Fonte: Minima Cardiniana
di Franco Cardini e David Nieri
Alla fine ce l’ha fatta. Ormai è noto, ma vale forse la pena di tornarci un istante. Nonostante i sondaggi – che pur vedevano in vantaggio il suo Partito Conservatore – non prospettassero assolutamente un consenso così netto, Boris Johnson ha ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi (365 su 650), un risultato che gli permetterà di governare senza alleanze. “Un mandato elettorale molto forte, un terremoto”, ha commentato il biondo premier, che, sempre secondo i sondaggi, sarebbe stato un primo ministro di basso gradimento popolare, non superando il 35% di apprezzamento da parte dei sudditi inglesi.
Una parola in merito ai sondaggi, questo straordinario mistero. Le elezioni americane del 2016, il referendum inglese sulla Brexit dello stesso anno, le “percezioni” quotidianamente spalmate sui media in merito a un “pentimento triennale” da parte dei cittadini inglesi per aver votato l’uscita dall’Unione Europea, hanno demolito senza timor di smentita tutte le opinioni improntate sul registro del politicamente corretto, ma puntualmente e realisticamente irreale. Già con le scorse elezioni europee il Regno Unito aveva inviato segnali importanti in tale direzione, ben raccolti dalle urne giovedì scorso. Vittoria netta, limpida, schiacciante.
Nel Regno Unito non si votava, nel mese dicembre, dal lontano 1923. Ma la situazione di stallo – soprattutto in merito alla Brexit, pomo della discordia tra Labour e Tories – ha costretto l’attuale Primo Ministro a indire nuove elezioni anticipate per superare l’impasse: impresa che non era riuscita alla collega Theresa May, costretta a lasciare l’incarico nel luglio scorso.
Negli ultimi mesi l’attuale Primo Ministro aveva già tentato, per ben tre volte e senza successo, di ottenere il voto richiesto (due terzi dei parlamentari) per indire le elezioni politiche anticipate. Finalmente, il 29 ottobre il disegno di legge elettorale è stato approvato alla sua terza lettura alla Camera dei Comuni.
La posta in gioco, ovviamente altissima, non riguardava soltanto il governo del paese. L’ostacolo principale era il muro contro il quale si era scontrata la gestione della Brexit dopo il referendum (dall’esito sorprendente, sempre secondo i sondaggi) dell’ormai lontano 2016. Boris Johnson, fin dal suo insediamento a Downing Street, aveva affrontato la questione in modo drastico e netto, richiamando a gran voce lo spettro di una “Hard Brexit”, che avrebbe significato un’uscita dall’Unione Europea senza un accordo di recesso, con gravi conseguenze per gli scambi commerciali da una parte e la gestione dell’immigrazione dall’altra.
Dall’altra parte, l’intenzione del leader laburista Jeremy Corbyn, in caso di una sua (improbabile) vittoria alle elezioni, era la negoziazione di un nuovo accordo di uscita dall’Unione europea da sottoporre successivamente a un nuovo referendum popolare.
