Autore originale del testo: Timothy Shenk
Traduzione di Francesco Bonicelli Verrina
Liberal Commitments – Impegni liberali
Dai socialdemocratici ai populisti di destra, passando attraverso una serie di centrismi vari nel mezzo, pare proprio che tutti concordino sul fatto che il liberalismo sia in crisi. Ma che dire delle qualità che i liberali hanno dimostrato al loro apice? Nel suo ultimo libro The struggle for a decent politics (letteralmente: lotta per una attività politica decente), Michael Walzer, a lungo direttore della rivista Dissent, arguisce che possiamo e dovremmo riscattare le virtù della tradizione liberale da questa crisi. Ho parlato con Walzer a proposito del fatto che secondo lui i socialisti dovrebbero orgogliosamente chiamarsi liberali (ndr vecchia idea malagodiana) e sul perché invece ancora così tanti a sinistra dissentano.
Timothy Shenk (autore intervista e direttore): Iniziamo dalla fine del libro, dove scrivi che “le battaglie per la decenza e la verità sono fra le più importanti battaglie del nostro tempo. E l’aggettivo liberale é la nostra migliore arma”. Perché così tanto dipende da un solo aggettivo?
Michael Walzer: Se immaginiamo i tipi di battaglie che vengono condotte contro la democrazia, con Viktor Orban che parla di “democrazia illiberale” e un altro esempio potrebbe essere oggi Israele, se immaginiamo le lunghe vecchie discussioni sul ruolo delle avanguardie nel socialismo, se noi pensiamo le battaglie che dobbiamo fare ai nazionalismi in molte parti del mondo, dove vediamo sempre più sorgere versioni illiberali di nazionalismo, ebbene in tutti questi casi sembra proprio che migliorare la democrazia, il socialismo e il nazionalismo dipenda dal mettere quell’aggettivo, liberale, insistendo sulle qualità che porta in sé. Immagino quelle battaglie appese proprio al peso effettivo del valore di quell’aggettivo.
TS: Metti molta enfasi sulla distinzione fra liberale come aggettivo e liberalismo come pronome. Qual è la differenza fra i due?
MW: Ho iniziato con un paio di altri libri. Carlo Rosselli uno dei miei eroi, leader della resistenza antifascista non-comunista in Italia negli anni 20 e 30, assassinato con il fratello a Parigi nel 1937, pochi anni prima della morte aveva pubblicato un libro: Socialismo Liberale. Ho una amica Yael Tamir la quale aveva fatto una discussione con Isaiah Berlin dalla quale nacque un libro: Nazionalismo Liberale. È stata anche ministro dell’istruzione in uno degli ultimi governi di centro-sinistra in Israele. Stavo pensando al significato dell’aggettivo in quelle due espressioni: Socialismo Liberale e nazionalismo liberale, e mi è parso che l’aggettivo sia molto più pregnante del pronome.
Il liberalismo in Europa oggi assomiglia a un libertarismo di destra, estrema destra, quando in Europa c’era sempre stata una tradizione liberale di sinistra e libertaria di sinistra, questa tendente all’anarchia al radicalismo, che persiste in alcune versioni settarie, poco evidenti al pubblico. Negli USA invece liberalismo generalmente significa ancora “New Deal liberalism”. La nostra è una versione davvero modesta di socialdemocrazia e non è una dottrina forte, dal momento che molti suoi adepti sono diventati in meno che non si dica neoliberisti. Dunque il pronome liberalismo non è forte o coerente come dottrina. Pur tuttavia vi sono liberali. Persone che si definiscono assai meglio moralmente o psicologicamente, come diceva la mia attrice preferita Lauren Bacall: “persone che non hanno menti ristrette”. Un liberale è qualcuno che tollera le ambiguità, che partecipa volentieri alle discussioni senza stare per forza dalla parte vincente, che vive con persone diverse che discutono e dissentono, che appartengono ad altre e minori o diverse tendenze ideologiche e religiose. Quello è un liberale. Un atteggiamento che non implica nessun dogma economico o sociale. Quindi i liberali nel mondo ci sono e li riconosco, ma il liberalismo o liberismo come declinato oggi non li descrive né comprende affatto nel loro impegno politico. La parola liberale viene meglio usata quando definisce e qualifica i tipi di impegno politico: democratico, socialista, nazionale, etc.
