Nostalgia canaglia … della Fornero

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Anna Lombroso
Fonte: il Simplicissimus
Url fonte: http://ilsimplicissimus2.wordpress.com/2014/08/13/nostalgia-canaglia-della-fornero/

Sono sempre assolutamente d’accordo con Anna Lombroso e questo articolo mi sembra davvero centrare il problema: quando si comincia a toccare la Costituzione senza un progetto ben definito e chiaramente improntato alla tutela dei diritti, poi tutto vien da sé e un’involuzione che riduce gli spazi di democrazia è sempre dietro l’angolo. Ora il problema è l’articolo 18 su cui, tra l’altro, stanno venendo al pettine i nodi delle smisurate intese: sì, no, sì, fino alla sintesi del Premier: NI. Naturalmente neppure secondo me è quello il problema: i problemi sono due, uno da parte dello Stato, l’alto da parte della classe imprenditoriale. Da parte dello Stato ben poco si è fatto per agevolare l’impresa e per attrarre investimenti e quello che si è fatto lo si è fatto male, garantendo libertà di inquinare (vedi ILVA) e colate di cemento: ma dov’è la banda larga? addirittura alcune città (Alessandria, ad esempio) non sono ancora tutte cablate con le fibre ottiche; la burocrazia, è lenta e macchinosa, ma ugualmente non in grado di garantire trasparenza contro le infiltrazioni mafiose, la giustizia civile ha tempi eterni, il livello di tassazione è altissimo perché sono in pochi a pagare…. Da parte degli imprenditori, poi, ci sono stati, a mio giudizio, due errori di fondo: il primo, quello di aspettarsi troppo dallo Stato (se è vero, come ho letto, che la FIAT è molto avanti nella sperimentazione di auto elettriche in USA grazie agli stimoli del Governo, mentre in Italia non fa nulla perché questi mancano) e quello di non puntare sull’innovazione; la scelta di puntare sul manifatturiero sarebbe vincente là dove si facessero prodotti di eccellenza, per fasce alte ed altissime, quindi soprattutto per l’esportazione: infatti le poche eccellenze che fanno questo risultano vincenti. Invece molti preferiscono fare i furbi, praticamente falsificare se stessi affidando la lavorazione (quasi in toto) a contoterzisti Cinesi o Italiani che lavorano con gli stessi metodi, sperando nell’ingenuità degli acquirenti che preferiscono spendere 3500 euro in un prodotto griffato che 180 nello stesso prodotto non griffato. Report, Ballarò e Presa Diretta hanno dedicato puntate a questo argomento: sono ancora reperibili sui siti rispettivi. Detto questo, siamo sicuri che quello che serve sia la precarizzazione del lavoro e la diminuzione delle tutele? se così fosse, dovremo allora attrezzarci per fare concorrenza a Paesi Africani afflitti da guerre endemiche e colpi di Stato, con la più totale assenza di diritti e la sopravvivenza come generoso dono: infatti la Cina sta già alzando gli stipendi e risanando l’ambiente, in Bangla Desh, ancora paradiso degli imprenditori sfruttatori, dopo la tragedia del Plaza hanno messo qualche paletto: quando si evolveranno anche gli altri, che faremo per battere la concorrenza? In un passato Governo di Centro Destra un Ministro aveva detto che assicurare la completa sicurezza sul lavoro è un lusso che non ci possiamo permettere….; e intanto, la precarizzazione delle esistenze sta già dando frutti avvelenati, come dimostra il razzismo dilagante cui vengono fatte irresponsabili concessioni da parte di chi, invece, si trova collocato in posti di responsabilità, politica o sportiva

Claudia Barberis – facebook, 14 agosto 2014

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Anna Lombroso per il Simplicissimus – 13 agosto 2014

Ma allora ci tenevamo la Fornero, che almeno non ha mai fatto niente per rendersi simpatica, allora ci tenevamo Monti, che almeno parlava in inglese. Meglio ancora ci tenevamo Berlusconi, che ci faceva ridere tra le lacrime.

