Tutti colpevoli. Nessuno escluso (racconto lungo)

per Davide Morelli
Autore originale del testo: Davide morelli

Degli operatori ecologici lo avevano trovato nella prima mattina disteso davanti alla sua roulotte con la gola tagliata. L’alba come sempre aveva illuminato il misfatto. Il sole aveva sciolto le nuvole, aveva dileguato e infine dissolto la nebbia densa. Il cielo di quel giorno era terso e non sembrava avere alcunché di inedito. L’aria era secca. Il paese non era altro che un grande agglomerato di case diviso in due dalla statale e subito a ridosso di alcuni monti pieni di ulivi, cinghiali e vipere. Era una bella giornata di sole, che però non rasserenava affatto gli animi dei residenti di quella cittadina in cui da tempo immemorabile non avvenivano fatti di sangue. I pensionati erano quasi tutti lì che si godevano il macabro spettacolo, il cinguettio degli uccelli, il frusciare degli alberi. Quel giorno se ne fregavano altamente del malgoverno, delle tasse troppo elevate, del degrado delle città, della malasanità, della corruzione endemica della nazione. In sottofondo si udiva un brusio. Era il loro parlottare sommesso, il loro vocio. Erano lì i più in forma e avevano timore reverenziale delle forze inquirenti; eppure provavano una rabbia inesprimibile per quanto successo e allo stesso tempo cercavano nelle forze dell’ordine rassicurazione. Nessuno di loro si intendeva di morti ammazzati. Mancavano solo gli invalidi e gli allettati che comunque avrebbero mandato a dare una occhiata nel corso della giornata le badanti. I più timidi e i più pigri guardavano dalla finestra. I pensionati nella piazza curiosavano come al solito e stavano già chiedendo informazioni e dettagli a destra e manca; indagavano già a modo loro. Avevano tutti pensieri quella mattina perché con buona probabilità un assassino si aggirava libero e indisturbato tra di loro. Tutti la notte avrebbero chiuso le porte con doppia mandata e molti avrebbero messo anche il chiavistello. Certamente sarebbe aumentata a dismisura la vendita di allarmi e di telecamere di sorveglianza. Le donne avrebbero comprato in molte lo spray al peperoncino e non sarebbero più uscite la sera a far sgranchire le zampe ai loro cani. Non c’era da stare tranquilli. La faccenda non prometteva niente di buono. In molti si chiedevano se si trattasse di un serial killler e se insomma avrebbe potuto agire ancora. Gli interrogativi e le perplessità assillavano le menti. Ognuno aveva le sue ipotesi e i magistrati sicuramente si sarebbero visti arrivare delle lettere anonime in cui si incolpava tizio o caio perché era il vicino o il collega odiato. Lo scirocco e il riverbero del sole scaldavano i visi. Cadevano le foglie dei platani, dopo aver volteggiato nell’aria. Sorvolavano sopra le teste dei presenti i piccioni. Le tortore sostavano sui fili della luce. Sciami di insetti svolazzavano e infastidivano la gente. Oltre quella piazza le zolle dei campi. Ancora più in là il fiume che scorreva opaco come al solito e trascinava i detriti, spesso rifiuti del mondo urbano. Il cielo era sereno quel giorno ma bisognava guardare in basso per capire la tragedia. Una gigantesca pozza di sangue aveva macchiato l’asfalto. Ormai la scena del crimine era stata transennata e c’erano alcuni agenti a controllare che nessuno la violasse. Erano già stati fatti i rilievi. Il corpo non era scomposto. Era sdraiato supino. L’assassino forse l’aveva preso alla sprovvista. I suoi amici speravano che non si fosse accorto di nulla. Ma nessuno sapeva come erano andate effettivamente le cose. Avrà avuto il tempo per capacitarsi che quella era la sua fine? Forse l’omicida gli aveva reciso la carotide senza aver bisogno di usare la forza. Forse l’aveva sorpreso alle spalle e non c’era stata colluttazione. Chi aveva potuto commettere quello scempio? La vittima era alta, muscolosa e con spalle larghe. Per compiere quel delitto con quel modus operandi, cioè usando un arma da taglio, sicuramente l’omicida era altrettanto forte ed agile. Probabilmente non aveva trascinato il cadavere perché non c’erano segni di gocciolamento, anche se bisognava aspettare i risultati dell’analisi delle tracce ematiche della polizia sulla scena del crimine. Probabilmente dopo l’aveva adagiato in quella posizione. Se non fosse stato per tutto quel sangue disperso sembrava che dormisse: infatti ci sono anche persone che dormono stese in decubito supino, anche se i più si coricano proni o distesi su un fianco. Per pochi minuti, prima di essere portato via, si poteva ammirare i suoi zigomi sporgenti, le sue labbra sottili, le sue sopracciglia curate, la sua barba folta e ispida. Nella piazza dove era situata la roulotte senza ruote in cui viveva non c’era nessuno quando era avvenuto il fatto. Nessuna coppia si era appartata lì in cerca di intimità. Molti pensavano che il fattaccio fosse avvenuto di notte; probabilmente a notte fonda. Solo la falce di luna e le stelle gelide erano testimoni dell’assassinio. Nella roulotte non c’era niente fuori posto. La cucina, i fornelli, il bagno, il letto, la stufetta elettrica per riscaldarsi erano tutti in ordine. Se l’assassino ci fosse entrato, dopo avrebbe dato fuoco a tutto per non far rilevare le impronte, ma le cose non erano andate così . Era un barbone sessantenne benvoluto da tutto il paese. Proprio per questo motivo la comunità gli aveva regalato una roulotte. Con il tempo si era fatto conoscere per la sua educazione e il suo civismo. Era sempre pronto a fare cortesie al prossimo. Toglieva anche gli escrementi dei cani dalla pista ciclabile. Faceva quello che avrebbero dovuto fare i padroni dei quadrupedi. Era a suo modo utile. Faceva saltuariamente lavori di giardinaggio. Andava anche a raccogliere le olive. Nonostante la vita di stenti aveva cura della sua persona. Si sapeva che ogni mattina dedicava una mezz’ora alle abluzioni e poi andava nel bagno del bar più vicino, dove il titolare gli offriva cappuccino e salato. Veniva da chiedersi quali nemici potesse avere. Chi poteva avercela con un uomo così umano e così indifeso? Era il più vulnerabile di quella comunità. Avendo quelle menomazioni non aveva potuto sentire i passi né aveva potuto chiedere aiuto. Ma torniamo alle sue qualità umane. Sembrava in pace con il mondo intero, nonostante tutte le vicissitudini sofferte nella vita. Era stato molto sfortunato. Un dramma dietro l’altro. Sua moglie lo aveva lasciato. Il tribunale aveva deciso che i due figli li avrebbe presi lei. Aveva perso il lavoro ed era stato anche sfrattato. Non sapeva come tirare avanti. Era un disoccupato cronico. Non aveva beni al sole. Era nella merda insomma. Aveva anche dei problemi psichici, ma non era pericoloso socialmente. Era innocuo, anche se inizialmente i padri dicevano ai bambini di stare alla larga da quel tipo inquietante all’apparenza. Dicevano all’inizio che era un violento, un ritardato mentale, uno scansafatiche e addirittura un maniaco sessuale perché secondo alcuni guardava le donne con molta insistenza. Ma poi era finita la diffidenza in quanto non aveva mai aggredito e neanche molestato nessuno. L’apparenza spesso inganna. Indossava sempre i soliti vestiti ormai lisi. Si cambiava raramente. Aveva un guardaroba ridotto al minimo indispensabile. Quando l’avevano trovato morto indossava un paio di scarpe da tennis bucate, un paio di jeans sgualciti e un maglione infeltrito. I suoi capelli inoltre erano una massa informe piena di forfora e doppie punte. Sappiamo anche che non aveva dipendenza da alcun tipo di sostanza. Non si ubriacava e nemmeno si drogava. I carabinieri avevano sentito diverse persone del posto e avevano detto che non era affatto nervoso negli ultimi tempi. Avevano detto che era sereno, anche se naturalmente era difficile comunicare con lui perché era una persona non udente e non parlante. Nel paese solo tre persone conoscevano la lingua dei segni e perciò soltanto a loro poteva comunicare ansie, inquietudini, paure, sensazioni di pericolo. Ma non aveva manifestato niente di tutto ciò nell’ultimo periodo a chi lo conosceva e ormai si può dire che lo conoscevano abbastanza bene, visto e considerato che viveva lì da cinque anni. Ma la cosa che spiccava tra tutti i conoscenti e gli amici era che fosse una persona non solo serena ma che infondeva serenità e speranza. Era una persona positiva perché completamente diversa dai soliti uomini, che vogliono essere tutti maschi alfa e sono sempre in competizione tra loro per tutta l’esistenza: vogliono vincere a chi ce l’ha più lungo, a chi è più resistente durante l’amplesso, a chi piscia più lontano, a chi guadagna di più, a chi ha la casa più bella, a chi ha la macchina più veloce e costosa, a chi ha fatto più viaggi, a chi è più intelligente, a chi ha i figli più bravi a scuola, a chi ha la moglie più avvenente, a chi ha avuto più amanti. Diciamocela tutta: la maggioranza di questi uomini sono egoisti, frivoli, superficiali, annoiati e al contempo noiosi. Eppure sono loro quelli perfettamente integrati. Insomma come dicevano un tempo: i pazzi sono fuori; non certo nelle comunità e nei centri di igiene mentale. A lui non importava niente di tutto questo e le considerava tutte fesserie. Chi aveva avuto il piacere di conoscerlo riferiva che aveva avuto il piacere di conoscere un microcosmo completamente originale, di entrare in un altro mondo. Ma ormai non c’era più questo santo laico. Era per tutti questi motivi che gli volevano bene e tutti insieme avrebbero fatto una colletta per fargli il funerale in chiesa e dargli una degna sepoltura. Se la comunità non era solidale in momenti come quello a cosa serviva un paese in fondo? In molti dicevano che la colpa era di tutti se era morto in quel modo. Tutti l’avevano lasciato solo. Tutti erano correi. Alcuni ricchi imprenditori della zona, che avevano decine e decine di appartamenti, avrebbero potuto anche dargli un quartierino o anche solo due stanze per proteggersi meglio dalle intemperie! Che se ne facevano di tutti quei soldi? Magari tenevano degli immobili sfitti! Tutta quella “roba” l’avrebbero portata forse nell’aldilà? Ma in fondo non era successo niente per i benpensanti: per questi era stato ucciso solo un uomo che viveva in ristrettezza economica e ai margini. Certo era un atto vigliacco e da condannare, ma i cittadini per bene, a sentire costoro, potevano dormire tranquilli. Per i benpensanti era una lite degenerata tra barboni. Niente altro che questo. Altri invece sostenevano che in questa società odierna nessuno si salvava e chiunque poteva essere vittima di reati contro la persona o il patrimonio. I delinquenti per costoro non guardavano in faccia nessuno e approfittavano delle debolezze altrui. A tale proposito rammentavano delle molte truffe fatte agli anziani. Insomma il paese era diviso da pareri discordanti. Alcuni ritenevano che forse un gruppo di giovani facinorosi aveva dato sfogo al loro odio nei confronti delle minoranze e che quello era un gravissimo atto di razzismo nei riguardi di un emarginato. In molti si chiedevano se il caro barbone era stato felice per qualche istante nel lungo periodo passato da senzatetto, ma nessuno alla fine poteva rispondere con certezza. Difficile mettersi a valutare la vita di un altro e dire quale sia il senso di una vita. Difficile stabilire ragioni e torti, stabilire quando e perché un meccanismo si è inceppato: a volte basta qualche granello di sabbia. La vita poi è una equazione dalla moltitudine di variabili, alcune delle quali sono stocastiche. La vita è sempre imprevedibile e il passato ha sempre un retrogusto molto amaro. È sempre breve la distanza tra quello che viene considerato un fallito e un cosiddetto uomo arrivato. Talvolta si tratta anche di coincidenze e di caso, anche se coloro che ce l’hanno fatta negano il ruolo della fortuna e citano baldanzosi Seneca: “la fortuna non esiste: esiste il momento in cui il talento incontra l’occasione”. Oppure altri citano Victor Hugo: “il destino mescola le carte, ma è l’uomo a giocare la partita”. Alcuni cercano di esemplificare e creano metafore banali per dire la loro opinione sull’esistenza. I più intellettuali cercano invece metafore più ardite. Ognuno fa le sue considerazioni di carattere generale. Ognuno a suo modo, più o meno intensamente, cerca un briciolo di verità. Ma nessuno in definitiva può dire perché un incontro o un evento fortuito può cambiare completamente il corso di un’intera esistenza e trasformare un perdente in un vincente o viceversa. Ma ritorniamo alla vittima. L’unica cosa di cui si dicevano certi è che si era senza ombra di dubbio salvato l’anima, ammesso e non concesso che Dio esistesse.

