee di pensiero, Egli ha dato coerente sviluppo, e sino alle estreme conseguenze, a una parte rilevante del nucleo profondo, specie metodologico, della politica togliattiana. In questo senso, anche nella deriva via via più incline al superamento della stessa socialdemocrazia in direzione del liberalismo, egli è rimasto sino all’ultimo un comunista italiano. Verrebbe da dire l’ultimo comunista (se non altro perchè del gruppo dirigente storico non rimane più alcuno in vita…come vale anche per gli eretici che a un certo punto non a caso Napolitano incrociò sulla sua strada *, il più rilevante dei quali, Mario Tronti, è dipartito proprio in questa torrida estate…). Una appartenenza biografica, del resto, che non ha mai avuto occasione di rinnegare. Un aspetto che mi sentirei persino di estrapolare, sia pure con i dovuti distinguo, a favore degli epigoni di ‘Libertà uguale’ (i Petruccioli, i Morando, i Ranieri…) e altri derivati approdati a una vision compiutamente liberal-liberista. Ivi compresi coloro che con ardita comparazione, come Vacca e lo stesso Reichlin, videro nel Pd renziano lo stagliarsi postumo e aurorale di quel ‘partito della nazione’ posto come compimento della strategia togliattiana del ‘partito nuovo’. Non di tradimento si tratta, ma di coerente svolgimento di un tema sino alla sua degenerazione in un hegeliano mutamento della qualità.
La missione del Pci nella storia nazionale: compiere la rivoluzione democratica e superare le arretratezze ereditate dalla ‘rivoluzione passiva’ risorgimentale, portare le ‘masse lavorative’ nello Stato, unificare la sinistra, realizzare il dettato costituzionale repubblicano isolando e neutralizzando, con una vasta politica di alleanze e compromessi ‘avanzati’, le componenti reazionarie delle quali fu espressione il fascismo. Una politica economica volta all’allargamento delle basi produttive, contro i monopoli e le rendite parassitarie, la redenzione sociale del Mezzogiorno, lo sviluppo dei ‘beni necessari’ e dei ‘consumi collettivi’ nel quadro di una economia mista programmata con una forte presenza pubblica, in alleanza con la borghesia ‘illuminata’ e i ‘ceti medi produttivi’. Quelle che il gruppo dei’ cattolici comunisti’ della Trimestrale tematizzò, con ispirazione ricardiana, come le ‘riforme grano’. Una democrazia ‘organizzata’ fondata su partiti socialmente innervati e volti all’integrazione, su robuste strutture di capitale sociale e sulle forme partecipative locali e autonomistiche sperimentate sin dal ‘socialismo municipale’, accogliente elementi di socialismo, plausibile pure in una geo-politica divisa per blocchi giudicata inamovibile e considerata come tappa di una marcia attraverso le istituzioni di lungo periodo, verso un socialismo compiutamente democratico.
Una politica non solo compatibile con la visione gramsciana della ‘guerra di posizione’ nella lotta per l’egemonia, ma anche con alcuni dei postulati evoluzionistici classici del marxismo e del leninismo.
Senonchè il confine fra mettere i calzari della storia e calare le brache, fra grandezza del realismo e infimità dell’opportunismo è sempre labile, e la sentenza se sia l’uno o l’altro a prevalere, il più delle volte è affidata al caso. E comunque a imporevedibili circostanze di luogo e di tempo.
