Gianni Brera coniò in onore di Mariolino Corso “Mandrake” e “Il participio passato del verbo correre“
I compagni di squadra della grande Inter ricordano Mario Corso
Aristide Guarneri disegna in maniera esemplare la figura di Corso: “Io più di tutti Mario l’ho vissuto in prima persona. Perché non tutti probabilmente lo ricordano, ma io e Mario vivevamo insieme quando giocavamo all’Inter. Stavamo in Porta Romana, nell’abitazione di una signora, vedova: dormivamo in una grande stanza con due letti, poi mangiavamo al ristorante. Parlava poco, ma poi picchiava dentro sempre la sua battutina scherzosa, velenosa”.
Insolente, dicevamo. Ma non scansafatiche: “No, quello era impossibile, perché durante gli allenamenti Herrera era intransigente con tutti, non potevi rallentare. Poi è vero, non aveva la fisicità di Jair o Facchetti, ma a suo modo Corso era sempre avanti agli altri: lo era grazie al suo cervello e al suo sinistro. Glielo dicevo sempre: con lui la palla arrivava a destinazione con un passaggio anziché con due. Negli ultimi 40 metri illuminava il gioco, letteralmente”.
E poi quelle punizioni: “Ne avevamo di gente capace di battere le punizioni: pensate solo a Suarez, ad esempio. E considerate sempre come erano i palloni che usavamo a quell’epoca, specialmente quando erano bagnati. Ma quando c’era un calcio piazzato, Mario arrivava: si avvicinava sornione al punto di battuta e poi dipingeva. Come contro il Liverpool”.
Boninsegna: “Mi ha fatto fare tanti di quei gol…”
Commosso anche il ricordo di Mario Corso Roberto Boninsegna, suo ex compagno in nerazzurro: “E’ stato un grande giocatore, ho avuto la fortuna di giocargli davanti: con quel piede lì mi ha fatto fare tanti di quei gol… – dice l’ex centravanti – Un paragone con il mondo d’oggi? Lo si può paragonare a Dybala, stesse caratteristiche. Comunque resta un grande giocatore, di quelli che hanno fatto grande la maglia nerazzurra”.
Era amico di tutti, Mario. E Tarcisio Burgnich lo conferma, con grande malinconia: “Aveva il suo modo di fare, ti prendeva un po’ in giro ma, ad esempio, io con lui non ho mai litigato, nemmeno una volta. Era un calciatore eccezionale, tecnicamente fortissimo. Era un po’ un vagabondo, in campo, ma si allenava con costanza. Anche oggi sarebbe stato uno dei migliori giocatori al mondo. E al tempo lo era. Era il massimo”.
Gianfranco Bedin, il mediano della Grande Inter e pure il ‘giovane’ di quel gruppo di campionissimi è molto scosso. “Cinquant’anni di ‘amore’ non sono uno scherzo, abbiamo avuto un rapporto splendido. Ci trovavamo spesso, anche lo scorso capodanno lo abbiamo trascorso assieme. Mariolino poteva apparire un tipo riservato a chi lo conosceva superficialmente. Ma vi garantisco che si trattava di una persona arguta, un fine umorista, un uomo elegante e profondo, dalla grande intelligenza. Del giocatore non parlo tanto è inutile: la sua classe è nota a tutti gli appassionati di calcio. E ai giovani consiglio di andarsi a vedere i filmati”.
Angelo Domenghini: “Uno dei più grandi calciatori della storia dell’Inter, un grande professionista, che dava sempre il buon esempio, in campo e fuori . “Era un grande talento, taciturno, ma faceva sempre i fatti. Mai una polemica, è sempre stato un professionista in campo e fuori”, ricorda Domenghini in un’intervista all’Agi. “Nell’immaginario collettivo – aggiunge l’ex ala destra della Grande Inter – resterà sempre legato alle punizioni a ‘foglia morta‘, a scavalcare la barriera, di cui Corso era un maestro”. In quella squadra c’erano grandi campioni come Sandro Mazzola, Jair, Luis Suarez, Giacinto Facchetti, ma Corso non era secondo a nessuno per Domenghini: “Semmai – sottolinea – erano Mazzola, Domenghini e gli altri ad essere messi in ombra dal talento di Mario, il talento più puro di quell’Inter”.
