Fonte: Minima Cardiniana
di Franco Cardini – 4 marzo 2019
Uno dei casi “da cartellone” di questi giorni è ovviamente il caso Pell. Su ciò, chi segue questo blog ha già letto numerosi contributi in altra sede. Tra quelli che mi sono pervenuti, mi permetto di segnalarvi quello di Marina Montesano, medievista ormai affermata, specializzata alla Brown University di Rhode Island e oggi ordinaria nell’Università di Messina. Specialista in questioni di antropologia storica, Marina Montesano è autrice di un best seller di successo da lei direttamente redatto in inglese, Classical Culture and Witchcraft in Medieval an Renaissance Italy, Cham (Switzerland), Palgrave Macmillan, 2018. Nonostante un curriculum che – a scapito della giovane età – ne fa una specie di “mostro sacro” della cultura accademica europea, Marina Montesano è, in realtà, un soggetto pericoloso: è elzevirista de “Il Manifesto”, titolare di un apprezzato blog di musica rock e dintorni, abituale frequentatrice di eventi quali Rock en Seine, e autrice di Mistero americano, Bari, Dedalo, 2004: una ricerca dedicata alle perplessità relative alla ricostruzione ufficiale degli eventi dell’11 settembre 2001, che fece tanto rumore da disturbare “Qualcuno” e da far sì ch’esso, in poche settimane, “scomparisse” misteriosamente dalle librerie di tutta Italia. Tutto ciò rende il parere di Marina Montesano, insospettabile come paladina di cardinali pedofili, particolarmente interessante. Pur apprezzando la lucidità, la chiarezza e la generosa onestà intellettuale di Marina, non sono sempre d’accordo con le sue valutazioni in materia etico-teologica: ma proprio per questo il suo contributo mi sembra ancor più prezioso.
IL CASO GEORGE PELL
Marina Montesano
La condanna del cardinale George Pell è stata accolta quasi ovunque da un’ondata di celebrazioni, soprattutto nel mondo anglosassone, dove il tema della pedofilia del clero cattolico è più sentito dal pubblico nonché più presente nei media. Gli scandali sono stati tanti, ma nel caso di George Pell non siamo dinanzi alla condanna di un prelato qualsiasi, bensì di un cardinale, almeno fino all’agosto 2018, quando l’avvio del processo ha indotto papa Francesco a revocargli il mandato. Fino a pochi mesi orsono è stato Prefetto della Segretaria per l’economia della curia pontificia, una carica e un’istituzione volute dallo stesso pontefice nel 2014 per controllare meglio le finanze vaticane, dopo i numerosi scandali, e affidata proprio a Pell. Segno di una personale fiducia riposta da Francesco nei confronti dell’ex arcivescovo di Sidney e Melbourne.
Premetto che, mentre non so nulla delle capacità di George Pell in fatto di finanza, mi è capitato di ascoltare alcune sue dichiarazioni in materia di morale sessuale, trovandole estremamente lontane dalle mie posizioni; in particolar modo ho trovato repellenti molte sue asserzioni sull’omosessualità, più vicine a quelle dei pontefici che hanno preceduto papa Francesco. Parto, quindi, per le considerazioni che seguono, da una non eccessiva simpatia, direi quasi da un’antipatia per il personaggio. Aggravata dal fatto che, durante il suo mandato come arcivescovo, nella diocesi nella quale è nato, Ballarat, si è verificato un grave scandalo di pedofilia molto mal gestito da lui e dalle altre cariche dell’alta Chiesa d’Australia. Mi riferisco al caso del prete pedofilo Gerald Ridsdale, reo confesso di diverse decine di abusi su giovanissimi, compiuti tra gli anni ’60 e gli ’80, per i quali è stato condannato a una lunga pena detentiva, scontata fra 1993 e 2017. Evidentemente, la condotta di Ridsdale non doveva essere ignota ai suoi superiori, che nel corso degli anni l’hanno spostato in 16 differenti luoghi, ma senza mai denunciarlo alle autorità.