Va da sè che Napolitano è stato un supporter del ‘compromesso storico’, vera e propria colonna portante (a lui la redazione del ‘Piano a medio termine’) a fianco di quel Berlinguer che non amava e che gli era stato preferito all’atto della successionbe a Longo. Essendo quella politica perfettamente sintonica con quella ‘politica dell’incontro’ con le forze democratiche costituenti già inscritta nella ‘svolta di Salerno’. Compromesso storico, appunto, non occasionale. Sebbene il suo sviluppo non solo cozza contro le forze che la osteggiano (gli Usa, in primis), sino alla clamorosa uccisione di Moro, ma anche contro quelle forze intermedie, il Psi soprattutto, che mal sopportano il duopolio Pci-Dc. Sicchè il suo effetto fu di entrare in collisione col Psi, rendendo inagibile l’unità socialista e il rapporto con le forze laiche, politica per la quale sempre si era speso Amendola e la corrente moderata del Pci. Il fallimento del ‘compromesso storico’ implica una regressione e una immobilizzazione del quadro politico nella gabbia del pentapartito, prodromica alla crisi rovinosa della prima repubblica, alla quale Berlinguer si oppone con la contro-svolta dell’alternativa e una guerra sanguinosa al nuovo Psi craxiano nel nome della diversità comunista. Il nuovo corso berlingueriano è visto comeuna vera e propria bestemmia dall’ala riformista guidata da Napolitano, una regressione identitarista e un disassamento rispetto ai postulati del realismo unitarista togliattiano. Dopo avere contribuito ad affossare fattualmente il rapporto col Psi, Napolitano che nel frattempo ha coltivato come precursore non solo real-politico la nuova vocazione euro-atlantica, si fa alfiere dell’unità socialista, prende sul serio il bluff dello slogan craxiano e ne valorizza gli intenti ‘modernisti’ dal lato ideologico (il liberal-socialismo) e politico (le riforme istituzionali, lo sdoganamento delle politiche anti-vincoliste del mercato del lavoro….il punto di scala mobile).
Dopo l’89, la fine del Pci, la nascita del Pds, ma anche la fine della prima repubblica e l’azzeramento del Psi, della Dc e dell’intero pentapartito, Napolitano si propone a tutto azimut come capo-corrente, non più una ‘tendenza’ quale era rappresentata da Amendola e poi, negli ’80, dal suo delfino della ‘corrente del golfo’, ma un raggruppamento organizzato secondo una ferrea disciplina, nel quale, per nulla casualmente, si ritrovano molti degli esponenti del gruppo dirigente togliattiano storico, da Macaluso a Chiaromonte, da Lama a Bufalini. Favorevole alla svolta della Bolognina (non poteva essere altrimenti) Napolitano è diviso da Occhetto e dai suoi seguaci da una fiera inimicizia. Politica e persino antropologica. Nell’ondivaga e contaminata marcia di Occhetto, reo di avere ostracizzato come ‘oligarchia’ l’intera nomenclatura togliattiana, sia di destra che di sinistra, cosiccome di avere ‘usurpato’ senza riguardo il posto di Natta, membro onorato del gruppo dirigente ‘eroico’, Napolitano intravede il rischio di una deriva ‘radicale’ che allontana il partito dall’approdo più coerente: quello della socialdemocrazia europea. Per questo, convergendo con la sinistra del Pds, sosterrà D’Alema anzichè Veltroni nell’ascesa alla segreteria del partito. Per i vecchi ‘togliattiani’ del resto, D’Alema è quello che più si avvicina per cultura e linea politica alla vecchia scuola.