Il commerciante :

Era un commerciante storico del paese. Il suo negozio era situato nella piazza principale del borgo in cui c’erano le attività commerciali più redditizie e gli studi dei professionisti più rinomati. Il negozio faceva anche angolo con una via trafficata. Non aveva moglie e nemmeno figli. Era uno scapolo impenitente. I suoi genitori erano morti entrambi un anno prima di vecchiaia. Era rimasto a vivere in un appartamento in zona stazione con sua sorella più giovane ed un Lagotto romagnolo, ormai molto vecchio ma ancora vivace. Viveva giorno per giorno, evitando qualsiasi progettualità. Alcuni andavano a comprare qualcosa nel suo negozio per parlare del governo, del tempo, della crisi economica, del mondo dello spettacolo. Quel giorno aveva appena riaperto, dopo due settimane al mare in una località del Brasile. Quel giorno sorrideva forse perché aveva potuto vedere per giorni tutti quei corpi femminili discinti sulle spiagge assolate o forse per la brezza marina e per il salmastro che inebria nella canicola estiva. Ogni tanto si concedeva dei viaggi in luoghi esotici, in cui fa caldo quando in Italia è inverno. Quel giorno le sue guance scavate sembravano arse dal sole. Era un tipo alquanto strano, per molti bizzarro. I pochi capelli bianchi rimasti erano tutti tirati indietro con la gelatina. Riusciva a mantenere un’aria giovanile, nonostante avesse un aspetto trasandato. Di lui ne avevano sempre dette tante nel paese. D’altronde gli antropologi hanno scoperto che il pettegolezzo esiste da quando è nato l’uomo. Hanno trovato che esiste anche nelle comunità primitive. Pensavano che fosse gay perché non l’avevano mai visto in compagnia di una donna. D’altronde era bruttino, bassino, un poco gobbetto e con la pancia. Aveva gli occhi a mandorla un poco malinconici, il naso pronunciato, alcuni brufoli sul viso, le orecchie a sventola, dei brutti denti ingialliti dalla nicotina. Vendeva mobili in stile marinaro, abbigliamento, barometri, termoigrometri, orologi, modelli di velieri. Ma faceva dei magri affari. In molti ridevano di lui e del fatto che scrivesse dei versi liberi, in cui esprimeva il suo disagio esistenziale. Lui non ne parlava quasi mai dei suoi versicoli, ma quelle pochissime persone a cui l’aveva detto avevano pensato bene di diffondere la voce. Alcuni si chiedevano a chi potessero interessare quelle pseudopoesie di un commerciante sessantenne. Alcuni versi che descrivevano la sua personalità erano i seguenti: “sono solo un clown maldestro/ che non fa ridere nessuno./ Ma non vi preoccupate di me e delle mie parole:/ sono solo l’imitazione di me stesso”. Oppure ancora versi più esistenziali: “Tutto nella coscienza è labile./ Incomprensibile fa rima con indicibile”. Queste naturalmente erano le espressioni più riuscite. Non vi dico le altre. La stragrande maggioranza dei suoi componimenti erano banali, dozzinali, sentimentali. Aveva preso come modelli di riferimento l’ultimo Montale, Caproni, Sereni, Patrizia Cavalli, Cesare Viviani, Nelo Risi. Le intenzioni erano buone ma i risultati erano alquanto deludenti. Potremmo affermare che la sua non era autentica poesia ma vera e propria autodenigrazione. Per fortuna che aveva avuto il buonsenso di non partecipare a premi letterari e di non pubblicare sillogi a sue spese. Aveva risparmiato tempo e denaro. Era un poetastro insomma ma non un rompicoglioni sempre pronto a lamentarsi di essere incompreso. Era un aspirante poeta ma aveva il buonsenso di evitare il ridicolo e non essere un sedicente poeta. Inoltre il suo obiettivo principale negli ultimi anni era stato quello di scrivere un romanzo. Aveva fatto diversi tentativi ma erano tutti andati a vuoto. Fino ad allora tutto era stato vano. Non poteva scrivere un romanzo sulla sua vita che era molto noiosa. Neanche a romanzarla il più possibile sarebbe uscita fuori una trama interessante. Non gli riusciva nemmeno inventarsi una trama avvincente perché non aveva molta immaginazione. Diciamo che aveva una ideazione ridotta. Avrebbe voluto scrivere un romanzo alla maniera di Pavese, ma non aveva la sua facilità di scrittura e i brani del nostro commerciante non erano affatto scorrevoli. Aveva provato a scrivere un romanzo con il flusso di coscienza come Joyce e la Woolf, ma aveva fallito. Provava e riprovava, però falliva sempre. Eppure era un lettore accanito. Probabilmente certe cose non si imparano da nessun genio. Insomma non aveva un minimo di talento. Nonostante ciò si ostinava a scrivere e perdeva ore ed ore del suo tempo libero. Ma passiamo oltre. Alcuni dicevano anche che fosse il commerciante più imbranato che esistesse perché non sapeva fare pacchi regalo. A dire il vero sapeva farli ma diceva di non saperli fare perché gli veniva l’ansia e gli tremavano le mani ogni volta che si trovava a fare un pacco regalo di fronte ad un cliente spazientito. Nonostante assumesse giornalmente degli ansiolitici non era riuscito a risolvere questo problema. Dicevano che aveva fatto il commerciante perché non era stato in grado di trovarsi un lavoro sicuro, che poteva garantire uno stipendio fisso ed una bella pensione per la vecchiaia. Dicevano che i clienti entravano raramente nel suo negozio. Infatti lui stava la maggior parte del tempo a guardare fuori e a vedere il passeggio. Alcuni sostenevano che spesso alzasse il gomito. Stava antipatico a molti perché era un liberale intransigente in un paese rosso. Aveva sempre fatto vita grama per questo motivo. Molti lo evitavano, ma lui rimaneva coerente alle sue idee. Qualcuno avrebbe voluto dargli una lezione memorabile e mandarlo in prognosi riservata. Quel giorno insieme alla commessa si mise di buona lena a sistemare l’abbigliamento da uomo: polo, bermuda, giubbotti, t-shirt, boxer, camicie, maglie, cerate, berretti, felpe, costumi da bagno, scollo a v. Poi si mise a sistemare l’abbigliamento da donna, che comprendeva anche giacche, pinochietto, pantaloni, canotta. Quindi era il tempo degli accessori: borse, sacche, trolley, zaini, tracolle. Mezza ora dopo era il turno delle scarpe, delle ciabatte e delle infradito. Presero una pausa di un quarto d’ora e si misero a conversare amabilmente su ciò che era accaduto tre giorni prima.

