Fonte: Il Manifesto
di Enzo Paolini, Felice Besostri 28 dicembre 2018
Legge elettorale. La riforma proporzionale è l’unico antidoto allo svuotamento plebiscitario di partiti e istituzioni, uniti solo nel sostegno al capo di turno e incapaci di confronto
Forse l’imbarazzante discussione sulla prescrizione, quella sul cosiddetto «decreto – sicurezza» con la sua impressionante serie di violazione di principi umanitari e infine lo spettacolo sulla manovra generato dalla palese inadeguatezza o peggio dall’indifferenza dei parlamentari governativi rispetto al senso delle istituzioni e alle norme della Costituzione italiana sono lo spunto per fare uscire la discussione sulla legge elettorale dal cono d’ombra nel quale il dibattito l’ha posizionata come aspetto marginale e, in fondo, ritenuto non decisivo per le sorti del Paese.
Errore di prospettiva, perché la mancanza di una classe dirigente vera, capace, che, al netto delle ideologie (o anche delle semplici idee) possa governare con autorevolezza e competenza è il vero problema del nostro Paese e, per quel che conta (o potrebbe contare), del Pd e della sinistra in genere, cioè della parte politica che più di ogni altra ha bisogno di una selezione democraticamente qualitativa dei suoi «quadri».
È perciò il momento della riflessione. Hanno iniziato su queste colonne con un taglio politico acuto e condivisibile Michele Prospero, Massimo Villone e Alessandro dal Lago.
Proviamo noi a intervenire nel dibattito guardando alla genesi del problema, cioè la legge elettorale e la selezione del personale politico.
Il cosiddetto «rosatellum» (cioè la legge vigente che ha prodotto l’attuale parlamento), è basato su liste bloccate nella quota maggioritaria, non consente il voto disgiunto (in sostanza blocca – o condiziona – anche la parte proporzionale). In concreto quindi produce un parlamento per più di due terzi nominato dai (sedicenti) leader di partito, cioè la «casta», una categoria che mediante gargarismi demagogici e generici sull’interesse pubblico è dedita alla coltivazione del proprio esclusivo interesse privato consustanziato nella permanenza sulla poltrona istituzionale sempre degli stessi e comunque di persone senza alcun legame con gli elettori.
Dopo le elezioni del 4 marzo scorso questo effetto, visibile, sgradevole e respingente per quanto riguarda le truppe di Forza Italia e Pd sembra meno appariscente per Lega e M5S.
Ciò si spiega con il fatto che la Lega – nonostante sia stato un grumo di governo nel ventennio berlusconiano – viene percepita per il suo atteggiamento sempre apparentemente antisistema, come un partito di opposizione e comunque rigeneratosi dopo il disastroso declino di Bossi, mentre il M5S, composto tutto da facce nuove, compensa la inesperienza (in taluni casi la palese inadeguatezza) con la non compromissione in un passato istituzionale che i partiti di prima hanno reso nauseabondo e non commendevole.
A una più attenta e profonda disamina questo fenomeno si rivela – però – inquietante e foriero, nel medio/lungo termine, di guai ancora più rilevanti per la tenuta democratica del sistema e per la Repubblica, perché la centralità del Parlamento non è effettiva, poiché i Parlamentari non sono quelli previsti dall’articolo 67 della Costituzione, cioè rappresentanti della Nazione, senza vincolo di mandato, che esercitano la funzione con disciplina e onore, come impone l’articolo 54 Cost.
Questo perché il meccanismo di nomina per la composizione delle Camere contrabbandato per elezione ha polverizzato gli organismi intermedi di rilievo costituzionale finalizzati a promuovere, favorire, organizzare la dialettica e il confronto necessari per scegliere, cioè per «eleggere».
Quando il percorso che ha come approdo un ente rappresentativo di interessi comuni (il Parlamento ne è il più alto esempio ma il discorso vale in generale) non prevede stazioni di verifica e neanche la propulsione del consenso, ma soltanto la chiamata diretta del capo, gli organismi intermedi – cioè i partiti nella loro alta dimensione di elaborazione sociale – non avendo la loro naturale funzione di selezione si svuotano e rimangono solo come contenitori di aspiranti a occupare una carica in cambio di una fidelizzazione al cosiddetto leader (peraltro temporalmente limitata fino al momento in cui il leader stesso ha la forza di assicurare la permanenza sulla poltrona, poi si cambia partito).