George Pell conosceva Gerald Ridsdale e, prima di essere coinvolto egli stesso dallo scandalo, aveva pubblicamente dichiarato di non sapere nulla dei suoi comportamenti. Allo stesso modo, è impossibile metterlo direttamente in relazione con i molti processi, pure per pedofilia, che hanno scosso negli ultimi anni la Chiesa australiana. Tuttavia, credo si possa cogliere bene lo stato d’animo di tanti australiani nei confronti della Chiesa cattolica e di Pell guardando un video che circola su youtube con il titolo Australian Cardinal George Pell admits to being a pedophile! (“Il cardinale australiano George Pell ammette di essere un pedofilo!”).
È una trasmissione girata in Australia ben prima delle accuse, nella quale Pell, a un certo punto, prende la parola e dice: “I remember when I was in England, we were preparing some young English boys…” (“Ricordo che quando ero in Inghilterra, preparavamo alcuni giovani ragazzi inglesi…”) e il pubblico comincia a interromperlo ridacchiando, mentre il cardinale visibilmente contrariato cerca di riprendere il filo del discorso. Ovviamente questo video non è la prova di alcunché: chi l’ha caricato su youtube ha tagliato il prosieguo in cui Pell riprende la parola e aggiunge “per la prima comunione” (l’intera trascrizione del dibattito, un Q&A con il pubblico a casa, è reperibile qui: https://scrapsfromtheloft.com/2019/03/01/debate-richard-dawkins-cardinal-george-pell-transcript/). È, tuttavia, significativo il modo in cui il pubblico reagisce a una frase che potrebbe sembrare vagamente allusiva in una trasmissione nella quale si parla di tutt’altro. La trasmissione è del 9 aprile 2012. Nello stesso anno, dinanzi alla diffusione di notizie sui preti pedofili in Australia, il cardinale Pell affermava che i media avevano condotto una “campagna stampa persistente” di “diffamazione generale” contro la Chiesa cattolica, smentendo che ci fossero insabbiamenti.
Mi pare evidente che a lungo i vertici della Chiesa cattolica non sono stati in grado di cogliere il sentimento popolare che stava crescendo intorno a loro: di diffidenza, di odio talvolta; che avrebbero dovuto affrontare con politiche più chiare e decise, nonostante – va detto – proprio Pell avesse istituito una commissione per l’ascolto e il risarcimento delle vittime di abusi sessuali commessi dal clero.
Questa è l’atmosfera che ha circondato e preparato il processo contro George Pell. Veniamo allora alla sua vicenda, assai differente rispetto a quella di Gerald Ridsdale; lì avevamo decine di accusatori, coevi ai fatti, e un reo confesso. Nel caso di Pell abbiamo un accusatore che si riferisce a vicende degli anni ’80. La vicenda comincia nel 2015 quando un uomo poco più che trentenne si reca presso un commissariato di polizia per denunciare il cardinale. Secondo il suo racconto, nel dicembre 1996, fresco di nomina arcivescovile nell’episcopato di Melbourne, alla fine della messa, Pell aveva trovato lui e un altro ragazzo, entrambi del coro, che, abbandonato il gruppo dei coristi, erano entrati in sacrestia per bere il vino della messa; a quel punto Pell avrebbe tirato fuori il pene, costretto i due ragazzi a masturbarsi e a praticargli sesso orale.