Sandro Mazzola, anche lui ex stella dell’Inter, ricorda in una lunga intervista ai microfoni della rosea il personaggio di Mario: “Un carattere particolare, parlava poco, ma dovevi capirlo: in campo era facile”
“E del resto gli anni Sessanta distano ormai quasi sessant’anni… Non sapevo che Mario fosse ricoverato in ospedale e quindi sono rimasto ancora più addolorato. Perché abbiamo condiviso molta strada non solo da calciatori ma anche nelle nostre vite successive. Da dirigente nerazzurro gli chiedevo di andare in giro a osservare i giovani, per i quali aveva un occhio particolare. E quando Corso veniva a dirmi ‘quello è da prendere’, lo prendevo senza il minimo dubbio”.
Sulla domanda se fosse il pupillo di Moratti, Mazzola non ha dubbi:
“Assoluta verità: il nostro presidente stravedeva per lui, lo divertiva troppo. E glielo dimostrava spesso: ho ancora negli occhi il Mercedes Pagoda che gli regalò ad Appiano Gentile… Ci avevo fatto un pensiero anche io… Ma tutta la famiglia, devo dire, amava Mariolino. Lui aveva un carattere particolare, era di poche parole: bisognava capirlo”.
Storie di Calcio
CORSO Mario: l’atipico del calcio italiano
E’ stato Mandrake, ma anche il “participio passato del verbo correre”. E’ stato un giocatore incedibile nonostante finisse ogni estate al primo posto nelle liste di cessione, è stato considerato un genio ed un lavativo, il tormento e l’estasi di una generazione di tifosi nerazzurri, il prototipo degli “atipici”. E stato forse il giocatore che più marcatamente di qualunque altro ha usato un solo piede, ma in maniera così meravigliosa che il Commissario Tecnico di Israele, dopo una partita delle qualificazioni ai Mondiali del Cile, arrivò a dire “siamo stati sconfitti dal piede sinistro di Dio”.
Quella sera, a Tel Aviv, Mario Corso, ventunenne promessa dell’Inter, aveva letteralmente ribaltato l’esito della partita trascinando con due reti la squadra azzurra alla vittoria per 4-2 dopo un primo tempo chiuso con Israele in vantaggio per 2-0. Sulla panchina azzurra quella sera accanto a Giovanni Ferrari siede anche Helenio Herrera che è destinato ad essere l’uomo del suo destino nel bene e nel male.
Nonostante questo inizio prodigioso Mario Corso, “Mariolino” per i suoi tifosi , non avrà fortuna in maglia azzurra, confermando la sua natura di campione “croce e delizia” di tifosi ed allenatori.
Corso è un genio, è unico in tutto. Veste la maglia numero 11, ma non è un’ala sinistra, nè un attaccante; come centrocampista risulta spesso un lusso, in quanto non è certo uno che si sacrifica in fase di contrasto, ma quando è in giornata è entrambe le cose assieme: un grande centrocampista ed un grande attaccante.
Usa il piede sinistro ora come un bastone, ora come un uncino, ora come un pennello, ora come una stecca da biliardo; i suoi lanci sono millimetrici, i suoi tiri a volte secchi e potenti a volte “liftati” e morbidi; inventa la “punizione a foglia morta”, che esegue in maniera ineguagliabile : colpo sotto con il piede sinistro e la palla supera la barriera spegnendosi nell’angolo alto lontano dal portiere, dolcemente, quasi con studiata lentezza.
Così Corso ricorda la sua specialità: “Era un mio colpo istintivo che mi riusciva con grande naturalezza grazie alla sensibilità con cui toccavo la palla. Ad accorgersene fu Nereo Marini, uno dei miei primi allenatori che ebbi quando ero ancora giovanissimo e giocavo nella squadra della mia città”.