“È successo un caos. Non accade mai nulla di strano. È un posto così tranquillo!”

“Invece abbiamo avuto per tre giorni poliziotti, magistrati, giornalisti, fotografi e curiosi!”

“Non parliamo poi dei turisti del macabro.”

“Gli inquirenti brancolano nel buio. Hanno detto che nessuna pista è esclusa”

“Ci manca solo che prelevino il DNA a ogni abitante di questo ridente borgo!”

“Non mi stupirei affatto. È già accaduto in passato e non è assolutamente detto che non debba ripetersi questa eventualità.”

“Aspettiamo cosa diranno i genetisti forensi.”

“Forse la verità l’abbiamo tutti sotto gli occhi e nessuno riesce a vederla.”

“In effetti molto spesso la soluzione è sempre quella più lineare e razionale.”

“Tutti però si chiedono chi avesse interesse a uccidere un povero barbone.”

“Forse l’hanno ucciso per rancore. Ma chi può odiare così tanto un senzatetto? Forse uno spostato. Chissà?!?”

“È probabile che il vero movente sia la paura, l’odio nei confronti del diverso. Alcuni non riescono a tollerare la diversità. Eppure il mondo è così eterogeneo e assortito!”

“Si tratta forse di un efferato crimine xenofobo.”

“Eppure tutti abbiamo dei pregiudizi. Anche alcuni cosiddetti antirazzisti vorrebbero far la pelle ai razzisti. Invece se fossero autentici antirazzisti sarebbero dei veri pacifisti e lotterebbero pacificamente per i diritti delle minoranze.”

“C’è da ricordarsi che chiunque può essere vittima di pregiudizio e razzismo. Si è sempre meridionali o arretrati per qualcun altro che si considera migliore e appartenente a una società più evoluta.”

“Bisognerebbe considerare ciascuno per la sua individualità, per quel quid di unicità che possiede e non considerarlo invece per la categoria a cui appartiene.”

“La questione è complessa e articolata. Alcuni psicologi hanno dimostrato anche che non tutti coloro che hanno atteggiamenti razzisti si comportano poi da razzisti.”

“Ci sono anche i cosiddetti razzisti per bene.”

“C’è chi predica bene e razzola male. C’è chi fa viceversa. È molto difficile in questi casi predicare bene e razzolare bene.”

“La Toscana è una isola felice per gli immigrati. Qui raramente avvengono casi di discriminazione. C’è addirittura chi pensa che ci sia un razzismo al contrario.”

“Ci sono certi antirazzisti da salotto che fanno discorsi bellissimi sulla società multirazziale, ma che non accetterebbero mai di dare la figlia a un giovane di colore.”

“Nessuno ha una mente totalmente libera e aperta, ma i razzisti sono sempre gli altri. Io vorrei che la questione del razzismo fosse affrontata molto realisticamente e concretamente.”

“Non ci sono solo suprematisti bianchi. Ci sono anche uomini di colore che ci odiano e che odiano la nostra civiltà.”

“Comunque sono più rari e a onor del vero molto meno violenti di noi uomini bianchi.”

“L’importante sarebbe rispettare la dignità di tutti, anche se nessuno è esente da luoghi comuni e stereotipi.”

“Senza generalizzare non potremmo vivere. La cosa importante è cercare di non discriminare nessuno.”

“Ritornando alla brutta storia di quel barbone, la situazione è ingarbugliata.”

“Siamo abituati alle morti per malattia, a quelle per incidente stradale o per infortunio sul lavoro. In questo borgo invece non siamo assolutamente abituati agli omicidi volontari.”

“Vedremo come evolverà la situazione…”

“Sappiamo con certezza che quel povero uomo era fuori da qualsiasi giro particolare.”

“Anche il movente passionale sarebbe da escludersi. Il barbone non aveva mai avuto storie con nessuna donna. Non aveva amanti, nonostante la sua prestanza fisica.”

“Questa faccenda è un mistero. Adesso sembra un rompicapo perché nessuno dovrebbe avere un motivo per uccidere un emarginato, che viveva di stenti.”

“Chi ha fatto una cosa del genere è un vile. Niente altro.”

“Anche io la penso allo stesso modo. Concordo pienamente.”

“Ora siamo sempre tutti spaventati. Siamo ancora scossi. Dobbiamo ancora riprenderci. Siamo tutti sul chi va là. Non c’è da fidarsi di nessuno. Fino a quando non verrà trovato il colpevole tutti sospetteranno di tutti.”

“Gli inquirenti stanno facendo il terzo grado a tutti i paesani.”

“Nessuno escluso.”

“Per quel che mi riguarda io mi farò sempre accompagnare per quanto è possibile da mio marito. Per ogni cosa! Lo farò sia quando andrò a fare compere che quando verrò qui al lavoro.”

Avevano fatto dei discorsi alla rinfusa senza seguire un filo logico. Si erano infervorati tutti e due. Si erano fatti trasportare dall’emotività. Ma c’era altro da fare che continuare a blaterare. Fu così che il titolare si mise a sedere e analizzò le bolle dei fornitori, il registro dei corrispettivi e poi i preventivi, le fatture e gli ordini dei clienti. Infine si mise a contare i soldi in cassa. Era arrivata l’ora di chiudere il negozio quando si accorse di una busta non aperta proprio in mezzo al tavolo, indirizzata a lui personalmente. L’aprì. La lesse attentamente. Cercò di non far trapelare nulla alla sua collaboratrice lì accanto. Non disse niente alla commessa. Deglutì. Iniziò a tremare un poco. Bevve un bicchiere di acqua. Si riprese momentaneamente. Chiuse il negozio. Non svuotò nemmeno il registratore di cassa perché non c’era microcriminalità; al massimo c’erano solo dei vandali che giravano indisturbati le notti del venerdì e sabato sera. Una volta avevano incrinato un vetro. Poi salutò la commessa e si chiese chi potesse avergli inviato la missiva, che per lui era l’inizio di un incubo. 

Il nostro commerciante non aveva la commessa il pomeriggio dopo. Infatti era part-time e lui in quel momento non aveva niente da fare. Prese le sigarette e il posacenere per andare fuori a fumare. Guardò le lancette dell’orologio. Mancava ancora una ora e mezza alla chiusura. Era impaziente. Fumò nervosamente. Socchiuse per un attimo gli occhi perché abbacinato dal sole. Si sentiva isolato. Si sentiva in trappola dopo aver ricevuto quella lettera. Chi poteva essere l’autore? Si arrovellava ma non capiva. Era da tempo che non si aspettava niente dalla vita, ma la vita non sai mai dove ti porta. Aveva paura di una imboscata, di un agguato. Aveva timore di imbattersi in uno stalker, insomma un malintenzionato. Rientrò in negozio. Si mise a sedere. Sistemò i gomiti sul tavolo. Le facce straviste lo mettevano di buon umore. Lo rassicuravano. Invece era molto diffidente degli sconosciuti. Squillò il telefono. Telefonata muta. Avevano sbagliato numero o era il suo persecutore? Lo riattaccò. Avrebbe voluto finire nel non essere. Essere preda dell’entropia. Dissolversi nel nulla. Stava sempre a fare i soliti pensieri. Doveva distrarsi. Chiuse il negozio.

Camminava e guardava i manichini dei negozi, l’edicola, il gelataio, la tabaccheria, la sede di una piccola banca popolare. Quel paese era famoso per il carnevale, la bellezza del Duomo, le installazioni artistiche, le concerie. Aveva anche la stazione dei treni. Quella sera le coppie come al solito passeggiavano sottobraccio. Alcune si fermavano e si scambiavano carezze e effusioni. Lui camminava e ascoltava il brulichio del centro storico. Le belle ragazze passeggiavano fiere. Per loro era un palcoscenico. Era la fiera della vanità. Era il regno dell’effimero. Per altri passeggiare per quelle vie era un modo come un altro di trascorrere il tempo. Il nostro commerciante era sopraffatto dalla solitudine e provava un senso di sgomento per quella brutta storia. Decise di entrare in quel bar perché voleva fermarsi lo stomaco. Aveva appena chiuso il negozio ma quella sera volle fermarsi in quel locale, prima di andare a cena a casa dove avrebbe mangiato spaghetti al pomodoro. Guardò l’insegna e si introdusse nel fondo commerciale. Alcuni avventori discutevano di calcio e alla fine si misero a parlare dei fattori da cui si poteva dedurre il risultato di una partita di calcio.

