Il leaderismo che ammazza i leader

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Alfredo Morganti

di Alfredo Morganti – 24 gennaio 2019

Prodi si lamenta che la sinistra (e segnatamente il PD) non esprima leader all’altezza. È il piagnisteo di molti, come se la politica fosse semplicemente una variabile dipendente dal leaderismo. Ribalterei la frittata. La crisi della sinistra (e del PD) è anche conseguenza di uno strapotere del leader di turno, uno strapotere espresso senza più la funzione riequilibratrice di un partito attorno. L’organizzazione, la sua stessa esistenza, è divenuta funzionale alle ambizioni personali di qualcuno, tutto è scemato sotto il cono d’ombra del Capo. Ciò ha prodotto una grave ipoteca sul futuro, perché l’enfasi sul Capo ha reso il futuro stesso problematico, lo ha fatto dipendere dalle fortune del leader, tal che l’organizzazione stessa ha perso di autonomia e si è impiccata alla vita politica di chi comandava. Il paradosso è che il leaderismo tanto agognato è il primo responsabile proprio della fine o scarsezza di leader: il Capo non alimenta la nascita di nuovi dirigenti, al più di teste di legno o di yes men. Non vuole avversari interni, ma comprimari e portaborracce. Rivendicando la necessità del leader su ogni altra considerazione, si entra in una traiettoria per cui i leader (o sarebbe meglio dire una classe dirigente capace) sono davvero destinati a non nascere mai. Un gatto che si morde la coda insomma. Punti sul leaderismo per non avere più leader all’altezza dei tempi. Eterogenesi dei fini, come sempre.

Che fare invece (e non ‘chi fare’, come auspica Prodi)? La classe dirigente è un bene essenziale per chi faccia politica. Ma non si genera nel vuoto, piuttosto in anni di formazione, che può avvenire solo all’interno di un organismo collettivo e di una concezione della politica come impresa di tutti. Oggi mancano leader (ossia dirigenti) perché si è perseguita la personalizzazione e il leaderismo della politica e dei partiti. L’individualizzazione della politica genera mostri, dovremmo saperlo, non solo a destra. Cancella il futuro possibile, impedisce la formazione di una classe dirigente, ci restituisce solo figure di piccolo cabotaggio piene di boria e senza futuro. Non nasce alcuna classe dirigente in assenza di partiti, di associazioni democratiche, collettive, plurali, piantate nella società e nelle istituzioni, che si rigenerano ogni volta grazie alla formazione e alla trasmissione delle esperienze. La fine del PD era scritta nel suo DNA, nell’idea che le primarie dovessero eleggere il Capo, dovessero legittimarlo addirittura con il concorso degli esterni e della società civile, tal che il partito non avesse potere nei suoi confronti, e lui potesse rivolgersi direttamente alla ‘gente’, da cui aveva ricevuto un mandato diretto. Cosa resta del partito in tutto ciò? Nulla di nulla. Tanto meno la formazione di una nuova classe dirigente, che poi è il nerbo di un’organizzazione sana, accanto allo spirito democratico e al dibattito interno. Invocare un leader, rimpiangerne l’inesistenza, pensare che una persona sola possa mutare un destino in quattro e quattr’otto vuol dire, perciò, non aver capito nulla della crisi della politica di questi anni. Non è in discussione qui la funzione della leadership, piuttosto l’idea che una donna o un uomo posseggano qualità taumaturgiche e possano sbocciare d’emblée come fiori in una serra. Non è così.

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