La linea politica del Movimento Cinque Stelle

per Urlife
Autore originale del testo: Livio Ghersi

 

 

Sono tra coloro che vorrebbero che il Governo presieduto da Giuseppe Conte restasse in carica per un periodo sufficientemente lungo da darsi una fisionomia di governo chiara e tale da poter essere apprezzata da un numero crescente di italiani. La maggioranza che sostiene il Governo, viceversa, non naviga al momento in buone acque. Le elezioni regionali in Umbria hanno contribuito a peggiorare i suoi rapporti interni.

La forza politica che mi sembra abbia più problemi di tenuta è oggi il Movimento Cinque Stelle. Cosa comprensibilissima, considerato che, in questa stessa diciottesima Legislatura, ha mutato il proprio sistema di alleanze, passando da un un’intesa di governo con la Lega, ad un’intesa di governo con il Partito Democratico ed altre forze di centro-sinistra. I parlamentari del Movimento sembrano frastornati e si vedono, fra loro, pericolose tendenze centrifughe.

Anche altri partiti hanno difficoltà. Poiché conosco meglio la classe dirigente del Partito Democratico, sono abbastanza sicuro che questo troverà, comunque, il modo di risolvere i problemi del proprio assetto interno. Nicola Zingaretti fa quello che deve fare un Segretario politico: media e si preoccupa di garantire l’unità in un partito necessariamente plurale. Il PD, poi, ha ancora qualche capacità di visione e di elaborazione teorica perché ha conservato dentro di sé forze intellettuali non banali (cito, per tutti, Gianni Cuperlo, il quale, non essendo più parlamentare, può essere lodato, senza che alcuno abbia motivo di adombrarsi). Tanti parlamentari del PD sono dotati di una buona esperienza politica; non sono né improvvisatori, né dilettanti allo sbaraglio.

Molto più difficile la condizione del Movimento Cinque Stelle. Il suo problema fondamentale è già stato individuato da tempo. Lo stesso Luigi Di Maio ne ha diffusamente parlato a Napoli, in occasione della festa per il decimo anniversario della costituzione del Movimento. Si tratta di darsi un’organizzazione interna, composta sia da promotori e responsabili dell’attività in tutti i territori del Paese (almeno, a partire dalla dimensione regionale), sia da responsabili delle linee di indirizzo politico per grandi aree tematiche.

C’è però una questione preliminare di cui Di Maio non parla perché riguarda sé stesso. Egli è attualmente impegnato nella responsabilità di ministro degli Esteri. Si tratta di un ruolo oggettivamente delicato, che comporta impegni e scadenze quotidiani, che richiede studio e preparazione di ogni argomento, che risulta tanto più impegnativo per chi, come Di Maio, è un neofita in materia. Se egli vuole far bene il ministro e mantenere contemporaneamente il ruolo di Capo della nutrita delegazione dei ministri del Movimento Cinque Stelle nel governo Conte, non può fare anche il Capo politico del Movimento. Non lo può fare perché non ne ha il tempo materiale.

Al Movimento Cinque Stelle serve disperatamente, invece, un Capo politico che sia un coordinatore organizzativo; il quale per quindici / sedici ore al giorno si occupi esclusivamente di dare un efficace assetto interno al Movimento. Il che significa, nella prima fase, incontrare tutti coloro che hanno qualcosa da dire, qualcosa di cui lamentarsi, qualcosa da proporre.

L’assetto passa dalla costruzione dell’organizzazione nei territori e dalla formazione dei dipartimenti tematici. Nell’uno e nell’altro caso, si tratta di individuare persone affidabili, competenti, motivate e questa selezione ha di per sé una valenza politica delicatissima. C’è, però, una questione ancora più urgente. Il Movimento segue proprie regole bislacche per cui, ad esempio, l’avvicendamento dei presidenti dei Gruppi parlamentari alla Camera ed al Senato si effettua con una frequenza ravvicinata (di fatto, restano in carica poco più di un anno). 

Alla Camera la attuale consistenza del Gruppo parlamentare del Movimento Cinque Stelle è davvero ragguardevole: 216 deputati, a fronte dei 124 deputati della Lega e degli 89 deputati del PD. Il presidente Francesco D’Uva ha esaurito il proprio mandato e, da più di due settimane, non si riesce ad eleggere il successore. Il gruppo è retto da un vicepresidente vicario, Francesco Silvestri, persona simpatica, ma che finora non ha avuto i numeri per diventare presidente. Anche la effettiva capacità di guida di un gruppo parlamentare così numeroso è questione di importanza prioritaria in una democrazia parlamentare qual è quella italiana.

Se ci fosse un Capo politico, veramente tale, non dovrebbe dormire la notte pur di trovare soluzione al problema di dare un assetto stabile ai gruppi parlamentari. Perché è dai gruppi che il Movimento trae la sua forza per realizzare il proprio programma nelle Istituzioni.