“Tanto per cominciare bisogna considerare il valore sul mercato dei giocatori delle due squadre.”

“Poi la classifica delle due squadre”

“Anche la media inglese delle due squadre”

“Io faccio prima…mi affido alle quote snai.”

“Bisogna anche valutare l’andamento in casa della padrona di casa, l’andamento in trasferta della squadra ospite, il trend delle squadre nelle ultime partite.”

“Arriva l’esperto….io guardo sempre il modulo di gioco delle due squadre.”

“Anche la forma dei campioni che possono decidere la partita e la forma delle due squadre sono decisive.”

“E il fattore campo? Il pubblico sugli spalti? E il fattore meteo? A volte un terreno pesante può incidere…”

“Vi scordate di una cosa importante…l’arbitro. Bisogna valutare anche altre cose… c’è una squadra che gioca a memoria perché uguale all’anno prima? C’è un’altra invece che deve ancora trovare l’intesa? Va preso in esame anche questo.”

“E i giocatori non disponibili? Gli infortunati e gli squalificati? Anche la presenza o meno di partite di coppa infrasettimanali”

“Bisogna analizzare anche i precedenti tra le due squadre.”

“E il clima all’interno delle squadre? E il clima della società? Crisi finanziaria? Stipendi non pagati? Cessione società? Io vi ricordo che c’è anche le legge dell’ex… di solito segnano gli ex.”

“Vi dimenticate di una cosa fondamentale: la fortuna.”

“Ma quella non si può valutare che dopo la partita!”

“Ma che ve ne frega del calcio con tutti quei calciatori strapagati!”

Quindi continuarono a parlare caoticamente di sesso, politica, tempo. Riportavano anche le voci di paese. Infine si misero a raccontare barzellette sporche. Più in là sempre all’interno alcuni pensionati giocavano a carte. Di solito giocavano a tressette, briscola o scopa. Un uomo di mezza età leggeva un quotidiano. Il nostro commerciante salutò le bariste e alcuni avventori. Le due bariste sorrisero. Erano belle. More e slanciate. Avevano i capelli a caschetto. Una aveva un orecchino al naso. L’altra aveva il piercing sulla lingua. Erano cordiali ma non davano molta confidenza. Erano piuttosto taciturne. Avevano sempre un’aria imbronciata e talvolta sbuffavano. Non erano soddisfatte del lavoro. Erano maltrattate dal titolare e dovevano sopportare le conversazioni stupide del bar. Si sedette su uno sgabello. Poggiò una mano sul bancone e ordinò un aperitivo e una pasta con la crema. Al muro erano appesi un poster della Juventus e una moltitudine di cartoline. Comprò anche un pacchetto di sigarette. Altri clienti abituali si sorbivano caffè e cappuccini. Qualche altro mangiava panini, pizzette, salati o cornetti. C’era anche gente ai tavolini all’aperto. Molti si davano appuntamento lì. Il bar era molto frequentato. Aveva molti clienti abituali e lui era uno di questi. Spesso andava lì a filosofeggiare e a cercare negli alcolici il significato dell’esistenza. Dopo aver mangiato e bevuto si sedete a un tavolino e si mise a sfogliare una rivista liberale fatta da studenti universitari, che regalavano una copia a tutti i pubblici esercizi. Aveva il raffreddore. Estrasse dalla tasca dei pantaloni un fazzoletto e si soffiò il naso. Si mise a leggere un articolo che si intitolava “Controcorrente” di quella rivista che si chiamava “Polemos”.

Il professore:

In principio erano gli anni settanta. Più esattamente nel settantasette aveva venti anni e aveva occupato la facoltà di Lettere e Filosofia. Il tempo invecchia, colpisce e poi sfugge. Dov’era quella ragazza di cui era perdutamente innamorato? Di tutto quel grande amore cosa restava? Cosa ne era stato? Quel che chiamano amore dispensava solo ingiustizie. Amor fou! Ma in fondo lui aveva giocato tutte le sue carte. Non poteva fare di più. Dopo quella delusione sentimentale si era poi sposato con la figlia di un professore che l’aveva fatto diventare docente universitario a sua volta. Quella ragazza conosciuta all’okkupazione le era però rimasta nel cuore. Anche a sessanta anni suonati ormai ci pensava. Ma in fondo ne era valsa la pena di soffrire così? Che senso aveva parlarne agli amici in gioventù? In tutti i suoi capillari a quei tempi circolava il senso di sconfitta. Starsene così in bilico sul filo del rasoio. I pori della pelle immersi nella nebbia e nel gelo. Lui le dava tutta quella importanza e lei era totalmente indifferente. A lei di lui non importava niente e lui si autodistruggeva. Brutta bestia l’innamoramento non corrisposto. Che sciocca cosa la gioventù. E oggi sessantenne che faceva? Si era sposata? Aveva fatto figli? Erano tutti interrogativi senza risposta perché di lei volutamente perse la traccia. Forse era stata soltanto un sogno che aveva sfiorato con la mente. Ma non era mai stata parte di lui. Erano passate le stagioni, gli anni ed il ricordo era sempre più vago. Allora era una ragazza libera. Si chiedeva quale fosse stato il senso e se ci fosse stato realmente un senso: perché incontrarsi e conoscersi? Forse aveva avuto un senso solo per lui. Contava vivere il momento: solo questo. Quelle sere di vino e chitarra. La luna che filtrava tra le inferriate. La città spettrale avvolta dalla nebbia. I miti giovanili e le utopie. Le canzoni stonate sugli scalini. Ma l’aveva idealizzata troppo. Era solo colpa della gioventù. Non c’era tempo per rimpianti o nostalgie. Era stato meglio non rivedersi più. Un tempo le scriveva lettere. Ora nessuno scrive più lettere. Sarebbero morti ormai senza sapere più niente l’uno dell’altra: ignari di tutto. Perfino delle loro stesse esistenze. Non avrebbe visitato mai la sua città e non avrebbe sentito più la sua voce. Ma era praticamente meglio così. Aveva perso denti e capelli da allora e quella ragazza comunque ormai invecchiata poteva andare alla malora! Quanto tempo e quante energie sprecate! Dei grandi amori non restano altro che immagini sfocate nella memoria. In quel momento aveva una moglie della buona borghesia e due figli a carico. Aveva anche studentesse, dottorande e ricercatrici procaci  pronte a finire in un letto di albergo con lui oppure a farsi una sveltina nel suo studio. Che c’era da rimpiangere? Riusciva ad essere un uomo di bell’aspetto. Era alto, snello, elegante, curato. Ogni tanto però ci pensava a quei fantastici anni settanta quando era un povero studentello scannato.

Il nostro professore comunque si era lasciato alle spalle quel grande amore disperso e gli anni settanta. Aveva vinto la cattedra universitaria grazie alla raccomandazione del suocero. Al momento era un uomo affermato. D’altronde non c’era niente di cui stupirsi. Anche la classe dirigente era corrotta da sempre. Nel sistema universitario vigeva la ricattabilità, il clientelismo e il nepotismo. Erano molti a sostenere che i concorsi erano truccati e che si sapeva già chi vinceva. Erano moltissime le segnalazioni che giungevano al giudice Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità Anticorruzione.  Se guardiamo ai premi Nobel per la letteratura anche la Deledda, Quasimodo, Montale e Fo non avevano mai insegnato all’università(Quasimodo insegnò al conservatorio). Grandi scrittori come Pavese e Calvino non insegnarono mai all’università. Non solo ma nella letteratura del novecento erano un numero consistente gli autodidatti. Bisognava ricordarsi il concetto dantesco secondo cui non era la stirpe che nobilitava l’uomo ma era l’uomo che nobilitava la stirpe. In fondo anche i cattedratici tenevano un comportamento mafioso secondo molti: non erano mafiosi con la M maiuscola(non uccidono) ma con la m minuscola(raccomandavano, favorivano, truccavano, ostracizzavano). Lui pensava a questo ed altro. Poi si concentrò ed iniziò a dare la sua lezione su Nietzsche. Durò per un’ora e mezzo. Fece naturalmente una pausa di dieci minuti ed andò a prendere un caffè. Il suo intervento era finito. Il pubblico reagì calorosamente. Scrosciarono gli applausi. L’aula era gremita. I posti erano tutti occupati. C’erano anche degli studenti in piedi. Fu allora che la portinaia le portò di corsa una lettera a lui indirizzata. Le disse che uno sconosciuto le aveva riferito che era urgente. Il professore l’aprì. La lesse e diventò bianco in volto. Tutte le certezze di una vita crollarono in un solo istante. Subito trovò una scusa, si alzò e si assentò subito dalla conferenza. Era l’inizio di un incubo.