Il Napolitano dei ’90 (cruciale la Presidenza della Camera nella breve legislatura ’92-’94, in piena tangentopoli) già totus politicus dal momento del suo ingresso giovanile nel Pci, è comunque ormai totus istituzionale, membro dell’aristocrazia senatoria, cioè classe servente dello Stato, sino all’ascesa alla presidenza della repubblica nel 2006. Ed è qui che si rivela, pure nell’ambito dell’ossequio istituzionale e di un sobrio quanto innato moderatismo, alieno a ogni forma di fatua personalizzazione, quel lato ‘decisionista’ che ne rende palese la scorza politica decidente, ovvero sovrana. Gli atti compiuti nelle crisi politiche svoltesi durante il suo mandato sono sbalorditivi ed ampiamente eccedenti il ruolo di garanzia. Piuttosto garante dei vincoli euro-atlantici in contrappunto ai disallineamenti berlusconiani nella politica economica ed estera. Emblematici in proposito i pronunciamenti sulla crisi libica, ma soprattutto la soluzione della crisi del governo Berlusconi con la nomina a senatore a vita, brevi manu, di Monti e il susseguente incarico alla formazione di un governo tecnico a diretta emanazione presidenziale. E a seguire, dopo le elezioni del 2013, la sfiducia di fatto al tentativo bersaniano di un governo del ‘cambiamento’ con i 5 Stelle. Nel segno di un ritorno a politiche di ‘larghe intese’, prima con Letta e poi con Renzi, i cui tentativi di riforma istituzionale e di una nuova legge elettorale basati su una inedita primazia dell’esecutivo, già confusamente dibattuti dalla sinistra sin dai ’90 e ben più decisamengte impugnati dalla destra, seppure senza successo, troveranno nella Presidenza una benevola e stimolante attenzione. Sino al discorso decisamente irrituale riservato alle camere riunite in occasione della sua reinvestitura (veramente indesiderata, contrariamente a Mattarella) in seguito allo stallo e al crollo, sotto molteplici attentati, della regia bersaniana.
Se ci si pensa tutte le decisioni prese da Napolitano sono in linea con la cultura unitarista di matrice togliattiana inscritta nel suo dna politico. Il perdurare in corpore homini del tema della razionalizzazione capitalistica, sociale ed economica assieme alla modernizzazione politico-istituzionale. Larghe intese politiche però, a differenza del passato, nel segno suprematista della tecno-burocrazia di orientamento euro-atlantico e di un inedito interventismo presidenziale. Con conseguenze inintenzionali disatrose quanto necessarie. Perchè tale politica si reitera in un contesto nel quale sono collassati i partiti costituzionali ed evaporati i loro referenti sociali storici e identitari e perchè in vista nei passaggi di fase non c’è alcuna trascendente ‘democrazia progressiva e allargata’, piuttosto il suo contrario: una democrazia restrittiva. Una razionalizzazione e un riformismo senza più ‘soggetto’ e senza finalità che non si esauriscano nella ipostatica presunzione delle loro necessità funzionali. Un unitarismo riformatore meramente tecnico-innovativo, senza referenti e soggetti sociali teleologicamente ordinati, senza mete di progresso nell’eguaglianza, senza ‘sviluppo’ ma col solo Dio della ‘crescita’ come obiettivo, seguendo una distinzione a suo tempo formulata da Ruffolo….Il risultato di questi indirizzi non ha rafforzato lo spirito riformista inciso nella carta costituzionale, semmai lo ha devastato. La torsione presidenzialistica della politica si è insediata come un baco nell’orditura di sistema. Grottescamente e furbescamente reiterata da Mattarella (laddove Napolitano si è addossato per intero il fardello della responsabilità, come una ‘necessità superiore’) ha posto le premesse per un mutamento di sistema in senso presidenziale gravido di pericoli. La sinistra ne è uscita letteralmente scompaginata e deformata, mentre la destra, anziche distinguersi secondo il grano e il loglio, si è riunificata e rafforzata attorno agli impulsi più radicali e reazionari. La ‘costituzione materiale’, da tempo uscita come un’ernia dalle prescizioni ordinamentali della seconda parte, ha ormai esautorato, con i fascisti neo-atlantici al potere, anche i postulati ideali della prima parte. Il Pd anzichè trarre lezione dalle conseguenze originate dall’esperienza Monti ne ha reiterato gli errori. Letta, Draghi e Mattarella hanno consegnato il potere alla destra radicale su un piatto d’argento.
Fare le riforme che una classe dirigente borghese debole e corrotta si è mostrata incapace di fare, e persino di concepire. Innervare nelle istituzioni, se non le masse, almeno un sobrio e sacrificale senso dello Stato. Napolitano, partorito dalle fila del Pci, ha rappresentato l’esempio di uno statista grande borghese, innovatore e insieme conservatore, quale nessun membro dell classe dirigente è riuscito a proporre. Operazione neo-luterana perfettamente riuscita nella biografia personale, ma clamorosamente fallita nei suoi esiti sostanziali. Sfidata nella sua dignità, la borghesia, ne è uscita semmai ancor più incattività (e lo si vede bene da certi beceri commenti dei giornali della destra a cadavere ancora caldo). Naufragium feci.