TS: Dalle tue parole sembra che il liberalismo sia vuoto al nocciolo, ma liberale come aggettivo sia in grado di mitigare e trasformare visioni politiche del mondo altrimenti potenzialmente estremiste. L’aggettivo liberale è come fosse in grado secondo te di far pervenire e convergere le idee politiche verso significati aurei. Ad esempio un nazionalismo liberale può essere devoto alla comunità nazionale senza chiudersi a un allargamento né cadere in sciovinismi.
MW: Corretto. E voglio aggiungere che un nazionalista liberale è qualcuno capace di riconoscere la legittimatezza di altri patriottismi. L’aggettivo pluralizza. Con riguardo alla democrazia, implica che ci sia un diritto di opposizione, che significa che ci devono essere altri partiti.
TS: Tuttavia vi è una tensione nel ruolo dell’aggettivo liberale accanto a socialismo. Con democrazia liberale, liberale implica un freno un contenimento dell’estremismo maggioritarista che schiaccerebbe i diritti delle minoranze. Ma se si parla di socialismo liberale sembra come sottrarre l’elemento democratico in una tradizione politica che potrebbe virare verso un settarismo nella migliore delle ipotesi o verso un autoritarismo nell’ipotesi estrema peggiore. Come se tu fossi preoccupato dagli eccessi democratici in un caso e dalla loro assenza nel secondo caso.
MW: Non sono certo che l’aggettivo liberale operi nello stesso modo accanto a tutti i pronomi. Ma certo fa un lavoro simile accanto a democrazia e socialismo, poiché con democrazia contiene le maggioranze, mentre con socialismo contiene l’ideologia e i tentativi più impazienti di realizzare una società socialista. Allo stesso tempo implica che all’interno del socialismo stesso debbano esserci diverse tendenze in competizione e dialettica fra loro. Ci deve essere spazio per confronto e disaccordo, quindi sì la liberaldemocrazia è fondamento cruciale per il socialismo liberale.
TS: Fai un caso delle virtù liberali come le definisci. Ma quando guardi alle persone che si autodefiniscono liberali negli Stati Uniti oggi, credi che vivano quelle virtù che tu conferisci al termine?
MW: Alcuni sì.
TS: Perché per me sarebbe alquanto difficile trovare nella cultura politica sedicente liberale oggi una pubblicità a quello di cui tu parli: saggezza, ironia, autoconsapevolezza.
MW: Concordo. La critica di Dissent del liberalismo americano come era negli anni 50 era una critica all’autocompiacimento ed alla mancanza di ironia.
TS: Sono sicuro che ricorderai la battuta di Irving Howe su Adlai Stevenson (ndr candidato democratico alle presidenziali contro Eisenhower) ancora molto attuale.
MW: Ma poi Howe scrisse Socialismo e Liberalismo: articoli per una riconciliazione. Che era il suo modo per criticare un certo socialismo autoritario.
TS: Viene spontanea la domanda su quanto chi si colloca a sinistra possa muoversi fra il liberalismo davvero esistente oggi ed il meglio di quella tradizione liberale che tu vorresti richiamare.
MW: Vi è una tradizione liberale, un liberalismo stile John Stuart Mill in cui penso di potermi collocare e mi ritrovo. Ed è per me alquanto interessante pensare che Mill in alcuni suoi scritti abbia cercato di realizzare un socialismo liberale.