Era passato qualche giorno da quella epistola. Il professore per non pensare alla lettera anonima pensava al passato. Un tempo erano tutti rivoluzionari e alternativi. Tutti che cercavano di vestire peggio possibile. Tutti anticonformisti. Erano tutti ribelli. A quei tempi il nostro non aveva nessuna preoccupazione. Non si faceva nessun tipo di problemi. Tutti per l’amore libero. Tutti per il privato che è pubblico e viceversa. Tutti tremate, tremate, le streghe sono tornate. Tutti che volevano uccidere il padre a livello edipico. Tutti droga, sesso e rock and roll. Tutti che analizzavano la società industriale con il plusvalore, l’alienazione, il materialismo. Tutti che infarcivano i loro discorsi con paroloni marxisti. Tutti contro il tardocapitalismo. Tutti contro l’ideologia borghese. Tutti prendendo come maestro Moravia. Tutti Jim Morrison e Bob Dylan. Tutti contro la mercificazione e lo sfruttamento delle masse giovanili. Tutti umanisti. Tutti contro la repressione di ogni tipo. Tutti contro la caduta dei valori. Tutti per il movimento studentesco e l’amore universale e fate l’amore e non la guerra. Tutti all’autogestione e alla manifestazione. Tutti compagni. Tutti a fumare canne. Tutti contro i reazionari. Tutti antifascisti. Tutti per il diritto allo studio. Tutti contro i baroni. Tutti per la controcultura. Tutti beat. Tutti hyppies. Tutti cultura giovanile. Tutti on the road. Tuttti Re Nudo. Tutti al concerto al parco Lambro. Tutti a contestare. Tutti insieme studenti e operai contro il depauperamento progressivo. Tutti contro la retorica della patria. Tutti per le radio libere. Tutti per i diritti civili. Tutti contro la sporca guerra del Vietnam. Tutti per il sessantotto e il settantasette. Tutti in piazza. Tutti per il collettivo. Tutti per la comune. Tutti contro i lacrimogeni. Tutti contro la polizia. Tutti per le filosofie orientali. Tutti per la neoavanguardia. Tutti per il minestrone. Tutti per il comunismo. Tutti per la controinformazione. Tutti contro l’autoritarismo. Tutti contro i crumiri. Tutti per l’antiproibizionismo. Tutti contro sindacati e partiti. Tutti per l’esproprio proletario. Tutti per andare al ristorante senza poi pagare. Tutti per la resistenza al pubblico ufficiale. Tutti per i sampietrini lanciati contro le forze dell’ordine. Tutti per il femminismo. Tutti fricchettoni. Tutti figli dei fiori. Tutti underground. Tutti al potere la fantasia. Tutti per gli indiani metropolitani. Tutti al centro sociale. Insomma vietato vietare e altri slogan dell’epoca. Recentemente invece le università erano diventate un grande esamificio e c’era chi voleva il numero chiuso perché l’università era diventata di massa e invece doveva formare la classe dirigente. Il nostro professore era un poco rimbambito nel senso che era fissato con le albechiare stile Vasco Rossi e di ragazzine così ne era piena la facoltà. Quelle mura erano piene di tentazioni. Molte erano disponibili in cambio di un compromesso. Si andava da un bel voto all’esame a vincere un concorso come ricercatrice. Il nostro poi era sempre stato un uomo piacente. Un professionista distinto, ma non un retrogrado. Non un intellettuale organico moralista di vecchio stampo. Saliva le scale per andare nel suo studio e le studentesse gli sorridevano e ancheggiavano e sculettavano. C’era malizia nei loro comportamenti oppure era lui che si faceva strani film in testa? Molti suoi colleghi erano sempre più degli eterni Peter Pan. Sbavavano per le giovani donzelle che sembravano tutte emancipate e liberate ormai. Erano ragazze evolute. I docenti ci andavano a letto. Lui non riusciva a essere così spregiudicato e manipolatore. Era e sarebbe sempre restato un romantico. Alcune si vendevano per pagarsi le tasse universitarie e l’affitto della camera in quanto erano fuori sede. La vita del nostro era piena di stimoli non solo culturali ma anche erotici. Lì avrebbe avuto bisogno del Viagra per essere aiutato nelle prestazioni. Ma poi ne aveva bisogno di farsi delle storie con le studentesse? Sua moglie lo aspettava a casa. Non poteva approfittarsene così. Non poteva fargli un torto del genere. Gli anni passavano e il professore rimaneva indeciso se farsi o meno le ragazze. Ma soddisfaceva il suo narcisismo vedere quella disponibilità femminile, anche se lui era abitudinario e fondamentalmente alla ricerca di stabilità? Ma in fondo che senso aveva il passato e il presente? Che senso avevano quegli sguardi e quegli incontri? Che senso aveva quella gioventù che tentava la sua maturità? Che senso aveva tutto l’assortimento di espressioni del volto, di tagli di capelli, di voci, di gesti, di tratti di personalità? Che senso avevano quelle esistenze che come dei fili evanescenti si intrecciavano alla sua? Lui era solo il pezzo di un puzzle. La vita era un gioco ad incastro. Il pezzo doveva essere inserito nel resto del puzzle secondo lo scrittore Perec. Per avere il vero significato bisognava avere la visione dell’insieme e non del singolo pezzo. Il singolo pezzo non valeva nulla. Ogni uomo era un animale sociale. Inoltre il tutto era superiore alla somma delle parti. Il tutto era la sintesi globale delle parti. La società era un intreccio estremamente complesso di microcosmi. Tutti si dimenavano. Si barcamenavano. Tutti in lotta per gli stessi obiettivi. Che senso aveva tutto ciò? La vita era questo concatenarsi di eventi senza un significato preciso. Ognuno poteva attribuirgli di volta in volta il significato che voleva. Lo aveva scritto H. Hesse. Questo era il limite e il pregio dell’esistenza. Alcuni talvolta credevano di aver compreso tutto ma era solo un istante o poco più. Poi tornava l’opacità nelle loro esistenze. Altri pensavano di vederci benissimo ed avevano una visione così elementare dell’esistenza che si chiedevano se potesse essere davvero tutto qui. Che dire poi delle sliding doors? Che dire di ciò che era stato e non avrebbe potuto essere? Che dire di ciò che avrebbe potuto essere e non è stato? Comunque il professore complessivamente era soddisfatto della sua vita e di quello che aveva fatto. A rovinare un cielo così sereno quella maledetta missiva. Aveva quell’ombra sul cuore. Doveva risolvere quell’enigma insolubile. Era da giorni che si chiedeva chi fosse l’autore. Come aveva fatto a venire a conoscenza di quella vecchia storia? Chiunque fosse era certamente un individuo pericoloso. Poteva solo confidarsi con i suoi vecchi amici. Nessun altro poteva custodire un simile segreto.

Il giornalista:

Notte insonne per il nostro cronista basso, grasso dalle mani tozze e dalle unghie rosicchiate. Era un signore un poco singolare. Vestiva bene. Era sempre in giacca e cravatta. Tutti sapevano che era totalmente calvo, ma lui continuava a portare un parrucchino biondo. L’unica cosa che piaceva alle donne erano i suoi occhi azzurri e magnetici. Erano occhi indagatori e quasi ipnotici per donne facilmente suggestionabili. Aveva i suoi problemi il nostro signore. Soffriva di extrasistole. Era diabetico. Aveva la pressione e il colesterolo alti. Prendeva quindi ogni giorno diverse pasticche. Aveva anche una ernia. Spesso gli faceva male una gamba a camminare ma non voleva farsi operare. Aveva provato diverse terapie ma non aveva risolto nulla. Quella volta aveva preso la melatonina e non dormiva lo stesso. Non poteva continuare con questo andazzo. Da qualche giorno era inquieto. Forse presagiva qualcosa. Un sensitivo gli aveva detto recentemente che attirava troppe negatività. Ma non credeva ai maghi e neanche agli oroscopi. Ma torniamo all’insonnia. Doveva essere più allodola che gufo. C’era sempre da fare in redazione. La notte era fatta per dormire. Aveva anche un figlio che andava all’università e una moglie fedele. Doveva dare il buon esempio con uno stile di vita esemplare. Era in pigiama. Si alzò dal letto e si mise in vestaglia. Si mise a sedere. Accese il computer sulla scrivania di camera sua. Lui e sua moglie dormivano in camere separate perché il nostro russava e alla sua consorte non riusciva a prendere sonno. Decise che quella notte avrebbe fatto una eccezione e avrebbe sbrigato alcune faccende. Doveva spedire una email ad una rivista culturale a cui collaborava saltuariamente. Nel file allegato avrebbe inviato un suo articolo. Aprì il programma di videoscrittura. Andò poi verso la libreria e prese “Le confessioni” di S.Agostino e “I pensieri” di Pascal. Si mise a leggere alcune pagine. Erano libri più illuminanti dei Vangeli secondo lui. Quindi prese a scrivere un saggio breve sulla questione nordcoreana. Notte insonne. Si accavallavano pensieri senza alcun filo logico. Sentì un rumore. Accese la luce e pensò che una siepe può far immaginare l’infinito ma erano sempre meno coloro che avevano una siepe, perché erano sempre più poveri. Notte insonne. Un aereo sorvolava sulla sua casa. Il cane abbaiava. Forse un rumore lontano. Una macchina di una coppia di fidanzati che si erano appartati dietro casa. Dei fari squarciavano l’oscurità. Forse uno scalpicciare di passi. Una eco di passi lontani. Si ricordò di una poesia di Pavese in cui un ubriaco la notte parla da solo e racconta a se stesso tutta la sua vita. Gli venne in mente “La voce della luna” di Fellini. Benigni parla alla luna e la luna gli risponde di rimanere in silenzio ad ascoltare quelle voci. Chi era pazzo era più fortunato perché poteva vedere cose che anche gli altri avevano sotto il naso e non vedevano. Chi era pazzo era più fortunato perché poteva ascoltare la voce delle cose che gli altri non sentivano. Notte insonne. La notte era paura, sospensione, pausa, intervallo, segreto, lato oscuro, mistero, irrazionale. La notte era l’inesprimibile. La notte dell’Innominato. La notte di Renzo sull’Adda. La notte era redenzione. Era impasto di ricordi e desideri. “La notte stellata” di Van Gogh. Era l’assurdo. Veniva l’alba. La notte era finita. Aprì la seconda lettera con il tagliacarte di ottone. Di questa non si conosceva il mittente. La lesse. Sobbalzò dalla sedia. Per poco non cadde. Aveva subito bisogno di un calmante. La notte era finita. Era stato scoperto. A nessuno poteva chiedere aiuto. L’incubo era iniziato.

