Fonte: keynesblog
Url fonte: http://keynesblog.com/2014/01/23/se-litalia-facesse-come-roosevelt/
Abbiamo ripreso da keynesblog questo articolo di qualche mese fa, ma sempre attualissimo. Segnaliamo anche i numerosi e interessanti commenti che ha suscitato
Serve un acceleratore della crescita
di Pier Giorgio Gawronski e Giorgio La Malfa, dal Sole 24 Ore, 11 gennaio 2014
Nel 2013 il mondo ha raggiunto nuovi vertici di benessere: +8% la produzione industriale, +11% il commercio mondiale rispetto al 2008. Le performance, tuttavia, sono molto diverse a seconda delle politiche economiche seguite. Dove, nel 2009, si è reagito con politiche espansive e si è mantenuta la barra dritta – Cina, Polonia – la crisi globale non è stata avvertita. Dove si è evitata l’austerità – come negli Usa – l’economia si è ripresa, il debito pubblico comincia a scendere, ed è stato possibile limitare una prolungata disoccupazione di massa. Anche dove sono state seguite politiche restrittive – in Gran Bretagna e in Giappone – non appena sono cessate, l’economia è ripartita.
In tutti questi Paesi, le banche centrali hanno collaborato allo stimolo fiscale garantendo tassi d’interesse prossimi a zero; stabilità dei titoli pubblici qualunque fosse il livello del debito e del deficit; finanziamenti diretti all’economia reale; acquisti sul mercato dei titoli pubblici e versamento degli interessi nelle casse del Tesoro.
Questi risultati mettono in luce, per contrasto, l’inaccettabile e gratuita performance dell’Eurozona: qui la produzione industriale e il Pil sono ancora inferiori del 15% e dell’1,6% rispetto al 2008; la crescita è minima, tutta importata dall’estero, non in grado di abbattere la disoccupazione. I Paesi periferici, come Irlanda e Portogallo, le cui politiche economiche vengono da anni additate a modello dalla Commissione Europea, patiscono l’emigrazione, ogni anno, di quasi l’1% della popolazione. La classe dirigente europea continua a nascondersi dietro alla favola della crisi mondiale: ma quel che succede nella zona Euro, dal 2010 in poi, non assomiglia affatto a quanto accade altrove. Se l’Europa – solo l’Europa – adotta un sistema monetario simile al gold standard, a cui aggiunge politiche del cambio, monetarie, e fiscali Hooveriane, non sorprende che le conseguenze siano simili a quelle degli anni ’30.
Fra queste conseguenze, vi è anche l’isolata prosperità di un grande paese europeo che gode di un tasso di cambio sottovalutato. Il suo enorme surplus commerciale drena domanda dal resto del continente; i capitali affluiscono copiosi; i tassi d’interesse sono ai minimi; il bilancio è in pareggio senza austerità. Scambiando la buona sorte per virtù, impartisce lezioni ai vicini. «La nostra nazione merita l’ammirazione di tutti» – diceva nel ’32 il presidente del Consiglio francese, Tardieu – per la sua «struttura economica armoniosa», la «parsimonia» dei suoi abitanti, «la flessibilità del sistema economico», la sua «modernità…». La Francia, ultima ad entrare nella Grande Depressione (quando gli altri svalutarono), ultima ad uscirne, insegna che un Paese in surplus non ha alcun incentivo a modificare la situazione. Così è per la Germania. Nel suo recente discorso al Bundestag, la Cancelliera ha ribadito che la deflazione è la strada obbligata per i paesi in deficit commerciale. Dunque, tagli ai salari e ai bilanci pubblici; aiuti, sotto pesanti condizioni, solo quando si fosse sull’orlo di una crisi sistemica. Ed in futuro, “contratti” per imporre le riforme strutturali: le nazioni europee – ha osservato Carlo Clericetti – dopo aver rinunciato alla moneta e alla sovranità di bilancio, dovrebbero anche lasciare ad altri le decisioni su quali riforme fare e come; se non sono d’accordo, dice la Merkel, «li spingeremo» ad accettare. Ma di fronte all’inchiesta europea sugli aiuti di Stato legati ai sussidi energetici «la Germania non tollererà un indebolimento delle sue industrie o la perdita di posti di lavoro». Stessa risposta era stata data ai richiami della Commissione sul surplus commerciale.