Nel 2002, Pell era stato coinvolto in un’altra vicenda che, tuttavia, non era finita con un processo: fu accusato da un uomo di Melbourne di aver abusato sessualmente di lui quando era un ragazzo di 12 anni in un campo giovanile cattolico nel 1961. Pell, all’epoca un giovane seminarista, aveva negato le accuse e si era tenuto da parte, mentre l’inchiesta continuava. Il denunciante aveva accettato di perseguire le sue accuse attraverso il processo della chiesa stessa per trattare le accuse di cattiva condotta sessuale, il National Committee for Professional Standards. Il giudice in pensione della Corte Suprema del Victoria, Alec Southwell, nominato Commissario della Chiesa per indagare sulla questione, aveva affermato che il denunciante, nonostante i suoi lunghi precedenti penali, aveva per lo più dato l’impressione di “parlare onestamente dal ricordo reale”, ma aveva concluso quanto segue: “Tenendo conto delle difficoltà forensi della difesa causate dal lunghissimo ritardo, di alcune valide critiche alla credibilità del denunciante, della mancanza di prove corroboranti e della negazione giurata del convenuto, trovo che la denuncia non sia stata accertata”. Come aveva commentato all’epoca il Sidney Morning Herald: “La vittima dell’intera vicenda Pell, a quanto pare, è la reputazione: la reputazione dell’arcivescovo cattolico di Sydney, George Pell, che non è stata completamente esonerata in considerazione dei termini di riferimento dell’inchiesta; la reputazione della Chiesa cattolica che si è piegata sotto il peso di quella che è stata modellata come epidemia di abusi sessuali; e la reputazione dello stesso accusatore, ben isolato ma ancora ampiamente protetto sotto l’ombrello dell’anonimato”. Secondo la giustizia australiana, infatti, gli accusatori hanno il diritto di restare anonimi.
Mentre si stava avviando il procedimento per le accuse inerenti al 1996, una nuova tegola si abbatte su Pell. Due uomini lo accusano per fatti avvenuti tra il 1977 e il 1979, quando erano tra i 9 e gli 11 anni: Pell, che all’epoca aveva trent’anni ed era sacerdote a Ballarat, li avrebbe palpeggiati sui genitali mentre giocava in piscina con loro e altri bambini. Inoltre, un terzo dice alla polizia che nel 1975 o 1976, quando aveva 10 anni, faceva parte di un gioco nell’acqua del lago Boga, vicino a Swan Hill, durante un picnic in famiglia, quando era scivolato via dalle spalle di Pell entrando accidentalmente in contatto con il pene eretto del sacerdote. Pell gli avrebbe detto: “Non preoccuparti, è naturale”. Nessuna fra le tre testimonianze è stata ammessa nel processo principale.
Veniamo, quindi, al procedimento, che si è concluso da poco con una condanna. L’accusatore, anch’egli anonimo e che ha reso testimonianza in segreto dinanzi a giudici e giurati, ma non pubblicamente, un privilegio concessogli per non sottoporlo a stress, è di fatto l’unico testimone a carico di Pell, dal momento che l’altro ragazzo è morto di overdose, e a quanto si sa non ha mai detto a nessuno di essere stato aggredito dall’arcivescovo. Siamo, dunque, dinanzi a un caso in cui ci sono due parole a confronto: quella dell’accusatore contro quella dell’accusato, che nega. Un primo processo si era concluso con una giuria non in grado di raggiungere l’unanimità.
A discarico di George Pell è stata chiamata in causa l’implausibilità dello scenario. Pell allora era arcivescovo e aveva detto messa in cattedrale; in genere, dopo la messa salutava i parrocchiani sul sagrato, ma ovviamente a oltre vent’anni di distanza nessuno è in grado di dire qualcosa di certo a proposito di quella particolare domenica. Avrebbe dovuto scegliere, invece, di recarsi in sagrestia e trovarsi nella condizione di essere solo con i due bambini, dei quali ovviamente, per le stesse ragioni suddette, è impossibile ricordare se si fossero davvero staccati dagli altri ragazzini del coro. Nella sacrestia, dopo la messa, si suppone che ci sia un via vai di sacerdoti, ma ugualmente Pell sarebbe riuscito a sollevare l’abito vescovile, a esporsi e a costringere i due a praticargli sesso orale. È uno scenario credibile? La seconda giuria l’ha ritenuto tale; il difensore, e con lui alcuni giuristi che si sono espressi a riguardo, ritiene che in appello questa decisione non terrà e il giudizio sarà ribaltato. Questi i fatti. Non è il caso, invece, di travisare le pur maldestre dichiarazioni dello stesso avvocato, che ha definito “vanilla sex” (sesso di poco conto) i fatti imputati a Pell: non si tratta, come molti inopinatamente hanno scritto, ignari di diritto, di un’ammissione di colpevolezza da parte dell’avvocato. Dopo il giudizio, il difensore ha la possibilità di chiedere i domiciliari invece del carcere, e non può farlo affermando l’innocenza del suo cliente, poiché è stato appena condannato. In quella fase lo può chiedere solo dicendo che le accuse non sono poi così gravi da meritare il carcere immediato, e che il colpevole può attendere il secondo grado di giudizio ai domiciliari. Nel processo d’appello ne sosterrà l’innocenza: questo è perfettamente in linea con le procedure del diritto inglese e quindi australiano, e non è quindi da considerarsi in alcun modo un’ammissione di colpevolezza.