Era passato qualche giorno. Non era successo niente di importante. Aveva già chiuso tutte le porte a doppia mandata e anche con i catenacci e i chiavistelli. Il nostro cronista salutò i suoi familiari e andò in bagno a evacuare. Era sempre doloroso perché aveva delle emorroidi di quarto grado e non voleva operarsi. Poi si lavò i denti. Quindi entrò nella sua camera. Accese la luce del comodino. Si mise per due minuti a camminare nervosamente nella stanza. Avanti e indietro. Avanti e indietro. Si svestì. Mise i panni su una sedia. Posò gli occhiali da vista sulla scrivania. Diede una rapida occhiata alla stanza e si accorse che era polverosa. Guardò la polvere sui libri e sul pavimento. Quella donna delle pulizie non faceva bene il suo lavoro. A lui non piaceva assolutamente ma la tollerava perché era economica. Inoltre era diventata amica di sua moglie. Aveva mangiato troppe lasagne quella sera, anche se aveva cercato di digerirle con una passeggiata nel quartiere. Aveva mangiato troppo pesante. Cercò di aprire l’armadio per prendere la vestaglia, ma le ante si erano incastrate. Era nudo. Si guardò allo specchio. Si cambiò la camiciola e le mutande. Si mise in pigiama. Era sera ma sia per pura pigrizia che per sciatteria doveva ancora farsi il letto. Sistemò la coperta. Rimboccò le lenzuola. Mise anche il plaid. Prese il telecomando e accese la televisione. Fece zapping. Non trovò niente di interessante e la spense subito. Osservò per qualche istante una fotografia in cui era ritratto con la moglie e i figli ancora piccoli. Entrò sotto le coperte e si distese su un fianco. Era al caldo ormai. Il riscaldamento era ancora acceso. Spense la luce. Le persiane erano chiuse. Era avvolto dall’oscurità. Passavano i minuti e non riusciva a prendere sonno. I pensieri si accavallavano. Forse era l’inizio di una altra notte insonne. Per prima cosa pensò a tutte le collaboratrici del giornale con cui aveva fatto sesso. In fondo loro accettavano il compromesso. A onor del vero era un vero ricatto perché lui mandava via quelle che non ci stavano. Quelle ragazze non erano certo tutelate dai sindacati. Poteva fare quello che voleva. Era un vero predatore sessuale. Era molto aggressivo. Un vero rapace. Quelle neolaureate erano le sue prede. Non si sentiva affatto in colpa perché riteneva che tutti al suo posto avrebbero fatto come lui. Gli piaceva contemplare i loro corpi nudi e sfruttarle carnalmente. Gli piaceva vederle che provavano sudditanza nei suoi confronti. Alcune erano succubi. Loro lo sviolinavano e lui le sviliva. Alcune erano giornaliste pubbliciste. Altre facevano il praticantato per diventare professioniste. Era un cannibale. Niente affetto e neanche sentimento. Soltanto sesso. D’altronde c’era chi sosteneva che delle persone in intimità lavoravano meglio. Lui illudeva quelle ragazze. Faceva leva sulle loro ambizioni. Nessuna lo aveva mai denunciato per molestie sessuali. Lui tastava sempre il terreno con battute e allusioni. Si muoveva tra il serio e il faceto. Si comportava da goliardico. Al momento giusto era sempre deciso e intraprendente. In un amen si sbottonava i pantaloni e alzava la gonna. Gli piacevano assai quelle fanciulle graziose e in fiore. Aveva cercato di smettere. Aveva provato psicoterapia e psicofarmaci, ma non c’era niente che potesse annullare desideri e fantasie erotiche. Quelle ragazze erano ingenue. Prospettava loro l’eventualità di un posto fisso e loro ci cascavano. Loro erano sottomesse. Ma arrivate a una certa età se ne disfaceva come giocattoli venuti a noia. Nessuna lo denunciava perché il nostro conosceva anche tutti i notabili del paese. Era in un certo qual modo potente. Non aveva sensi di colpa. Diciamo che come sempre si autoassolveva. Queste cose succedevano a tutti i livelli della società. La mercificazione regnava sovrana. Non c’erano valori o etica che potessero reggere. Erano forse tutte violentate? Le donne non potevano dire di no? Non potevano schiaffeggiare e andarsene? Tutto il mondo era così. Le ragazze accettavano e ci stavano. Quantomeno buona parte delle ragazze. Ma perché non trovavano il coraggio di ribellarsi? Non avevano forse dei diritti anche loro? Certi uomini le condannavano e le consideravano delle puttane perché c’erano state. Delle donne dicevano che erano delle vittime perché non era assolutamente colpa loro. Non avevano forse la capacità di intendere e di volere? Alcuni uomini si chiedevano se le avessero puntato una pistola alla testa per starci. Si chiedevano se certe donne non avessero il libero arbitrio e la possibilità di scegliere. Certe donne invece ritenevano che le donne erano superiori intellettivamente ma il sesso femminile aveva vissuto in una posizione di inferiorità sociale nel corso della storia e ne stavano ancora pagando le conseguenze. Insomma le discussioni continuavano e anche i compromessi sessuali. Tutto il mondo italico era così. E il mondo dello spettacolo non era forse così? Secondo Flaiano “le spaccadivanetti” erano sempre esistite. Il femminismo era servito a ben poco. Comandavano sempre i maschi nella società e quindi era sempre diffuso il maschilismo. C’era sempre il soffitto di cristallo. Non esisteva ancora la parità, anche se nel corso degli anni chiaramente qualche passo avanti era stato fatto. Comunque i potenti avevano gioco facile a sfruttare l’emancipazione sessuale delle giovani. Il dipartimento per le pari opportunità era per figura. In questo tipo di società, dove bastava andare a un semplice colloquio per essere molestate, venivano discriminate le ragazze cosiddette serie e quelle non piacenti. Quante signorine Gradisca nella società! Le attrici e il regista! Le attrici e il produttore! Le showgirl e il politico! I provini! I concorsi di bellezza! Insomma le ragazze avvenenti e gli uomini potenti più maturi! Un mondo di erezioni! Solo interesse da una parte e un desiderio di possedere la bellezza dall’altra. Lo squallore era generale. Bastava andare in centro. Nella camminata ragazze facevano le sciantose e si atteggiavano a reginette. I ragazzi tutti dietro a loro in preda alle esplosioni ormonali. Disposti a tutto per un sorriso di quelle ninfette! Completamente assoggettati a dei seni acerbi! Ah l’attrazione sessuale! Però torniamo al nostro. Ah se quei muri della redazione avessero potuto parlare! Quanti amplessi furtivi! Però doveva stare sempre attento perché quell’intensa attività extraconiugale toglieva tempo alla scrittura, alle mansioni e ai compiti lavorativi. Sua moglie aveva dei sospetti, ma per quieto vivere soprassedeva. Aveva fatto dei figli con quell’uomo e in caso di separazione sarebbero stati i primi a risentirne. Passavano i giorni e tutto procedeva come prima. Nessuno lo fermava. Ma quel bastardo della lettera anonima era venuto a rompergli le uova nel paniere. Gli aveva rovinato la festa. Era terrorizzato da quella storia e non riusciva a comprendere chi poteva essere l’autore. Avrebbe dovuto investigare, ma non sapeva da che parte iniziare. Era nei guai e doveva sbrogliare una matassa quasi impossibile da sbrogliare. Avrebbe dovuto ripensare a tutta la sua adolescenza. Era un viaggio a ritroso doloroso. Tutto ciò lo angustiava assai. Pensava e ripensava. Si rigirava nel letto e non trovava posa. Insomma in quel momento quale intreccio di complessi! Quale associazione di pensieri! Quale trafila di contraddizioni! Quale carrellata di immagini! Era proprio vera la storia della molteplicità dell’io! Comunque dopo un’ora travagliata di pensieri alla fine si addormentò.