Mi permetto di dare questi, non richiesti, consigli al Movimento Cinque Stelle proprio perché non ho alcunché in comune con esso. Non l’ho mai votato e mi pare estremamente difficile che ciò possa accadere in futuro. Ragiono, quindi, con la freddezza ed il distacco di un osservatore esterno. Il quale, però, in questa fase, non si augura un crollo del Movimento Cinque Stelle perché ciò significherebbe la caduta dell’attuale Governo, il ricorso alle elezioni anticipate, la più che probabile vittoria elettorale di una coalizione nominalmente di “centrodestra”, ma effettivamente molto di destra, guidata da Salvini.

La manovra economica è stata delineata nelle sue linee essenziali, ma deve ancora essere approvata dal Parlamento. Non è stato fatto comprendere agli italiani che l’aumento dell’Iva avrebbe comportato effetti economici molto negativi per loro, nella concreta vita quotidiana. Di conseguenza, si è presentato il fatto che si si sia evitato l’aumento dell’Iva come cosa scontata; invece, non era per nulla facile. Da qui, è dipeso l’errore di consentire agli avversari del Governo di parlare soltanto di ciò che manca nella manovra economica, oppure di lamentarsi per l’introduzione di piccole nuove tasse, talora molto creative.

Nessuna forza politica ha il coraggio di dire con onestà intellettuale che le risorse finanziarie disponibili sono poche. Che un debito pubblico come quello italiano è un macigno che comporta effetti negativi rilevantissimi. Che, pertanto, è impensabile che si possano finanziare politiche economiche sempre in deficit, perché ogni nuovo deficit di bilancio accresce il debito pubblico. Nessuna forza politica ha il coraggio e l’onestà intellettuale di dire che si se si vogliono servizi pubblici rivolti alla generalità dei cittadini, quali il servizio sanitario, l’istruzione scolastica, l’ordine pubblico nelle città, questi servizi si devono finanziare in qualche modo. Il modo classico di finanziare i servizi pubblici rivolti alla generalità è quello del prelievo fiscale, ossia, imposte e tasse.

Affermare che si debba pagare il meno possibile di imposte e tasse, argomento abituale delle destre, significare dire una cosa che suona in modo accattivante, significa attrarre “popolarità”. Il problema resta poi: chi paga gli agenti delle Forze dell’ordine, le loro divise, il loro addestramento, le loro armi, le autovetture che utilizzano, le tecnologie di cui dispongono? Chi paga il servizio sanitario nazionale, che deve assicurare le cure anche a quanti non si possono permettere di pagarle? Chi paga le scuole che devono garantire a tutti i bambini, di qualunque estrazione sociale, di ottenere una formazione di base, che consenta poi loro di portarsi avanti nella vita? Eccetera. Eccetera. La demagogia è una brutta bestia. É il cancro della democrazia. In Italia, purtroppo, non c’è una destra liberale che abbia senso dello Stato, che si preoccupi di tenere in ordine i conti pubblici, che faccia pagare le tasse a tutti senza favoritismi per alcuno. No, a noi è toccata in sorte la destra peggiore, quella irresponsabile e populista, quella che se ne frega dell’equilibrio dei conti pubblici, che sostiene che evadere le tasse è giusto, che fantastica di “tasse piatte”, ottimali per chi è ricco.

Di fronte a questa destra, le forze politiche responsabili dovrebbero impegnarsi in un grande lavoro di convincimento culturale dell’opinione pubblica, da sviluppare capillarmente nei territori. Un Paese si salva e progredisce se ci sono forze morali, prima che politiche, disposte ad impegnarsi e battersi per il suo futuro. Altrimenti, restano soltanto la disgregazione ed il caos. Le forze politiche dell’attuale maggioranza dovrebbero sentire la responsabilità dei tempi in cui viviamo. Occorrono compattezza e disciplina, spirito di sacrificio del proprio interesse particolare, per difendere l’interesse generale. Si comprende che una forza politica nuova, come Italia Viva, cerchi di affermarsi, marcando la propria identità. É assolutamente sbagliato, tuttavia, prendere le distanze dalla manovra economica del Governo e dichiarare che si intendono presentare emendamenti per modificarla in questo o quel punto. Così si mina definitivamente la compattezza di una maggioranza che, in questo momento, è fin troppo fragile. Matteo Renzi dimostri di poter essere molto meglio di come finora è stato descritto.

Per tornare al Movimento Cinque Stelle, il testo della legge costituzionale che modifica gli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione, riducendo il numero dei parlamentari, è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 12 ottobre 2019, n. 240. Il cammino, tuttavia, è ancora lungo se si vuole che quella riforma entri in vigore ed abbia un effetto positivo per il funzionamento delle nostre Istituzioni rappresentative. I fatidici tre mesi dalla pubblicazione scadranno nel mese di gennaio del 2020 e si dovrà vedere se, per quella data, sarà in campo una richiesta di Referendum popolare confermativo.

