Fonte: Gli stati generali
Nadia Urbinati è tra le più note politologhe italiane. Docente di teoria politica alla Columbia University di New York, attenta studiosa del fenomeno populista (in uscita, a luglio, un suo saggio sul tema per la Harvard University Press), è convinta che i partiti organizzati siano cruciali per tener viva la democrazia, con buona pace di chi li dava per spacciati. Pensa anche che il populismo sia, prima di tutto, «una strategia di potere». Ma ammette anche che quando c’è uno scollamento tra «i principi di uguaglianza politica» alla base delle nostre democrazie e una realtà fatta di «evidente privilegio» per l’élite, «quando la sfiducia verso coloro che governano ed esercitano il potere è radicale», si apre la porta a scenari di vera e propria rivolta. Come quella dei gilet gialli in Francia.
Al Festival dell’Economia di Trento, la politologa ha cercato di dare una cornice alle tante declinazioni del populismo occidentale. Fenomeni come i gilet gialli sono, a suo parere, il risultato del collasso, o dell’indebolimento, dei partiti di massa. «Quando i molti non possono più contare sull’articolazione dei loro partiti, come succedeva nelle democrazie solide, allora trovano altre forme aggregative. Devono farlo se vogliono far sentire la loro voce. Un tempo i partiti organizzavano non solo la rappresentanza dentro lo Stato, ma la partecipazione fuori da esso. Questo non accade più, i partiti si sono trasformati in meccanismi per selezionare una classe dirigente. E quando succede questo, assistiamo all’affermarsi di forme plebiscitarie». Gli Stati Generali hanno intervistato Urbinati a margine dell’evento. Ecco cos’ha detto.
È un trend molto forte in tutto l’Occidente: le forze populiste conquistano le periferie urbane e le zone rurali, le forze liberali e progressiste resistono nei centri storici. Perché, professoressa?
Perché si tratta di aggregazioni diverse. Tra i grandi centri urbani e le periferie c’è un distacco antropologico, etico, morale. C’è anche la sensazione di non sentirsi a proprio agio a vivere insieme. E questo è terribile, perché significa che quella situazione di uguaglianza popolare in cui per tanti anni ci siamo trovati non esiste più. Tutto ciò è un fatto: possiamo parlarne, possiamo discuterne, ma servono delle contromisure. Quali? Occorrono partiti in grado di integrare centri storici e periferie, città e campagna, ma purtroppo in questi anni sono stati fatti dei passi avanti giganteschi nella loro separazione.
Giocano un ruolo essenziale le crescenti diseguaglianze socio-economiche.
Certo. Ma non si tratta solo di economia. Guardiamo, ad esempio, all’evoluzione della scuola dagli anni ’70 in poi, in particolare all’autonomia scolastica. Che doveva essere un grande obiettivo democratico, perché significava che finalmente scuole, genitori e studenti potevano auto-organizzarsi. In realtà questa autonomia è diventata un modo per separare le scuole tra loro. Per esempio una scuola in una zona popolare o periferica fa più fatica a ottenere maggiori finanziamenti privati per avere più attività, e per questo motivo riceve anche meno sostegno economico dallo Stato. Invece le scuole vicine ai centri storici o ai quartieri più abbienti hanno maggiori possibilità. Quindi l’autonomia scolastica, in teoria positiva, si è trasformata in una porta spalancata per le diseguaglianze.
Però c’è populismo e populismo. Come interpreta la crisi di forze venute dal basso come Podemos in Spagna, o il M5S in Italia?
Non sono forze venute dal basso. Sono piuttosto partiti nati come non-partiti. E questa è una precisazione importante, perché l’organizzazione è un elemento fondamentale: non esistono partiti senza organizzazione. Podemos, ad esempio, nasce così, in modo simile al M5S, con una fortissima leadership. La sfida per Podemos, oggi, è trasformarsi in un partito organizzato, non c’è alternativa, le elezioni lo hanno reso evidente. Il punto è che ha perso il rapporto con gli elettori, con le persone, e manca di un organismo interno per controllare il leader e limitarne il potere. Infatti l’organizzazione dei partiti non serve solo a organizzare i militanti, ma anche a fare in modo che chi governa il partito renda conto delle sue scelte, e non possa fare ciò che vuole. Al contrario, quando il leader guida un partito liquido, c’è il rischio che possa fare ciò che vuole.
Questi partiti non-partiti sono un po’ delle tigri di carta… o magari delle tigri digitali?
In parte sì, perché non durano. Solo l’organizzazione consente il radicamento, e un partito ne ha bisogno. Podemos, i 5 Stelle, Ukip, mostrano l’erosione che scaturisce dalla mancanza di organizzazione. La non-organizzazione, che sembra più elastica e capace di attirare, in realtà non sedimenta, e soprattutto implica la mancanza del controllo interno. Anche il PD ha avuto questa crisi interna di leaderismo individuale, con difficoltà nel contenere il potere del leader. Quindi è vero che senza organizzazione è difficile non solo mantenere il consenso nel tempo, ma anche tenere a bada il potere di chi dirige il partito. Ecco perché il partito organizzato è fondamentale in una democrazia.