La riunuione:

Il commerciante, il cronista, il professore si incontrarono. Naturalmente a nessuno di loro venne in mente di contattare gli altri telefonicamente per non lasciare tracce, anche se erano tutti cittadini insospettabili ormai. Il commerciante andò a trovare il cronista, che a sua volta fece visita al professore. Tutto fu fatto con il massimo della discrezione e della circospezione. Ognuno chiese agli altri se era arrivata una lettera anonima. La risposta era sempre affermativa. Decisero di riunirsi in un luogo isolato e sperduto. Il professore, che era di famiglia agiata, propose di ritrovare i vecchi amici nel suo casolare nell’Appennino Tosco Emiliano. Era una casa colonica di pietra. Al piano inferiore un tempo c’era il rustico, dove allora c’era una libreria. Al piano superiore invece l’abitazione. Tutto era recintato con un muretto. Era la classica casa colonica. Aveva anche un piccolo podere e un granaio dove metteva gli attrezzi agricoli. Anche se non si frequentavano più da tempo gli altri due sapevano quale strada fare perché avevano trascorso assieme diversi ultimi dell’anno. Quando arrivarono il sole era già tramontato ed era già sera. La casa era isolata. L’abitazione più vicina distava un chilometro circa. Potevano così confidarsi, sfogarsi, inveire, vociare, gridare senza la paura che qualcuno potesse udirli. La luna era oscurata dalle nuvole, che coprivano anche moltitudini di stelle. Nessuno di loro era un astronomo e sapeva quale era il piccolo e il grande carro. Avevano altri problemi! Nell’aria si udiva solo il cigolio delle persiane che venivano mosse da un vento gelido. Parcheggiarono le macchine nello spiazzo. Una volta scesi, fecero attenzione a non perdere l’equilibrio a causa della ghiaia. Mangiarono dei tortelli e poi degli affettati. Di dolce si gustarono una fetta ciascuno di buccellato lucchese. Dopo si misero a parlare. Prese la parola il professore:

“Per anni abbiamo rimosso quel che accadde quando eravamo adolescenti. Ma ora il nodo è venuto al pettine. I nodi vengono sempre al pettine. Una persona, non sappiamo come, ha saputo del nostro crimine e adesso vuole farcela pagare. Non vuole assicurarci alla giustizia. Vuole semplicemente vendicare la vittima. Non conosciamo la sua identità. Nella lettera c’è il nome e il cognome della vittima. C’è la descrizione accurata di come l’abbiamo stuprata, seviziata e uccisa.”

“Abbiamo condiviso un segreto per anni. Un vecchio sporco segreto. Abbiamo avuto paura che qualcuno di noi confessasse tutto alla polizia o si confidasse con la persona sbagliata.”

“Non ci siamo mai fidati l’uno degli altri.”

“Scusate la citazione ma io ultimamente ho riletto “Casa d’altri” di Silvio D’Arzo. A volte ho pensato che la verità andasse cercata insieme ad altri. In questo caso ho pensato che vorrei cercare l’autore della lettera anonima con voi. Ma alle volte come quella donna di quel racconto di D’Arzo ho pensato se fosse giusto finire prima la mia vita, anche perché io, a differenza della protagonista di quell’opera, mi sono già macchiato di un peccato mortale.”

“Dopo averla violentata dovevamo lasciarla andare, anche se lei aveva minacciato di dire tutto ai nostri genitori e alla polizia.”

“Allora lo stupro non era ancora un reato contro la persona. Ma avevamo quindici anni e non sapevamo niente. Ci siamo lasciati prendere dal panico.”

“Tutti in questi anni abbiamo cercato di espiare questa grave colpa. Ci siamo acculturati. Abbiamo cercato di riflettere. Abbiamo imparato a convivere con i rimorsi.”

“Era troppo bella. Era così bella che stordiva e toglieva il fiato.”

“Aveva cinque anni più di noi. Era irraggiungibile per noi. L’abbiamo uccisa a coltellate. Tutti noi avevamo dei coltelli. Siamo stati dei mostri.”

“E adesso cosa facciamo? Lo uccidiamo se lo troviamo il vendicatore potenziale?”

“Forse è qualcuno che vuole ricattarci. Tutti noi abbiamo qualcosa da perdere.”

“Forse a questo punto sarebbe meglio presentarci dal magistrato e confessare tutto.”

“Ricordatevi che lo stupro va in prescrizione ma l’omicidio no.”

“Come avrà fatto a sapere che noi eravamo gli autori di quel crimine?”

“Per gli inquirenti gli autori del delitto erano ignoti.”

“Forse ci darebbero una pena lieve perché eravamo minorenni.”

“Ma allo scandalo ci pensi? Alla reputazione nostra e al dolore dei nostri cari?”

“Allora eravamo solo dei ragazzetti rissosi e violenti. Ci siamo messi nei guai per tutta la vita. È da una vita che quei ricordi ci perseguitano tutti.”

“In fondo però siamo stati dei privilegiati perché non abbiamo pagato il fio.”

“Non abbiamo mai risarcito i familiari della vittima, che tra l’altro non hanno mai avuto giustizia su questa terra.”

“I suoi genitori sono morti di crepacuore.”

“Sono morti senza sapere chi aveva portato via a loro la bella figlia.”

“E che dire del fidanzato, che a breve avrebbe dovuto sposarla?”

“Quello che mi chiedo però è perché aspettare così tanto tempo?”

“Questo dovremmo scoprirlo insieme. Dobbiamo difenderci. Non possiamo farci ammazzare tutti.”

” Tutto questo per l’insana voglia di aver tutto e subito. Tutto questo per un quarto d’ora di piacere. Tutto questo per i nostri porci comodi. Tutto questo per una stupida botta e via.”

Il vendicatore:

Posso solo dirvi che non aveva un bell’aspetto. Posso dirvi che era stato lui a inviare le lettere anonime. Era stato lui che aveva ucciso il professore universitario e poi aveva gettato il suo cadavere sotto il treno, inscenando un suicidio a cui tutti avevano creduto. Era stato lui a uccidere il cronista. L’aveva investito sulle strisce. Era buio pesto. La strada non era illuminata. Non c’erano telecamere. Tutti cercavano l’auto pirata, ma nessuno l’aveva trovato. Non c’era nessun testimone. Aveva utilizzato una macchina rubata. Dopo l’aveva portata in un luogo distante e l’aveva data alle fiamme. Nessuno si era accorto di niente. Ora ci rimaneva solo quel commerciante ma ogni cosa a suo tempo! Aveva quasi portato a termine la sua vendetta. Avrebbero pagato caro quel crimine efferato. Avevano ucciso la ragazza di cui si era innamorato ma che non poteva avere perché lui era gravemente disturbato a livello psichico. Soffriva da quando aveva venti anni di deliri e crisi dissociative. Aveva ventidue anni quando un giorno girando per i campi assistette a quel crimine. Rimase impietrito a guardare, ma non avrebbe potuto testimoniare. Nessuno avrebbe creduto a una persona psicotica. E poi avrebbe dovuto incolpare dei minorenni! Assistere a quel crimine era stato traumatico per una psiche già gravemente minata. A quei tempi la sua psicosi era incurabile. Subito dopo aver assistito a quel crimine peggiorò e i genitori lo misero in manicomio. Nessuno credeva in lui. Nemmeno i suoi cari. Per non parlare dei dottori! E il rimedio era peggiore del male o quasi. Era stato lui a uccidere il barbone perché era un suo amico e si era confidato a lui. Gli aveva raccontato tutto perché sapeva la lingua dei segni. Aveva raccontato tutto, anche della sua voglia di vendicarsi e il povero barbone voleva fermarlo, denunciandolo alla polizia. Nessuno però l’aveva collegato a quel povero uomo. L’aveva sempre fatta franca. Alternava momenti deliranti a periodi di lucidità in cui emergeva il suo senso critico e condannava ogni forma di violenza, proprio lui che durante le fasi psicotiche diventava un serial killer. Era sospeso tra pazzia e normalità. Talvolta era assente. Il suo mondo era in subbuglio. Viveva in un tormento continuo. Faceva molti pensieri assurdi. Aveva delle ossessioni. Farneticava. Era imprevedibile. Era una mina vagante. Ma le azioni che compiva non erano poi del tutto insensate. C’era della logica in quella follia. Non era come “Lo straniero” di Camus. Non era come “Delitto e castigo”. Lui era rimasto ferito per la morte di quella ragazza presa a tradimento e uccisa in aperta campagna. Nei momenti di lucidità curava anche un blog. Analizzava la storia più recente di Italia, in speciale modo gli anni settanta. Dopo essersi coricato per tre ore era ragionevole e poteva fare discorsi sensati. Accese il computer e pubblicò un post sulla strategia della tensione che aveva scritto due giorni prima in un momento di lucidità intellettuale. Insomma lucidità e follia si alternavano da quando era morta sua sorella che controllava sempre che prendesse i neurolettici. Prima era innocuo perché era sedato e non aveva mai avuto crisi. Ma da quando era morta lui aveva smesso di assumerli ed era iniziato l’incubo per quei tre. Ora era l’incubo di uno solo.

