di Alfredo Morganti – 5 giugno 2019
“È un problema di comunicazione”: è la frase più ripetuta e più celebre quando sopraggiunge una crisi. Testimonia un’avvenuta metamorfosi, un ribaltamento totale della normale prassi politica: quello per cui non è l’agire politico a fissare i paletti e a indicare le prospettive, ma è l’agire comunicativo a dare la linea. E dunque gli spin doctor, i guru, i portavoce, invece dei dirigenti eletti dai cittadini oppure dai congressi (nel caso si svolgano ancora). Ma in questo senso l’analisi è giusta, effettivamente il problema è che si è comunicato male. Il vuoto della politica non resta mai tale, difatti, la sua assenza non produce una lacuna destinata a restare tale, ma si riempie subito di un’altra cosa, e la fine della politica annuncia l’emergere della prassi comunicativa.
È questa la vera Nottola, quella che sopraggiunge al tramonto degli Stati, dei partiti, delle istituzioni rappresentative, della partecipazione organizzata e dell’agire. Non la filosofia. Il ‘fare’ a cui tutti si appellano è, in linea di massima, solo un ‘fare’ tecnico, che prende corpo e si addensa principalmente sui temi della comunicazione (media, social) e sulla figura del leader, la sua immagine, il suo ‘carattere’, il suo incarnare ‘valori’ vittoriosi. Nell’alleggerimento di tutto il resto, per primi i partiti. Un ribaltamento, dicevo. Dinanzi al quale abbiamo due strade possibili: accettarne la logica, perseguirla più e meglio dell’avversario (ed è quel che si è fatto tutti, sinistra compresa, anche quella radicale) oppure tentare un ri-ribaltamento.
La “grande politica” dei nostri tempi sarebbe, in realtà, proprio questo nuovo ribaltamento. “Grande” vorrebbe dire che la politica rappresenta e decide, rimettendo così sul podio il soggetto che agisce, dibatte, formula opinioni ed esprime decisioni, invece di incensare un’ideologia (la Tecnica) che decida per noi con una qualità e una perfezione ritenute ‘migliori’ di quelle espresse dalla “rissosa” e antieconomica democrazia. Si gioca tutto qui il nostro destino pubblico, il futuro della polis. È una funzione della capacità collettiva di ripristinare la prassi politica invece del ‘calcolo’, delle tabelle, degli economismi, dei meccanismi ‘oggettivi’ tenuti a bada da server e algoritmi sempre più pervasivi. È la stessa cosa che riprendere in mano il nostro destino, nostro come cittadini ma ancor prima come lavoratori, figure sociali subalterne, ultime, prive di protagonismo.
Il ‘popolo’ in fondo è solo una funzione di questo andazzo, ne raffigura la passività, il recepimento di comandi che portano a privilegiare il consumo e la solitudine degli individui proprietari/posseduti, rispetto ai destini collettivi. Perciò è vero che la politica è divenuta “un problema di comunicazione” e che la politiche le fanno gli spin doctor (come confessa un portavoce di un ministro a Repubblica). È solo la conseguenza estrema, l’estrema propaggine di un ‘fare’ che ha scalzato il soggetto, narrato da tutti come finito, morto, dilaniato, polverizzato, ridotto a microfisica, soggiogato più che protagonista, mera categoria grammaticale, puro ordine del discorso. Ideologia, appunto, nel suo lato oscuro, che condiziona la vita (o semivita) della sinistra italiana.