Nato a San Michele Extra, alle porte di Verona, Corso arrivò all’Inter insieme a Mario Da Pozzo, in una operazione di contorno a Claudio Guglielmoni che veniva considerato il vero talento dalla squadra del suo paese, l’Audace San Michele, a diciassette anni, nel 1958, entrando subito nel gruppo dei titolari e debuttando il 23 novembre dello stesso anno in un Inter Sampdoria 5-1 quando Bigogno lo chiama in prima squadra per sostituire Skoglund. Sette giorni dopo, a Bologna, la sua prima rete in serie A.
Nella “Grande Inter” gioca dove lo porta l’estro, si piazza fra il centrocampo e l’attacco e di quella squadra fantastica è il simbolo più inconfondibile, è lui il “cocco” di Lady Erminia, la moglie di Angelo Moratti, che ne asseconda tutti gli estri. La convivenza fra il”Mago” e Mandrake non sarà mai pacifica; Herrera, abituato a primeggiare, non tollera che vi sia qualcuno che lo superi nella considerazione dei Moratti e ogni anno, buono e meno buono, mette il nome di Corso in cima alla lista dei giocatori da cedere, ottenendo sempre un bonario, ma deciso, rifiuto dal Presidente che non accetta neppure di prendere in considerazione la cessione di quello che lui considera un genio. “Non andavo a San Siro solo per lui”- dirà una volta Lady Erminia in un intervista -“ma se c’era lui ci andavo più volentieri. Ero certa che mi sarei divertita”.
Non è tuttavia solo un soprammobile, un lusso; nella storia dell’Inter segna gol fondamentali : quello che nei supplementari contro l’Independiente, in un Santiago Bernabeu quasi vuoto sotto una pioggia torrenziale, regala alla squadra nerazzurra la prima Coppa Intercontinentale, oppure il gol su punizione a “foglia morta” che apre la famosa rimonta con il Liverpool a San Siro l’anno dopo.
Ma il capolavoro della sua carriera è la stagione 1970-71 quando, partito Suarez, Corso prende in mano l’Inter, diventandone dopo tanti anni finalmente l’indiscusso “regista” e con una stagione straordinaria per qualità e continuità la trascina ad una incredibile rimonta sul Milan partita da -7 e conclusa con la conquista dell’undicesimo scudetto nerazzurro.
E’ quello l’anno della sua apoteosi alla vigilia dei trent’anni. Il derby di ritorno, decisivo per l’assegnazione del titolo, lo vede assoluto protagonista, lui, che secondo Gianni Brera soffriva particolarmente quella partita, ne è l’autentico mattatore: prima segna il gol del vantaggio con una punizione beffarda che aggira la barriera quasi rasoterra sorprendendo Cudicini che si aspettava la classica “foglia morta”, poi vince un contrasto da ovazioni con Gianni Rivera e lancia il contropiede del definitivo 2-0.
La sua stagione è tanto straordinaria da riportarlo addirittura nel giro azzurro dal quale è uscito alla sua maniera ai tempi del Mondiale del Cile, nel 1962: Giovanni Ferrari, il C.T. azzurro, lo ha appena escluso dalla lista dei 22 e sta seguendo dalla tribuna di San Siro l’amichevole fra l’Inter e la nazionale cecoslovacca che sta preparandosi al Mondiale, quando Mariolino Corso col suo sinistro magico inventa un gol fantastico, un tiro splendido dopo una serie di dribbling in un fazzoletto d’erba che strappano l’applauso anche agli avversari; dopo quella prodezza Corso cerca con gli occhi il C.T. in tribuna e gli dedica un plateale gesto dell’ombrello. La cosa fa scalpore, i perbenisti insorgono e la maglia azzurra da allora in poi diventerà irraggiungibile per Mandrake.
Ma non è questo l’unico gesto clamoroso di una carriera dal punto di vista disciplinare almeno turbolenta. Su di lui fioriscono gli aneddoti: una volta durante la consueta arringa pre-partita di Helenio Herrera che annuncia una vittoria certa, la sua vocetta carogna consiglia il Mago, in estasi catartica , di sentire “cosa ne pensano nello spogliatoio accanto” provocando una risata liberatoria che spoglia HH del suo fascino mistico.