Ovviamente, non sono in grado di sapere se George Pell sia davvero colpevole o innocente; mi limito a presentare i fatti e a giudicare che un’accusa per un reato diverso dalla pedofilia (una rapina, ad esempio) non sarebbe mai stata valutata da una giuria con lo stesso metro: in assenza di prove oggettive, e anche di indizi, impossibili a distanza di tanti anni, abbiamo solo una versione contro un’altra. Tuttavia, quando si chiama in causa la pedofilia, le emozioni prevalgono sulla ragione. Mi è capitato di occuparmi, in occasione di uno studio sulla caccia alle streghe (M. Montesano, Caccia alle streghe, Roma, Salerno editrice, 2012), dell’ondata di panico di massa che ha investito gli Stati Uniti tra anni ’80 e ’90 (altri paesi, Italia inclusa, sono pure stati coinvolti con tempistiche differenti) a partire dal “caso McMartin”: istitutori di una scuola materna accusati da bambini, e conseguentemente genitori, di abusi sessuali. Il processo McMartin è durato anni concludendosi, dopo molte terribili vicende che hanno coinvolto gli accusati, con la piena assoluzione; ma, nel frattempo, negli Stati Uniti, il panico per abusi sessuali, spesso a sfondo satanista, compiuti da istitutori contro bambini, si era ormai diffuso: una investigazione condotta nel 1988 registrava già un paio di centinaia di casi; circa un decennio più tardi, su un totale di dodicimila denunce per abusi rituali legati al satanismo, nessuno aveva retto alle indagini e ai processi.
In tanti si sono interrogati sulle ragioni di questa ondata di panico collettiva. Si è chiamato in causa il successo, evidente proprio a partire dai primi anni Ottanta, di libri-denuncia nei quali si esponevano casi in cui pazienti in cura presso analisti e psicologi, o seguiti dai servizi sociali, sembravano ricordare abusi subiti nell’infanzia, la rimozione dei quali sarebbe stata la causa dei loro problemi correnti. Il primo è stato probabilmente Michelle Remembers (1980), scritto da Michelle Smith e dal suo psichiatra e poi marito Lawrence Pazder, che sarebbe stato consulente per l’accusa proprio nel processo McMartin e che sul “ritorno” di memorie rimosse avrebbe costruito un’intera carriera: salvo dichiarare nel 1990 che la convinzione circa la realtà dei fatti era più importante dell’effettiva veridicità degli stessi.
Ciò non significa che le memorie degli anonimi accusatori di George Pell siano per forza assimilabili a queste; tuttavia, bisogna tenere in conto che il ricordo e la testimonianza individuali non possono essere accettati come prove assolute di colpevolezza. Il diritto ha bisogno di indizi se non di evidenze, di prove, e nel processo contro Pell non se ne sono viste: impossibile trovarne dopo tanti anni. È questo a inquietare dinanzi al caso, non perché si possa esser certi dell’innocenza di Pell, ma perché un uso corretto degli strumenti del diritto è l’unica salvaguardia che abbiamo contro l’arbitrio.
Marina Montesano