L’intesa finora raggiunta tra Movimento Cinque Stelle, Partito Democratico, Liberi ed Uguali ed Italia Viva circa le ulteriori riforme costituzionali da approvare, per trovare un migliore equilibrio istituzionale dopo la riduzione del numero dei parlamentari, è assai meschina, di corto respiro.

Può andar bene la decisione di abbassare il limite di età per eleggere i senatori, consentendo anche ai diciottenni di eleggerli (al momento, l’età per votare per il Senato è fissata a 25 anni). 

Del tutto irrazionale, mi sembra, invece, eliminare le caratteristiche che fanno del Senato un ramo del Parlamento con una natura diversa rispetto a quella della Camera dei deputati. I padri Costituenti vollero due camere, con caratteristiche fra loro diverse, perché pensavano che il procedimento legislativo fosse una cosa seria, quindi dovesse essere approfondito e meditato, e che una seconda Camera potesse servire a rimediare a eventuali errori e sviste della prima, migliorando così la qualità complessiva della legislazione. 

Un Senato eletto su base regionale non è una bizzarria. In futuro, un più complessivo progetto di riforma della Costituzione potrebbe anzi valorizzare tali caratteristiche del Senato, in materie come l’ordinamento degli enti locali, l’eventuale razionalizzazione dell’assetto delle Regioni esistenti (nel senso di ridurne il numero), la finanza regionale e locale. Il sostenere che, dopo la riduzione del numero dei parlamentari, al Senato alcune Regioni rischierebbero di restare senza rappresentanza è una grossolana falsità: la previsione dell’articolo 57 della Costituzione, dopo la riforma, è che nessuna Regione o Provincia autonoma (si intende, Trento e Bolzano) possa avere un numero di senatori inferiore a tre. Restano invariate le previsioni per il Molise (due senatori) e per la Valle d’Aosta (uno). La circostanza che una lista regionale, pur ottenendo, al Senato, un consenso intorno al venti per cento possa non ottenere rappresentanza, è cosa che, personalmente, non mi addolora più di tanto. Il Senato degli Stati Uniti d’America, per fare un esempio, elegge soltanto due rappresentanti per ogni Stato, quand’anche si tratti di uno Stato grande e popoloso come la California.

Miope mi sembra anche la logica che riguarda la determinazione del Collegio elettorale per l’elezione del Presidente della Repubblica. I rappresentanti della maggioranza si sono accordati per ridurre il numero dei delegati regionali designati ai sensi dell’articolo articolo 83, secondo comma, della Costituzione. Elettori che, attualmente, sono, complessivamente, 58.

Parlo di miopia perché l’attuale maggioranza coltiva l’aspirazione ad eleggere, con le sole proprie forze parlamentari, il prossimo Presidente della Repubblica, alla scadenza del mandato del Presidente Mattarella. Di conseguenza, conta i numeri col bilancino del farmacista. Bisognerebbe preoccuparsi, invece, di esaltare il ruolo del Presidente della Repubblica quale “Capo dello Stato” e rappresentante della “unità nazionale”, come recita l’articolo 87 della Costituzione.

Di conseguenza, non soltanto bisognerebbe confermare gli attuali 58 cosiddetti “grandi elettori regionali. Bisognerebbe fare uno sforzo ulteriore: ho proposto di inserire in Costituzione un articolo aggiuntivo, dopo l’83, per disporre che partecipino di diritto all’elezione del Presidente della Repubblica, in ragione della loro carica: i presidenti delle Regioni, i sindaci dei Comuni capoluogo di Regione, i sindaci dei Comuni con popolazione superiore a 150.000 abitanti, che non siano capoluogo di Regione. Questi ultimi sindaci, secondo i dati Istat del Censimento generale della popolazione dell’ottobre 2011, sarebbero esattamente tredici: Catania, Verona, Messina, Padova, Taranto, Brescia, Prato, Reggio Calabria, Modena, Parma, Reggio Emilia, Livorno, Ravenna. Di conseguenza, secondo l’impostazione di questo eventuale articolo aggiuntivo, parteciperebbero all’elezione del Presidente della Repubblica ulteriori 55 grandi elettori.

Bisogna preoccuparsi del prestigio e della buona funzionalità delle Istituzioni: tanti presidenti delle Regioni e sindaci che contribuissero ad eleggere il Presidente della Repubblica, aumenterebbero la dignità politica della sua carica e renderebbero l’immagine plastica dell’unità nazionale che si realizza intorno a lui.

Palermo, 29 ottobre 2019

 

Livio Ghersi

 

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