Ha la fama di “mangia-allenatori” e si racconta che sia lui a guidare anche la rivolta contro l’altro Herrera, Heriberto, che culmina nell’esonero del tecnico paraguayano a favore del più malleabile Invernizzi, nell’anno della grande rimonta sul Milan. Il motivo ? HH2 pretendeva che si allenasse come e quanto Bedin.
Infine la sera dell’1-7 col Borussia, passata alla storia per la lattina che avrebbe colpito Boninsegna, viene espulso dall’arbitro Dorpmans, che lo accusa di averlo preso a calci nel concitato finale, e viene squalificato per sei turni nonostante l’annullamento della partita. Corso non ammetterà mai la sua colpa e durante un’intervista anni dopo parlerà della sua maxi-squalifica come di un necessario compromesso, per bilanciare la sentenza che, facendo ripetere la partita, di fatto riammetteva l’Inter alla Coppa dei Campioni.
La resa dei conti arriva però nell’anno in cui, dopo due annate deludenti con Invernizzi, il presidente dell’Inter, Ivanhoe Fraizzoli, decide di richiamare all’Inter Helenio Herrera, che a Roma non ha combinato granchè, ma che a Milano ha ancora molto credito. Stavolta non c’è più Moratti e la lista di proscrizione del Mago ha al primo posto, come sempre, il nome di Corso che finisce al Genoa tornato in Serie A.
Sembra che la partita fra i due sia chiusa, ma come nei fumetti Mandrake riesce ad avere l’ultima parola : quando l’Inter gioca a Marassi, Corso le segna un gol addirittura di testa, un’autentica rarità per uno come lui che quando giocava sembrava davvero portare il cappello a cilindro. Nel 1974/75, con il Genoa mestamente caduto in serie B, chiude con tre presenze la sua ultima stagione da professionista.
Successivamente, segue a Coverciano il supercorso per allenatori, che termina nel 1977. Allena inizialmente la primavera del Napoli (1978-79), quindi il Lecce ed il Catanzaro. Infine il grande rientro alla squadra del cuore, l’Inter, dove fa da chioccia alla squadre primavera. Nel 1985-86, il presidente Pellegrini lo chiama ad allenare la prima squadra, al posto di Ilario Castagner, traghettando l’Inter al sesto posto, unica presenza da allenatore in serie A per poi rientrare nei ranghi di osservatore.
Testo di Francesco Parigi
LA CARRIERA DI “MANDRAKE” CORSO | |||||||
Campionato | Coppe Europee | Coppa Italia | |||||
Stagioni | Squadra | Pres. | Reti | Pres. | Reti | Pres. | Reti |
1957/58 | Internazionale | 0 | 0 | – | – | 1 | 1 |
1958/59 | Internazionale | 18 | 4 | 1 | 0 | 4 | 1 |
1959/60 | Internazionale | 31 | 7 | – | – | 1 | 3 |
1960/61 | Internazionale | 31 | 10 | 5 | 3 | 3 | 1 |
1961/62 | Internazionale | 30 | 9 | 2 | 0 | 0 | 0 |
1962/63 | Internazionale | 30 | 8 | – | – | 1 | 0 |
1963/64 | Internazionale | 29 | 6 | 5 | 2 | 0 | 0 |
1964/65 | Internazionale | 30 | 8 | 5 | 1 | 2 | 0 |
1965/66 | Internazionale | 30 | 3 | 4 | 1 | 0 | 0 |
1966/67 | Internazionale | 32 | 4 | 9 | 1 | 0 | 0 |
1967/68 | Internazionale | 24 | 2 | – | – | 7 | 1 |
1968/69 | Internazionale | 27 | 4 | – | – | 0 | 0 |
1969/70 | Internazionale | 23 | 2 | 8 | 0 | 5 | 1 |
1970/71 | Internazionale | 29 | 3 | 2 | 0 | 1 | 2 |
1971/72 | Internazionale | 29 | 2 | 2 | 0 | 9 | 1 |
1972/73 | Internazionale | 21 | 3 | – | – | 6 | 0 |
1973/74 | Genoa | 23 | 3 | – | – | 0 | 0 |
1974/75 | Genoa | 7 | 0 | – | – | 0 | 0 |
Totali | 440 | 78 | 42 | 10 | 40 | 9 |
da Globalist – di Marco Buttafuoco
Mariolino Corso, il piede sinistro leggendario che dava del ‘mona’ a Herrera
Un atipico, in tutto e per tutto. Così si potrebbe riassumere la vicenda calcistica di Mario Corso, morto oggi a settantotto anni.