La storia degli anni 30 offre un altro insegnamento: nonostante i pessimi risultati, le politiche deflazioniste non vennero mai abbandonate dalle élite democratiche del tempo, trincerate dietro il motto: «L’austerità non ha alternative!». Solo i partiti anti-sistema o perfetti outsider come F.D. Roosevelt risposero al grido d’aiuto dei disoccupati. La crisi odierna è per certi versi ancora più complessa: l’Euro è più rigido del gold standard, non è così facile uscirne; la Bce, pur mantenendo alta la tensione (ieri sugli spread, oggi flirta con la deflazione), impedisce comunque l’esplosione finanziaria del sistema. Ma negli anni 30 non esisteva la teoria macroeconomica, oggi la scusa dell’ignoranza non vale più. O non dovrebbe valere. Eppure, in questi anni ci è stato detto, prima, che non c’era una crisi della domanda; poi, che l’insufficienza della domanda era reale, ma “di breve termine”; infine, si fa capire che la crisi è necessaria per imporre le riforme. La saldatura degli interessi della Germania, dei riformatori neoliberali, e degli eurocrati che puntano all’unione politica europea sta prolungando la crisi. Il problema non è economico, è interamente politico.
Ha notato Paolo Savona sul Sole del 22 dicembre che le ricette deflazioniste – sconfitte alla prova dei fatti – tuttavia hanno vinto sul piano politico. Ma questa “vittoria” comporta alti prezzi politici: una deriva tecnocratico-autoritaria in Europa, e una forte riduzione dei consensi alle istituzioni democratiche nazionali. Perciò un compromesso dovrebbe essere nell’interesse anche dell’establishment, per favorire la vera pacificazione nazionale: quella fra chi non ha lavoro e chi governa. In Italia, si tende a cavalcare le pulsioni maggioritarie, peroniste, e anti-costituzionali nella speranza di contenere gli effetti del calo dei consensi. Ma la Corte Costituzionale ci ricorda che non si può favorire la governabilità a scapito della rappresentanza oltre un certo limite. Bisogna essere davvero miopi per non vedere la fragilità di questo disegno. Meglio sarebbe rappresentare gli interessi del corpo elettorale, e ritrovarne il consenso. Come fare?
Una strada c’è. La Confindustria prevede una crescita dello 0,7% quest’anno e dell’1,2% nel 2015. Sono cifre che non cambiano il quadro generale e non consentono in alcun modo di incidere né sul tasso di disoccupazione, né sulle condizioni di povertà.
La nostra proposta è questa. Stabiliamo un obiettivo di crescita del 2% nel 2014 e del 3% nel 2015. Supponendo che, in assenza di politica economica, gli andamenti siano quelli previsti dalla Confindustria, si tratta di aggiungere 1,3% di crescita nel 2014 e 1,8% nel 2015. A parità di politica monetaria e di tasso di cambio dell’euro, l’onere di una accelerazione della crescita ricade sul deficit pubblico. A sua volta la misura del deficit necessario dipende dai moltiplicatori fiscali. Recentemente i moltiplicatori in Italia sono stati pari a circa 1, ma quelli di alcune poste del bilancio – in particolare gli investimenti pubblici, gli acquisti di beni e servizi, i trasferimenti alle fasce in condizioni di povertà assoluta (come le spese sociali studiate dal sottosegretario Guerra per le famiglie più bisognose) – paiono avere valori pari o superiori a 2. Sarebbe dunque sufficiente uno stanziamento – rispetto alle cifre di finanza pubblica indicate nella Legge di Stabilità – dell’ordine dell’1% del Pil nel 2014 e del 0,6% nel 2015. L’impatto iniziale degli aumenti di spesa parrebbe portare il deficit dal 2,7% al 3,9% nel 2014 e dal 2,4% al 3% nel 2015. Ma già nel 2014 l’allargamento della base imponibile darebbe un maggiore gettito fiscale e risparmi di spesa, per 0,5% del Pil (deficit al 3,3%) e nel 2015 per 0,7% (deficit al 2,3%). Il rapporto debito/Pil nel 2017, grazie all’effetto sul denominatore, cioè sul Pil, sarebbe inferiore di 3,5 punti percentuali rispetto a quello che si avrebbe in assenza di tale manovra; e vi sarebbero quasi mezzo milione di disoccupati di meno. Inoltre questi scostamenti modesti, rispetto al vincolo del 3%, non farebbero scattare alcuna sanzione nei confronti dell’Italia.
Questo è il minimo che le classi dirigenti devono al Paese. Se non lo si vuol fare, si ha il dovere di spiegare il perché.