A proposito di democrazia… ultimamente in Italia ci sono molte persone che chiedono più democrazia diretta, guardando al modello svizzero. Lei che ne pensa?
In Svizzera c’è un misto di democrazia diretta e referendaria, e di democrazia rappresentativa. Qui in Italia abbiamo i referendum, che però non sono (ancora) propositivi. E su questo si sta lavorando, se il governo non cade sarà uno dei temi sul tavolo. Ora, io non so se la democrazia diretta sia meglio o peggio, ma senza dubbio se la grande maggioranza dei cittadini avverte che le elezioni non bastano o non sono abbastanza rappresentative, servono degli altri spazi, come appunto i referendum propositivi. Ma sappiamo anche che in Italia non basta fare i referendum… è importante che chi governa rispetti i risultati e sia coerente con essi. Abbiamo fatto dei referendum che sono rimasti solo sulla carta, senza produrre nulla di ciò che avrebbero dovuto implicare. Quindi, non basta il referendum propositivo in sé; a monte, occorre una classe politica che ne attui il risultato.
I partiti sono strumenti che organizzano le masse, che convogliano verso l’alto le loro istanze, e che “dettano l’agenda”. Ma oggi, lei dice, i partiti si sono invece trasformati in strumenti di leadership. Nel PD, ad esempio, abbiamo quest’incessante produzione di leader: Renzi, l’intermezzo Minniti, Gentiloni, ora Zingaretti… Si tratta però di leader spesso effimeri.
E sono tutti singoli individui che non hanno nessuna connessione forte con l’organizzazione interna.
Che consiglio darebbe ai leader dei partiti italiani “tradizionali”, a partire proprio dal PD?
Di ricostruire questi partiti, negli organi dirigenti come nelle sezioni periferiche, dalla base fino ai livelli più alti. Sono le federazioni, bisogna andare dove i cittadini vivono e arrivare sino al centro. Bisogna ricostruire la piramide, che deve essere presente non soltanto nella Repubblica, ma pure nei partiti.
E del resto è un po’ questa la forza della Lega. I leghisti sono sempre rimasti nei territori, nelle periferie soprattutto rurali.
Certamente. E così era il PCI una volta, e i socialisti nel resto d’Europa.
Lei sostiene che il populismo sia prima di tutto “una strategia di potere”. Può spiegare ai lettori che cosa intende?
Nella democrazia dei partiti la strategia di potere si verifica all’interno di essi, e spesso per cooptazione: è complicata, avviene attraverso meccanismi che stabiliscono chi deve essere messo nelle liste e chi no, è un processo molto lungo. Nella situazione populista invece tutto il processo è molto più semplice; del resto il populismo è strettamente legato alla capacità strategica, decisionale e retorica del leader. Richiede anche la capacità di comprendere quali sono le questioni più problematiche e diffuse nella società, e trovare parole d’ordine in grado di unirle tutte, anche se alla fine nessuna di esse viene soddisfatta in primo luogo. Questo era Perón, questo era Chávez, tutti i leader populisti hanno queste capacità. Spesso legano la loro lotta a un nemico, che può essere l’establishment, gli Stati Uniti o altro. E poi riescono a collegare e unire le esigenze più diverse: da chi vuole una scuola più vicino a casa, a chi vuole un lavoro, unificandole in relazione a un nemico. Come fa Salvini quando tiene insieme il Nord e il Sud, che sono molto diversi. Lui però ci riesce, con cosa? Con l’immigrato, perché l’immigrato è quell’esternalità contro cui ci può essere un’unificazione.
Nel libro-intervista “La mutazione antiegualitaria” cita un vecchio caso assai attuale, quello del sindaco di Bologna Giorgio Guazzaloca. A pag. 20 si legge: “Anche se quel che dico può sembrare un’eresia, il fenomeno Guazzaloca fu un’espressione estrema del governo socialdemocratico, più che un suo rovesciamento. Non esprimeva una richiesta di sovversione da destra, o una svolta di tipo liberista per lo smantellamento del modello emiliano di stato sociale. Rappresentava, piuttosto, una revisione conservatrice di quello stesso modello, al fine di ricalibrarlo. Gli immigrati stavano diventando visibili, benché ancora non numerosi. Gli studenti universitari, non più politicizzati, erano percepiti sempre più come un elemento di disturbo”. Lei parla a riguardo di “appropriazione dei diritti”: da una parte “noi”, in questo caso i bolognesi, dall’altra “loro”, i “diversi”, gli “altri”. È così?
Certamente, ne parlo anche nel mio libro in uscita a luglio. Si tratta appunto di una concezione proprietaria dello Stato, delle leggi, dei diritti. Parlando di “nostri diritti” questi populisti non tolgono diritti, ma vogliono indicarli come solo “nostri”, solo per “noi”. Il diritto in genere è inclusivo, universale, i diritti umani ad esempio vanno ben al di là anche di quelli di un determinato popolo. I populisti invece dicono “sono nostri”, diritti italiani o francesi o di altri, a seconda del caso. E così si lega lo Stato all’entità etno-culturale di un determinato popolo.