Fu ai suoi i tempi, quelli dell’Inter dei primi anni sessanta, l’Inter di Helenio Herrera, dei talenti più puri. Il suo piede sinistro era una leggenda calcistica di allora; usava solo quello per giocare, il destro, come scriveva Gianni Brera, gli serviva solo come appoggio, come stampella. Era capace di dribbling prodigiosi e di calci di punizione con una traiettoria (la celebre “foglia morta”) che si abbassavano subito dopo aver scavalcato la barriera, ma non entrò mai veramente, nella storia del calcio.
Dava l’impressione di stare in campo svagatamente, con pigrizia. Si muoveva con passo lento, meditabondo, a lampi. Appariva e spariva. Micidiale, nelle giornate giuste, con la palla al piede, latitava in tante occasioni. Non aveva la stoffa del leader come il suo coetaneo Gianni Rivera, né, ovviamente si dannava nei recuperi o in copertura come Sandro Mazzola.
L’Italia calciofila di quegli anni era dominata da questa grande rivalità fra l’asso di Alessandria e il figlio del grande Valentino e la nazionale faceva fatica a trovare un equilibrio fra i due. Corso era semplicemente, fra loro, un terzo incomodo, se non un replicante; non per abilità minori, ma solo perché non era un uomo squadra.
Nel 1966 il CT Edmondo Fabbri schierò in campo tutti e tre gli assi. Era una partita contro la Francia ed esordiva in nazionale un certo Luigi Riva.
“ I francesi – scrisse Brera – non sono molto più di nulla, ma i nostri (tre) deliziosi abatini danzano sulla palla a miracol mostrare. Potrebbero costruire per Riva ma, evidentemente non lo ritengono degno dei loro lanci”.
Già, gli Abatini, Brera chiamava così i grandi talenti privi di verve agonistica.
Corso fu molto più abatino dei suoi illustri colleghi; era oltretutto insofferente alla disciplina calcistica e trattava con disdegno Herrera ogni volta che lo richiamava) ( “Tasi mona” lo apostrofava con il suo dialetto veneto.)
Tuttavia la piazza interista lo adorava e il Presidente Moratti non lo cedette mai. Vinse molto col suo club ma non partecipò mai a un’edizione dei Mondiali o degli Europei. E ‘da immaginare che nel calcio odierno un atleta del genere incontrerebbe molte difficoltà nel conquistare un suo spazio, o lo troverebbe solo dopo un adeguato ricondizionamento psicologico. Per lui erano già troppo stretti gli schemi di Helenio Herrera.
Tentò la panchina ma la sua parabola di allenatore fu, non imprevedibilmente, breve e non fortunatissima. Al di là di questo la sua figura è rimasta bene impressa nella fantasia dei calciofili che l’hanno conosciuto.
Un brillante e raffinato scrittore come Edmondo Berselli gli dedicò un libricino, nel 1995, intitolato “ Il più mancino dei tiri”. nel quale il talento di quello che fu uno dei primi trequartisti del calcio moderno è assunto a paradigma dell’imprevedibilità, dell’inatteso che scompagina schemi e previsioni rigide. Un libro divertente e paradossale, pieno di cultura e umorismo, che racconta di calcio, storia, filosofia, canzoni popolari e tanto altro. Scorrendolo oggi, per preparare queste righe, ho (ri)pensato a quanto il calcio sia spesso, e non da oggi, un mondo un po’ triste e troppo autoreferenziale, senza ironia. Giocatori come Mariolino Corso davano, non solo in campo, un tocco di leggerezza e di disincanto