TS: Le visioni di Mill su liberalismo e socialismo sono mutate molto nel corso della sua vita. Il tuo libro non è una memoria, ma qualcosa di più personale di ciò che uno potrebbe aspettarsi da un libro di filosofia politica in fondo. Quando tu guardi indietro alla tua carriera, ritieni che le tue visioni politiche siano state più o meno coerenti?
MW: Sono cresciuto nella cultura del Fronte Popolare, quindi incontrare ex trotzkisti come Irving Howe e Lew Coser, con le loro appassionate critiche all’Unione Sovietica, inizialmente uno shock, penso mi abbia formato in un colpo politicamente, a diciotto diciannove anni. Da trentenne scrissi Storia della Seconda Guerra Mondiale che conclusi con queste parole: la Russia combatte non per il gusto di combattere e conquistare, ma perché finiscano le conquiste. Ho cambiato idea da allora. Era presto e l’incontro con Dissent stabilizzò le mie idee.
TS: E stai attraversando ancora queste ultime trasformazioni proprio al picco massimo di quello che viene descritto dagli storici come il consenso liberale del dopoguerra. Oggi quella tradizione è debole, perché pensi si provi tanta frustrazione nei suoi confronti oggi?
MW: In parte me la prendo con la sinistra socialdemocratica per la sua sottomissione al capitalismo globale. Il fallimento della sinistra nella gran parte di Europa, e soprattutto qua, nel ridimensionare la crescente disuguaglianza prodotta dall’attuale capitalismo è una spiegazione molto importante dell’ascesa di una certa visione di nazionalismo e del populismo di destra. Comprendo i ceti popolari europei ed americani arrabbiati con le elite al potere, falsamente identificate con il centro-sinistra. Ho scritto sulle mie due città, sono cresciuto a Johnstown, Pennsylvania, una ex città-acciaieria. Nel 1937 il piccolo sciopero locale fu represso con forze di vigilanza da fuori. Poi nel 1941 il sindacato organizzò una elezione e il sindacato vinse alla grande e Johnstown divenne una città democratica (ndr evidentemente un notevole cambio vista la tradizione whigh repubblicana fin dall’Ottocento nelle città industriali del nord). Nel 2016 Johnstown ha votato (2 voti a 1) per Trump. C’erano stati il collasso dell’acciaieria, la scomparsa dei sindacati, l’incapacità dei locali deputati democratici al Congresso di fare qualcosa per sostenere la vita del posto. La mia seconda città è Princeton, New Jersey, dove vivo da 40 anni ed è una delle città più ricche d’America, che ha votato (6 voti a 1) per Hillary Clinton. Qui c’è la sociologia della sinistra americana. I New Deal liberals hanno abbandonato i lavoratori e hanno mantenuto solo il ceto medio colto per altro assottigliato. I lavoratori hanno scelto un demagogo populista che ha promesso di riportargli la vecchia America.
TS: Quale ruolo ha giocato l’università in questo processo?
MW: L’università è stata culla di una sinistra inizialmente bella nelle sue origini negli anni 60 e 70, disastrosa nei suoi sviluppi terminali. Ho spesso raccontato la parabola del nostro movimento antibellico di Cambridge, Massachussetts. Avevamo dato vita a un comitato di vicinato pro Vietnam, che era essenzialmente un progetto di Harvard. Quasi tutti i membri erano studenti, esenti dalla chiamata, che andavano per la città di casa in casa a parlare con famiglie che di solito avevano naturalmente i figli a combattere in Vietnam. Penso ancora, come mi è capitato di dire, che fossimo dalla parte giusta, ma una campagna del genere era un triste fallimento. Nel nostro piccolo abbiamo contribuito a creare il movimento dei Democratici per Reagan (ndr sorto dal movimento anti-Johnson del democratico del Minnesota Eugene McCarthy).
TS: I Democratici per Reagan che sono poi diventati i Repubblicani più trumpiani. Mi domando quando tu guardi alla nostra università pensi si sposi alla tua idea liberale?