Corbyn, con un tasso di gradimento in discesa libera soprattutto dopo le sue dichiarazioni in chiave antisionista, ma anche per l’atteggiamento incerto nei confronti della Brexit (un “sì” o un “no” netto avrebbero forse giovato), ha giocato malissimo le proprie carte. Le sue proposte politiche di rilancio (fine dell’austerità e dei tagli degli ultimi anni, nazionalizzazioni di molti servizi privatizzati negli anni novanta, aumento della spesa a beneficio del sistema sanitario nazionale, l’NHS) sono state accolte tiepidamente. E nulla avrebbe potuto un eventuale accordo con lo Scottish National Party, schieramento di matrice socialdemocratica favorevole all’indipendenza della Scozia e alla permanenza nell’Unione Europea. A tal proposito, la premier Nicola Sturgeon, che ha ottenuto 13 seggi in più, ha già rilanciato un secondo referendum per l’indipendenza: via dal Regno Unito e dentro l’Europa. Chissà cosa ne penserebbe William Wallace…
E mentre Corbyn ha già annunciato le sue dimissioni da leader del partito alle prossime elezioni, il biondo galvanizzato, nel suo primo discorso, ha confermato la volontà di “andare fino in fondo con la Brexit” promettendo inoltre l’assunzione di 6 mila medici per migliorare il sistema sanitario nazionale. Si prevede che già a Natale si potrebbe votare alla Camera dei Comuni l’approvazione dell’accordo Brexit raggiunto con Bruxelles. Il premier ha infatti presentato il suo Withdrawal Agreement Bill (WAB) già venerdì scorso: è ormai certo, quindi, che il Regno Unito uscirà dalla UE il 31 gennaio 2020; dopo tale data avrà inizio il periodo di transizione, che durerà almeno un anno (prorogabile fino a due), durante il quale verranno negoziati gli accordi commerciali.
C’è da dire che, nonostante le previsioni catastrofiche susseguitesi all’indomani del referendum del 2016, dal punto di vista economico lo UK (il Regno Unito) gode di buona salute. Negli ultimi mesi il tasso di disoccupazione è sceso al 3,9 per cento, per poi risalire leggermente durante l’estate. Non si registravano tassi così bassi dal 1975, a dimostrazione che l’economia inglese è solida, anche se i punti critici sono diversi e Johnson dovrà necessariamente considerarli. Dal 2016 la crescita del PIL inglese non ha subìto flessioni e la svalutazione della sterlina conseguente all’esito del referendum si è dimostrata favorevole all’export e agli investimenti esteri sul territorio. D’altra parte, la grande incertezza degli imprenditori non ha incoraggiato investimenti interni, una situazione di stallo che ormai dovrebbe risolversi nel giro di qualche mese, così come la perdita del potere d’acquisto di una parte consistente dei lavoratori inglesi e l’inflazione in costante aumento dovrebbero riequilibrarsi grazie anche alla risalita della sterlina. Ma tutto dipenderà dalla tipologia di accordi che Johnson riuscirà a strappare a Bruxelles.
La Gran Bretagna si appresta a diventare un paese extracomunitario a tutti gli effetti. Nei prossimi mesi capiremo con più precisione quali saranno le conseguenze per i lavoratori stranieri (tra i quali moltissimi italiani) e per la bilancia commerciale dei molti paesi che, con la Gran Bretagna, hanno da tempo rapporti consolidati.
Certo è che l’esito di queste elezioni dovrebbe inviare un segnale importante, non solo economico. Probabilmente per una rinegoziazione dell’Europa da parte degli stessi paesi appartenenti all’Unione.
A tal proposito, permettiamoci qualche apparente “divagazione” sul tema che forse più c’interessa: l’Europa, la sua attuale crisi che dura da anni, le sue vaghe e lontane prospettive di una futura vera unione politica, che noi ardentemente auspichiamo nonostante tutto e che sono ahimè in troppi ad ostacolare.
Che l’Inghilterra sia un grande, glorioso, straordinario paese europeo, senza il quale l’Europa non sarebbe la stessa, è chiaro ed evidente. Ma non è, non può, non sa, non vuole essere un paese “europeista”: diremmo che, storicamente parlando, a meno di non rinnegare gran parte di se stessa e della sua storia, essa non lo sarà mai. E aggiungeremmo, ponendoci sulla venerabile scia di personaggi quali Carl Schmitt e Charles De Gaulle, che ciò è un bene. Se e quando si deciderà a nascere – cioè a compiere quel comunitario atto di volontà di passare dalla potenza all’atto per quanto concerne la sua nascita – una “nazione” europea conscia di se stessa (come esiste una “nazione americana” per i cittadini degli USA), decidendo di conferire a tale nuova realtà un assetto istituzionale federale o confederale (e ribadiamo che il secondo appare più adatto alla storia e alle tradizioni di una compagine che da Reykjavik si estenda fino a Malta e da Lisbona sino a Varsavia e magari a Kiev, senza perder di vista le “eurasiatiche” Mosca e Ankara), perché per essere nazione bisogna voler esser tale, essa dovrà beninteso essere policentrica, ma al tempo stesso anche centripeta. L’Inghilterra, che non può né deve rinunziare ad essere il cuore del Regno Unito, è a capo di una realtà continentalmente e culturalmente parlando centripeta, il Commonwealth, che si estende disseminato sui cinque continenti e che sul piano delle tradizioni e dell’autocoscienza se non della forma istituzionale comprende anche la sua figlia ribelle ma anche per molti versi prediletta, l’Unione degli stati del subcontinente nordamericano, vale a dire gli USA.