Al mare:

Erano passati dei giorni. Il nostro commerciante era andato alla casa al mare. Aveva un appartamentino in un paese della costa maremmana. Quella domenica se ne era andato a zonzo per il centro. Aveva ingurgitato diversi alcolici in vari pub ed era ormai ubriaco. Era da folli bere tutta quella roba alla sua età, ma era uno sfogo. Una valvola di sfogo. Comunque per la sua età era in salute. Si era fatto da poco tempo le analisi del sangue, l’elettrocardiogramma a riposo, l’ecocardiogramma, l’elettrocardiogramma sotto sforzo e non aveva niente di grave: solo piccole anomalie. Niente di importante. Era però angosciato e terrorizzato per quella brutta vicenda. I suoi due vecchi amici erano morti in circostanze, per lui, sospette. Per una volta non voleva sorvegliare i suoi pensieri, le sue ansie, le sue paure. L’ebbrezza l’avrebbe reso un poco più libero e meno sulla difensiva. L’ebbrezza alcolica non l’avrebbe reso totalmente incosciente perché lui nell’ubriacatura aveva già sperimentato che non perdeva mai totalmente la coscienza e neanche il controllo di se stesso. Attraversò la strada e si recò verso il mare. Entrò in uno stabilimento balneare. Non c’erano sdraio. Gli ombrelloni erano chiusi. Anche se non era estate alcuni ragazzi prendevano il sole, che solo nel pomeriggio era riuscito a fare capolino da un ammasso di nubi. Guardò le cabine. Poi si mise a osservare le navi all’orizzonte. Non era caldo ma alcuni bambini cercavano conchiglie; altri giocavano a biglie; altri ancora costruivano castelli di sabbia. Dei cani correvano; si tuffavano nell’acqua e giocavano tra di loro. I gabbiani volteggiavano. Il nostro si sedette sulla battigia. Gli piaceva lo sciabordio delle onde. Non gli importava minimamente di bagnarsi e sporcarsi i vestiti. Non era in costume. Aveva scarpe e pantaloni lunghi. La sabbia era già penetrata in abbondanza nelle scarpe. Delle ragazze in lontananza risero sguaiatamente. Si passò una mano nei capelli spettinati. Corrugò la fronte. Si grattò la schiena. Quindi sorseggiò l’ennesima birra. La finì e andò a gettarla nel cestino. Aveva un cerchio alla testa, ma era ancora abbastanza razionale. Si voleva solo gustare il tramonto. Era irretito da quello spettacolo. Era immobile a guardare le onde increspate dal vento che si susseguivano. Si sentiva un granello di sabbia di fronte a quella distesa immensa: un sentimento di miseria ontologica di fronte all’infinito. Gli esseri umani non potevano carpire l’infinito. Potevano soltanto percepire l’indefinito. La grandezza degli uomini era quando si sentivano delle nullità. Aveva ragione Pascal. Anche il mare era popolato. Pochissimi facevano il bagno. C’erano però i sub; c’era chi faceva surf; chi andava in barca a vela. Voleva cambiare aria. Voleva evadere per un poco. Almeno per un giorno. Poi sarebbe ritornato alla solita routine. Voleva riflettere e starsene per i fatti suoi, anche se sapeva che starsene troppo da soli significava predicare se stessi all’infinito. Cercava di evadere, ma anche in stato alterato di coscienza i suoi pensieri ritornavano a quel bastardo. Era ubriaco ma non c’era niente di strano. Molti uomini di fronte a eventi molto stressanti reagivano rifugiandosi temporaneamente nell’alcol. Però era un forte bevitore. Non era mai stato dipendente. Non era mai stato un alcolizzato. Per un giorno aveva fatto baldoria. Però non c’era davvero niente da festeggiare. Rincasò e giunto a casa vomitò nel cesso. Doveva fare i conti con il passato. Era sbronzo e si mise a parlare a voce alta nel soggiorno. 

Finale:

Il nostro commerciante sul far della sera prese la macchina e fece un giro. Si fermò in un paese a venticinque chilometri da casa. Parcheggiò l’auto e andò a camminare sull’argine. Prese poi un viottolo che portava al fiume. Provava un senso di meraviglia per quel paesaggio fluviale, anche se negli ultimi tempi a causa di tutte quelle morti sospette viveva in un continuo stato di allerta. Udiva i suoi passi, il fruscio dei canneti, il sibilo del vento tra le piante. Aveva i capelli scarruffati. Arrivò sulla sponda. Scansò i rovi. Mise le scarpe nella rena e non andò oltre perché più in là era limaccioso il terreno. L’acqua era melmosa e torbida. Il fiume era caratterizzato da anossia, moria di pesci e rifiuti vari nelle acque. Un tronco veniva portato via dalla corrente. Non c’erano canottieri in Arno a quell’ora. Sull’altra sponda non c’era nessuno. C’erano solo le vigne. Non c’era neanche nessuno a pescare. A qualche centinaio di metri c’era un orto con alcuni cani, alcune galline, alcuni conigli. Ma non c’era anima viva. A un chilometro circa c’era il villaggio scolastico, ma chiaramente a quella ora era deserto. Ammirò la luna tra i rami. Era a poche centinaia di metri dalla confluenza dei due fiumi. Lui era lì su una riva del fiume maggiore. Ascoltò il gorgoglio delle acque. Gli piaceva quella sorta di mormorio. Aveva paura ma portava in una tasca del giubbotto una pistola rubata che gli aveva dato un amico  massone. Non aveva portato nemmeno il cellulare per non essere rintracciabile. Il serial killer fece un errore di calcolo. Lo aveva seguito e pensò di tenergli un agguato. Ma non riuscì a prenderlo alle spalle. L’aggressore non aveva vie di fuga quando si accorse che era armato il suo antagonista. Il nostro gli sparò alla testa. Un solo colpo ma efficace. Adesso l’inferno terreno era finito. Per l’inferno ultraterreno c’era ancora un poco di tempo. Il nostro non sapeva cosa volere dalla vita e neanche come trovare la felicità, ma da quel momento era libero. Il nostro doveva ancora finire la sua missione. Rovistò tra le tasche della vittima fino a quando non trovò le chiavi di casa e la carta di identità per sapere il suo indirizzo. Si accorse che quell’uomo lo conosceva di vista. Era qualche anno più anziano di lui. Non voleva perdere il sonno a sapere come aveva fatto a sapere la verità sull’omicidio di quella ragazza decenni prima. Non si fece troppe domande. L’importante era che quella storia fosse finita. La stessa notte andò a ispezionare la villetta del suo persecutore e alla fine trovò il computer con cui aveva scritto le lettere anonime. Lo spaccò e poi lo portò rotto la notte stessa in una discarica abusiva a qualche centinaio di chilometri dal suo paese. Nessun informatico forense avrebbe potuto trovare la verità, che lui era riuscito a occultare magistralmente. La mattina dopo dei pensionati trovarono il cadavere, ma gli inquirenti non seppero collegare tutte quelle morti. Il nostro l’aveva fatta ancora una volta franca. Era doppiamente colpevole e doppiamente graziato. Aveva avuto entrambe le volte fortuna. La seconda volta il suo antagonista aveva commesso un errore di valutazione. L’aveva sottovalutato. L’amico massone sapeva tenere i segreti e anche egli si era macchiato di crimini in quanto faceva lavori sporchi. Eliminava nemici della loggia massonica segreta di cui faceva parte. Era come si suol dire in una botte di ferro. Nessuno lo aveva visto lungo il fiume. Nessuno aveva fatto caso a quello sparo. Inoltre aveva avuto una altra fortuna: non aveva avuto il tempo di accendersi nessuna sigaretta. Non aveva lasciato traccia alcuna. Era tutto accaduto in pochi istanti. Era stato tutto concitato. Iniziò a piangere in modo convulso e irrefrenabile. Era tutto finito. Niente lo collegava a tutte quelle morti. Al massimo potevano fare l’esame del DNA alla gente di quel paese, ma non sarebbero mai arrivati a lui. Tutto era andato per il meglio. I giorni successivi seppe dai giornali che il suo persecutore non era armato. Non aveva nemmeno una arma da taglio. Probabilmente voleva ucciderlo a mani nude. Pensava di avere la meglio fisicamente. D’altronde l’uomo era un energumeno. Era davvero mastodontico. Comunque qualcosa aveva imparato da quell’esperienza. La vita di paese non era poi così monotona e anche in quel borgo c’erano storie da raccontare. Nonostante fosse libero da ogni preoccupazione, provava un senso di smarrimento. Era un essere incompiuto che aveva perduto molte occasioni per essere migliore. Aveva compiuto un omicidio, anche se era legittima difesa. Chiaramente non poteva dimostrarlo che era legittima difesa. Altro karma cattivo! Dalla vita aveva imparato che non bisognava mai agire di impulso, ma si doveva ponderare bene. Aveva anche appreso che all’improvviso poteva comparire il lato segreto delle cose. Aveva imparato che non c’era un ordine prestabilito, ma che talvolta chiunque poteva finire in balia dell’assurdo. L’aveva imparato a sue spese e ormai questa lezione serviva a ben poco. Tutti coloro che erano coinvolti in questa triste storia erano colpevoli. Nessuno escluso. Lui era solo l’unico sopravvissuto. Eppure un dubbio lo aveva. Lui aveva lasciato qualche traccia. Bastava un impronta o un capello, anche se era incensurato e nessuno pensava a lui! Forse non si sarebbe mai totalmente liberato da questa brutta storia.

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