Fonte: Fondazione Pintor
di CHRISTIAN RAIMO – 28 agosto 2014
Matteo Renzi qualche giorno fa ironizzava sulle minacce di prossimi conflitti sociali e rispondeva con il tweet: «I sindacati vogliono un autunno caldo? Facciano pure, tanto l’estate non è stata un granché». È un sarcasmo che il premier sa di potersi permettere. Non soltanto perché, come sottolineava Dario De Vico qualche giorno dopo sul Corriere, i sindacati non sono affatto popolari, o perché, come commentava un lettore in calce allo stesso articolo on line, «per la mia generazione sindacato è una parola simile a comunista o hippie, ovvero fa riferimento a un periodo e a dei contesti ormai slegati dalla realtà». Il credito che i sindacati hanno visto assottigliarsi – sottoposti a una guerra retorica da destra a da sinistra che li descrive ormai come delle reliquie culturali («retrogradi, relitti di un’epoca passata, istituzioni non più funzionali all’industria e ai servizi moderni», Luciano Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe) – non è più alimentato dalla linfa che ha nutrito il movimento operaio e in generale la storia delle battaglie del lavoro: questa linfa è semplicemente la narrazione del lavoro.
Con lo smaterializzazione del lavoro, con il declino dell’industria e il debordare del terziario avanzato, l’esperienza del lavoro è diventata dal tardo Novecento in poi per molti versi un’esperienza quasi pornografica. Il lavoro non si vede, del lavoro non si parla. Un ragazzo del liceo può non essere mai entrato in una fabbrica, può non aver mai visto come è fatto un ufficio o un laboratorio artigianale. Non soltanto: può non aver mai letto un libro o visto un film in cui il lavoro fosse la questione centrale o un carattere importante dei personaggi.
E, paradossalmente, la prima volta che si troverà a parlare di lavoro sarà magari a un colloquio o durante uno stage, e lo farà secondo delle retoriche aziendaliste ormai invalse anche in chi cerca speedy-boys o ragazzi che distribuiscono volantini. Ecco qui il paradosso: se dai call-center agli uffici dei Ceo delle multinazionali, è tutto uno storytelling; fuori nel mondo di chi prende un caffè al bar, o si butta sul divano stanco la sera, il lavoro è un argomento dimenticato se non tabù: «Non mi vorrai mica parlare del lavoro? Sto chattando».
Per queste ragioni, quando quest’estate con il gruppo di Sbilanciamoci abbiamo deciso di dedicare cinque speciali estivi alle narrazioni del lavoro al tempo infinito della crisi, è come se ci fossimo dati un compito da inserto estivo con un tema strano, addirittura esotico. Chi racconta il lavoro oggi non è uno scrittore che si riscopre un realista sociale, ma è piuttosto per indole e ambizione un reporter di viaggi, un narratore salgariano, un autore di fantasy che prova a inventare lingue sconosciute. Le sue storie daranno corpo a vicende paradossali, grottesche, di anti-eroi improbabili; i suoi personaggi capiterà che vivranno avventure solitarie e non rappresenteranno altro che se stessi, o magari una patologia sociale più che una condizione di classe.
I cinque racconti che avete letto in queste pagine – quello di oggi è l’ultima puntata – insieme agli articoli che abbiamo voluto confezionare per provare a tracciare delle linee anche storiche, avevano questa piccola ambizione, quasi un desiderio clandestino, prima che arrivino le nuove jacquerie.
da Sbilanciamo l’Europa, inserto ne il manifesto del Venerdì