Ora, Unione Europea a Commonwealth non possono né esser la stessa cosa né esser suscettibili di unione di sorta: non conoscono alcun tipo di parità né di complementarità, per quanto siano entro certi limiti e da certi punti di vista affini. Di più: l’unione tra Commonwealth e USA coincide, geoculturalmente e geopoliticamente parlando, con l’Occidente nell’accezione schmittiana del termine, ch’è essenzialmente unione di terre e di oceani, e dinanzi alla quale si pone un’altra realtà “unita nella diversità” e nella complessità, ma sostanzialmente omogenea: il macrocontinente eurasiatico, l’Oriente schmittiano. In quanto europei, possiamo anche sfuggire all’“abbraccio” eurasiatico (se non addirittura eurasiafricano) e tenerlo a bada con millanta precisazioni, puntualizzazioni, articolazioni ed eccezioni: ma una storia millenaria s’incontra con gli ultimi sviluppi della politica e della tecnica (e pensiamo anzitutto, soprattutto al One Belt One Road Project) nel suggerirci che bisogna prima o poi, una volta per tutte, uscire, proprio in quanto europei, dall’equivoco “occidentalistico-atlantista” elaborato come strumento di controllo dagli USA sull’Europa occidentale al tempo della “Guerra Fredda” e mantenuto purtroppo anche dopo, ammucchiando equivoci su equivoci, spese su spese, atti di violenza su atti di soggezione, guerre su guerre: guerre che gli USA hanno voluto e programmato e che i paesi europei aderenti alla NATO – con qualche parziale eccezione per Regno Unito e Francia – hanno sempre e solo subìto. Italiani “sovranisti”, volete davvero acquistare una parvenza di credibilità in quanto tali? Pretendete che l’Italia e gli altri paesi europei escano dalla NATO; con ciò stesso smantellandola.
Peraltro, quello che avremmo da tempo dovuto provocare noi europei sta accadendo per volontà di Chiomarancio Trump e di Chiomabionda Johnson. La Brexit, insieme con la politica di privilegi al Regno Unito che il presidente USA ha già varato, comporterà un più stretto e solido legame fra le due sponde, la statunitense e la britannica, dell’Atlantico, mentre l’atra alleanza di ferro, quella statunitense-nipponica, offrirà al Leviathan territorial-oceanico occidentale la prospettiva egemonica sul Pacifico. Qualcuno di noi voleva uscire dalla NATO: prenda ora atto che è essa che ci sta di fatto abbandonando. Una NATO privata di USA e Gran Bretagna non sarebbe più nulla: e tale quadro ormai – e non certo per merito nostro – è plausibile, a portata di mano. Noialtri, gli eurasiafricani, siamo ormai l’Oriente: prendiamone atto. Come diceva il chierico Foucher di Chartres che si era insediato in Palestina all’indomani della prima crociata, “Nos, qui occidentales fuimus, nunc orientales facti sumus”. Il che, beninteso, pone subito altri e nuovi problemi. Che cos’è Israele? Che cos’è l’Arabia saudita? Fermiamoci qui, per ora: ci torneremo.
Franco Cardini – David Nieri