Nel Paese che vanta il terzo posto al mondo per evasione fiscale, ma la pressione fiscale più alta dell’Occidente per quelli che le pagano le tasse, un sistema sanitario al collasso, monumenti impacchettati per nascondere la vergogna dell’abbandono, coste e isole in svendita, città d’arte oltraggiate da navi-condominio, tunnel sotterranei, traffico soffocante, oltre che impiccate dai debiti quindi messe all’incanto per quanto riguarda aziende di servizio, proprietà e monumenti. Nel Paese nel quale i costi diretti della corruzione   ammontano ogni anno a 60 miliardi di euro, e dove ciononostante, anzi, proprio per questo, si continua ad investire in quelle grandi opere che la nutrono, anziché nella cura del del territorio, mentre  il 6,6% del territorio nazionale è in frana, il 10% a elevato rischio idrogeologico, il 44% a elevato rischio sismico, dove i costi della mancata manutenzione idrogeologica sono stati valutati in 3,5 miliardi di euro l’anno (senza contare i morti), dove dal 1985 al 2011 si sono registrati oltre 15.000 eventi di dissesto, di cui 120 gravi, con 970 morti, dove il consumo di suolo è del 6,9%,  circa otto metri quadrati al secondo per ciascun secondo degli ultimi cinque anni, a fronte del 2,8% europeo, ebbene in questo Paese pare che l’ostacolo che si frappone alla crescita, il peso che ci tira sotto, nel profondo della crisi sia rappresentato dalle arcaiche e scriteriate libertà che si sono negli anni concesse ai lavoratori e che è giudizioso e lungimirante oltre che moderno, smantellare come idola maligni.

E infatti il premier ha usato le stesse parole della Fornero, le stesse di Sacconi, le stesse di Ichino, le stesse di chi negli anni ha ammansito un padronato sempre più insipiente ed avido, inidoneo a produrre e investire in ricerca, sicurezza e competitività, manager sempre più inefficienti e arroganti attenti solo a foraggiare l’azionariato, con la promessa di cancellare definitivamente quel quadro di garanzie già ampiamente minacciato da una crisi pilotata proprio al fine di abbattere lavoro, diritti e democrazia.

E infatti ha scelto come priorità allegorica di mettere mano alla Carta costituzionale che stabilisce all’articolo 1 che la nostra è una repubblica fondata sul lavoro, così una volta obliterato quello, si può passare allo Stato, già mutilato della sovranità, e al sistema repubblicano, già fortemente menomato nella rappresentanza.

La menzogna, ripetuta come un malefico mantra da politici vecchi e nuovi, imprenditori, giuslavoristi e secondo la quale l’Italia avrebbe bisogno di una illimitata flessibilità per poter competere con gli altri paesi avanzati, ha ormai il naso lungo come il mito dell’austerità e si rivelerà altrettanto inefficace, probabilmente suicida. O come la convinzione che la crisi sia un accidente nel percorso del sistema economico e che il prezzo di morti, erosione dello stato sociale, perdita dei diritti sia il costo minimo da pagare per proseguire nel cammino inarrestabile del progresso.

La loro flessibilità, comunque la si giri, significa facilità di licenziare, diffusione di contratti di durata talmente breve da non richiedere nemmeno il ricorso al licenziamento.

Ma  vuol dire anche un mutamento tossico che si vorrebbe imporre al pensiero comune e alle esistenze, perché infligge costi a carico della collettività, dei singoli, delle famiglie, della comunità, insinuando che la rinuncia ai diritti sia un obbligo sul quale non si può transigere pena l’emarginazione totale. E facendo credere che l’abiura dalla sicurezza sia una scelta inderogabile, che è necessario, ineluttabile sottoporsi a contratti a termine, a collaborazioni, quelle chiamate continuative ma di fatto discontinue, a lavori intermittenti e occasionali, oppure semplicemente in nero, come se tutto questo non producesse una ferita profonda, che origina nelle vite insicurezza, impossibilità di fare progetti, ansia e incertezza e – infine – una sfiducia e una disaffezione della cittadinanza e un disincanto della democrazia che non ha saputo proteggere gli individui da una pressione così potente e maligna.

E infatti la precarietà non definisce solo la natura dei contratti, ma entra nel profondo, rendendo atipiche le aspettative e le ambizioni, connota una condizione umana e sociale incerta, ricattabile, suscitando l’impressione che qualcosa che uno stato che dovrebbe essere provvisorio, diventi invece perenne come un ergastolo, come una condanna a una vita indeterminata,   instabile.

E non è certo casuale: c’è una volontà nel nutrimento che viene dato all’insicurezza, in modo che muovendo dalle condizioni di lavoro, intrida tutta la vita privata e pubblica, nelle quali – lo dice l’etimo stesso della parola, è stato ricordato in questi giorni – quello che si è raggiunto è  instabile, discrezionale  e dipende dall’arbitrarietà come un diritto a termine ottenuto in seguito a una preghiera.

E non sono solo le garanzie del lavoro a essere “revocabili”, ma le certezze esistenziali, le speranze, le aspettative, i vincoli affettivi, i cardini, i fondamenti e le direzioni che vogliamo far prendere alle nostre vite, a essere soggetti a decisioni di altri, padroni o chi è al loro servizio, che ci vogliono vite nude, senza sogni, senza ideali, senza passioni e senza passato, così da persuaderci che non abbiamo diritto a un riscatto che non conosciamo nemmeno più.

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