La parabola del Pd è l’esempio più tragico di questo fenomeno, che rende evidente anche il fallimento del mito delle «primarie» o «parlamentarie fai da te» come evento distintivo se non addirittura salvifico per la vita democratica di un partito.
Al contrario, la verticalizzazione del rapporto tra base e dirigenza e il silenziamento delle voci di dissenso prosciuga il terreno fertile della discussione, che è l’humus sul quale si sviluppa e si rigenera periodicamente un sistema forte nelle sue istituzioni e nei gangli vitali delle dinamiche sociali.
Una situazione particolarmente grave in Italia nel Pd – che infatti si è ridotto a non riuscire più neanche a tenere un congresso per palese assenza di contenuti – in cui la presentazione del dissenso, della fazione, come elemento negativo a fronte dell’unità, di pura facciata o ottenuta con espulsioni, come valore indiscutibile e vincente.
Sotto questo totem è stata sacrificata la ricchezza delle idee come motore di crescita di una comunità. Come se lo scopo delle elezioni – o più in generale della politica – fosse solo stabilire chi ha vinto la sera stessa del voto e non invece quello di comporre prima assemblee rappresentative di tutti e consentire dopo alle diverse forze politiche di confrontarsi per stabilire le alleanze giuste per governare al meglio.
Esattamente il contrario dell’idea di «chi vince prende tutto».
L’ingovernabilità degli ultimi anni è stata determinata proprio da questo: dalla tendenza dei capi al cosiddetto decisionismo allergico e indifferente a critiche o dissenso e dallo loro incapacità culturale e politica di sfruttare il confronto per migliorare e crescere nelle azioni di governo: il vero banco di prova di un cambiamento non parolaio.
Questo metodo, applicato ad esempio alla pervicace volontà di imporre una riforma costituzionale impresentabile da tutti i punti di vista senza ascoltare consigli, suggerimenti, critiche costruttive e pareri di giuristi e studiosi tutti bollati come «gufi», è stato sonoramente bocciato dagli italiani e ha fatto perdere una intera legislatura.
Possono dire gli autori, pure provvisti di maggioranze enormi, di aver assicurato «governabilità»? È vero che la loro maggioranza era artificiale, frutto di un premio dichiarato inconstituzionale dalla sentenza di annullamento parziale del Porcellum ma paradossalmente il pericolo cresce con maggioranze effettive come quella giallo- verdenera se non c’è tutela della centralità del Parlamento, con la simmetrica tutela della libertà e dell’ampiezza del dibattito che precede ogni decisione.
Alla luce di tutto ciò può concludersi come acutamente osservato da Piero Ignazi (vedi Il Mulino 3/18) che l’alternativa alla tendenza oligarchica nei partiti (presupposto della cosiddetta «ingovernabilità») offerta dalla relazione diretta tra leader e iscritti è un rimedio incompleto, demagogico e inefficace, anzi peggiore del male, perché marginalizza o cancella gli aspetti fondamentali della responsabilità e della partecipazione ed elimina – perché ritenuti non più utili – strutture e attori intermedi, inoculando nel sistema politico il virus nefasto del plebiscitarismo.
Il leader così investito ha il potere di nominare l’intera delegazione parlamentare del proprio partito con uomini e donne che quindi rispondono non al popolo, come vuole la Costituzione («senza vincolo di mandato») ma a lui.
La notte del 23 dicembre con l’approvazione «fiduciaria» da parte del senato di una manovra disastrosa dimostra in pieno quanto sin qui detto.
Dunque, al netto della ripetuta e recidiva inconstituzionalità di sistemi elettorali che tendono a scippare al cittadino il diritto di scelta, il problema è politico. E non è risolto dalla buona fede, dalle facce pulite e dai buoni propositi e neanche dalle buone politiche degli attuali nominati in Parlamento.
È una questione di metodo ed è un delitto sottovalutarla.
Solo un consapevole e responsabile cambio di direzione verso una seria legge elettorale non pensata per consentire alla propria parte di vincere le elezioni ma per dare al Paese una vera e proporzionale rappresentanza può evitare la deriva autoreferenziale che la storia ha dimostrato essere il pericolo più grave per tutti i sistemi politici perché – prima o poi – conduce al totalitarismo.
Fonte: Il Manifesto