MW: Non sono in università dal 1980, ma sento e vedo cose molto diverse e contraddittorie. Vi è un crescente corporativismo, un crescente burocratismo, una amministrazione in espansione aziendale e interessata solo al business dell’istruzione non al suo carattere. Si è venuto a creare un proletariato accademico con il taglio di posizioni di ruolo. I più lavorano part-time in università con contratti a termine, senza benefici, spesso costretti a far due lavori. Ho visto l’inizio di questa precarizzazione negli anni 70 ad Harvard (ndr l’università progressista per eccellenza). Un processo disastroso per l’istruzione. Allo stesso tempo sta crescendo l’attività politica studentesca, di sinistra, slegata da ogni partito o movimento politico adulto. Sono membro di un gruppo di professori liberali di sinistra che lavorano su questioni relative Israele. Proviamo a convincere l’establishment ebraico che l’unico modo di difendere Israele oggi è da una posizione critica, provando anche a convincere allo stesso tempo gli studenti di sinistra sempre più illiberali, che dovrebbero sostenere sia i liberaldemocratici sia i nazionalisti liberali in Israele e Palestina e lavorare per una posizione di coesistenza nazionale liberale. I miei ultimi incontri universitari non sono stati incoraggianti.
TS: Questo fa sorgere un’altra domanda su quello che potremmo chiamare criticismo fra compagni di lotta. Nel libro, dici che è importante evitare risposte rancorose. Parli di quello che fece Dissent durante la guerra in Iraq quando alcuni volevano buttar fuori quelli che avevano scritto articoli pro intervento. Tu eri contro l’intervento, ma hai sentito dentro di te che la domanda fosse esagerata. Senza che arretrassi di un passo dalla tua posizione, come hai bilanciato la tua avversione al settarismo con la tua posizione?
MW: Ogni movimento liberale deve avere delle linee rosse. Ricordo che un punto cruciale era ad esempio che su Dissent non avremmo mai pubblicato nulla in difesa dello Stalinismo e tuttavia pubblicammo Isaac Deutscher, ma solo corredato con risposte molto forti alle sue tesi, di modo che i lettori sapessero la nostra posizione. Ho provato a fare lo stesso durante gli anni della guerra in Iraq, pubblicando un simposio sul perché andare in guerra nel 2003, otto commenti, sei contro due pro. Penso la posizione editoriale fosse chiara, ma allo stesso tempo abbiamo concesso spazio a un dissenso interno. E mi arrabbiai quando certi colleghi volevano che togliessi i due commenti favorevoli. È importante avere posizioni, principi, che includano il disaccordo, fino a un certo punto, oltre il quale non possiamo accettare. Ma non solo si discute su queste linee di confine ma anche all’interno.
TS: Abbiamo già parlato del dopoguerra come momento di una certa fusione fra liberalismo e socialdemocrazia. Tu dici che quella versione del liberalismo è stata la stagione che ha aperto la strada al neoliberismo del Partito Democratico. Nel libro parli anche di quando fosti alla Casa Bianca per gli accordi di Oslo del 1993, un momento di speranza per Israele e Palestina. Hai marciato a favore della UE nel Regno Unito all’epoca del referendum sulla Brexit. In ognuno di questi due scorci c’è un momento di ottimismo seguito da una lunga delusione che porta al presente. C’è una ragione per la quale questi due momenti che citi sono così intensi?
MW: Non bisogna chiedere queste cose ai vecchi perché stiamo a parlare dei bei giorni andati lamentandoci del presente.
TS: Ma è la stessa frustrazione che oggi guida tante giovani voci, sono nostalgici di tempi che non hanno visto. Una fame che li guida verso azioni politiche più radicali. Possiamo piuttosto discutere se quella rabbia sia controproducente, penso spesso lo sia, ma non si può commentarla se prima non si prova a capire da dove proviene.