Ma una pena ancor più grande ricevere l’ultimo omaggio nella cripta istituzionale da figuri come La Russa la Meloni e altri ciarlatani, frammisti all’incomparabile santità di Papa Francesco, senza un proprio popolo, come è stato invece per i capi del comunismo che hanno avuto la fortuna di morire per tempo, piuttosto salma imbalsamata nello Stato con il corteo dei suoi abusivi dignitari improvvisati dai bassifondi della politica, in una atmosfera solo rituale, per ufficio. Per atto dovuto dal cerimoniale. Napolitano se va senza omaggio di popolo e con la pelosa ipocrisia della destra. Sebbene grande politico sia stato. Una figura tragica, proprio nel fallimento. L’ultima figura degna del novecento rimasta sulla scena contemporanea, cioè con la grandezza della storia impressa.
Anch’io, nel mio piccolo, ho avuto a che fare con Napolitano. Perciò non mi asterrò da qualche cenno aneddotico, peraltro già ricordato in un altro post del 2015 ( La parlata scorrevole di Re Giorgio e la balbuzie della sinistra). La prima volta, mi sembra corresse il ’69 o il ’70, fu quando egli era nella segreteria del Pci con l’incarico alla cultura, in una riunione romana alla quale partecipammo io e Sergio Sabattini, giovanissimi, e con la presenza di Luporini e Galvano della Volpe. Facemmo discorsi così sconclusionati ed estremistici che Egli ne fu inorridito e nelle conclusioni disse che per quanto ci riguardava avrebbe parlato col segretario della federazione di Bologna. Mi si presentò più che come un dirigente autorevole: un severo Preside piuttosto capace di comminarfe castighi a discoli maleducati. Poi l’ho frequentato con una certa assiduità nelle riunioni a Roma, ancora viventi le Botteghe Oscure, della corrente migliorista. Il Napolitano capo-corrente. E li ebbi modo di anche di conoscere da vicino il gruppo di matrice togliattiana. Tutti, malgrado il rango, erano attanagliati da un vero e proprio rapporto di deferenza verso Napolitano. Per essi era il ‘migliore’ (proprio nel senso tributato a Togliatti), il più capace, il più colto, il più determinato, il più autorevole. E ne temevano il giudizio, che quando calava, anche per piccole questioni di metodo, era come una lama capace di lasciare cicatrici e profondo senso di inadeguatezza in chi cadeva in fallo. Napolitano era inflessibile, non solo autorevole, ma anche autoritario.
Perchè Napoli, luogo di partito debole e senza un nerbo proletario di rilievo, è stata la sede che ha dato alla luce personalità ‘riformiste’ orientate nel senso di una socialdemocrazia dai caratteri ‘nordici’, austera, rigorosa, real-politica, del calibro di Amendola, Chiaromonte, Napolitano, Valenzi e altri autorevoli esponenti politici di rango nazionale ? Alcuno di loro senza alcuna propensione ‘populista’ e vernacolare, per quanto Amendola fosse capace di grande empatia popolare. Personalità rispetto alle quali esponenti della stessa cultura politica agenti in ambiti decisamentge più favorevoli, come l’Emilia e la Lombardia (si pensi a Fanti, a Guerzoni, allo stesso Turci, oppure a Cervetti e ai fratelli Borghini in quel di Milano) marcano sicuramente una diminutio, almeno nel rango ad essi riconosciuto riconosciuto….Il tema è intrigante, ma non è qui il luogo e il momento per avanzare ipotesi…..
* Il riferimento è al convegno padovano del ’77 dove Napolitano fu invitato a concludere il dibattito che sanciva il passaggio del gruppo operaista alla trontiana ‘autonomia del politico’.