MW: Facciamo esperienza in questo momento storico di una sconfitta dopo l’altra, con vittorie occasionali, come le elezioni in Brasile. Ho appena avuto scambi telefonici e di mail per festeggiare la vittoria, così rara. Qualcosa per cui brindare, facendo le congratulazioni al popolo brasiliano che non ha più votato Bolsonaro.
TS: Ma su una più ampia scala sociale e culturale, diritti omosessuali, diritti delle donne, equità razziale, non ci sono state solo sconfitte, è più una narrazione che un vero e proprio declino. È solo che ci sono state lungo il cammino alcune notevoli grandi sconfitte.
MW: No le sconfitte sono state tante, molto grandi, e alcune con lunghe conseguenze, quali la scomparsa dei sindacati. Dobbiamo domandarci come certe conquiste liberali siano andate avanti pur in un contesto globale di crescente disuguaglianza economica e sociale. La socialdemocrazia ha fatto i suoi giorni, benché nel mondo occidentale ci stiamo ancora sforzando di difendere i traguardi da essa raggiunti. Ma non abbiamo in vista nessuna idea di andare oltre, anzi i più hanno accettato la sconfitta. Io tuttavia continuo a credere e penso debba essere una fede liberale, che la stragrande maggioranza delle persone vorrebbe il vecchio programma liberale social democratico, aggiornato come temi. Credo si tratti solo di avere il coraggio di ripresentarlo e portarlo avanti. Sarò naif ma penso che le sconfitte in buona parte siano colpa della sottomissione al neoliberismo e della rinuncia a quel programma. Le vittorie non sono impossibili. Detesto il senso di rabbia, frustrazione che viene dall’idea che il mondo ce l’abbia con noi e non si possa far altro che abbattere le “elite”. È populismo. Penso dobbiamo provare a fare opposizione davvero, militante, vissuta, che rappresenti una società meno ingiusta.
TS: Sono con te sul bisogno di continuare a sperare. Citi una vecchia barzelletta ebraica nel libro: in uno shtetl in Europa orientale un uomo viene scelto per stare seduto all’ingresso del villaggio ed aspettare il Messia, cosicché gli abitanti possano essere avvisati in tempo. Un amico gli chiede, ma che razza di lavoro è mai questo? Non è un lavoro ben pagato, risponde il primo, ma se non altro stabile e sicuro. Il socialismo liberale è un lavoro di temperanza che suggerisce allo stesso modo che anche se non vedremo realizzarsi e avverarsi niente di simile, l’impegno per questa lotta vale di per sé la pena. Ma come rispondere a chi vuole dei cambiamenti ora, subito, a chi deve essere confortato dall’impatto con questo mondo che crolla e ha bisogno di rassicurazioni e aspettative ragionevoli?
MW: È un problema di sempre. Offriamo un programma di cambiamento graduale anche se l’espressione è detestabile, perché se pensi a Clement Attlee e a Lord Beveridge (ndr liberale inglese autore del welfare state e del manifesto di Oxford ispirazione dei partiti liberali e dell’Internazionale Liberale) con l’istituzione dello stato sociale britannico dopo la guerra, non è stato un cambiamento graduale.
TS: Una trasformazione rivoluzionaria della vita quotidiana.
MW: Sì. Dobbiamo ricordarcene e guardare a quei momenti trasformativi. Non è stato l’arrivo del Messia. È stata la creazione di uno stato di diritto sociale ed equo. Era il punto di partenza per una società molto molto migliore di quella esistita fino ad un attimo prima. Ho provato a capire il fenomeno con esempi locali. Ebbene sono cresciuto a Johnstown, il sindacato arrivò lì nel 1941, noi arrivammo nel 1944 e forse non capimmo il cambiamento che in quel posto era avvenuto. Ma gli operai guadagnarono meglio e i servizi civici divennero davvero servizi per tutte quelle persone per le quali non lo erano mai stati. Il sentimento della vita cambiò in tutta la città. Queste vittorie danno il senso, dobbiamo parlarne, valorizzarle, raccontarle, perché sono ispiratrici e ancora possibili.