Fonte: micromega
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SOVRANITA’ O BARBARIE – di THOMAS FAZI e WILLIAM MITCHELL – ed. MELTEMI
di Carlo Formenti
Il libro di Fazi e Mitchell inaugura una nuova collana dell’editore Meltemi, da me diretta e intitolata “Visioni eretiche”. Paradossalmente, le “eresie” in questione sono la riproposizione di principi, teorie, concetti, ideali e punti di vista che, almeno fino agli anni Settanta del secolo scorso, erano patrimonio comune del movimento operaio internazionale. Se oggi sembrano eresie, al punto da esporre chi le sostiene alle accuse di “rossobrunismo”, è perché le sinistre hanno subito una mutazione culturale, politica, quasi “antropologica”, di portata tale da cambiarne il codice genetico.
Non credo che la collana avrebbe potuto partire con un libro più adatto di quello di Fazi e Mitchell, un lavoro che affronta di petto un nodo cruciale, vale a dire la necessità di riacquisire la consapevolezza che lo stato-nazione è la sola cornice in cui le classi subalterne possono migliorare le proprie condizioni e allargare gli spazi di democrazia. Non essendo qui possibile riassumerne le articolate e complesse argomentazioni, mi limiterò a ripercorrere sinteticamente le domande fondamentali alle quali gli autori tentano di rispondere: perché il compromesso keynesiano fra capitale e lavoro ha funzionato; per quali ragioni è entrato in crisi; perché le sinistre non hanno capito le ragioni del suo successo né, tantomeno, quelle della sua crisi; attraverso quali canali le idee liberali sono riuscite a contaminare la cultura socialista.
La lunga stagione keynesiana è stata una parentesi felice nella storia del capitalismo moderno: ha garantito elevati tassi di crescita economica, alti livelli di occupazione, salari e profitti crescenti, un’estensione dei diritti sociali ed economici mai conosciuta nelle ere precedenti, nonché una relativa stabilità finanziaria a livello internazionale (pur senza dimenticare che a usufruire di tali benefici sono stati quasi esclusivamente i Paesi del centro, mentre le periferie e le semiperiferie del sistema mondo ne furono escluse). Le sinistre si erano illuse che il compromesso fra capitale e lavoro associato a questa situazione storica fosse irreversibile, se non addirittura un passo intermedio verso la transizione a una società post capitalista, per cui la sua crisi le trovò del tutto impreparate. Quello che non avevano compreso, argomentano gli autori, è che a rendere possibile la parentesi dei “trenta gloriosi” è stata la sua funzionalità a uno specifico regime di accumulazione capitalista – il fordismo – associato a un modo di regolazione politica dell’economia fondato sull’interventismo statale.
A entrare in crisi non fu la “visione” keynesiana, scalzata, secondo un’interpretazione idealista, dal pensiero controegemonico dei monetaristi alla Milton Friedman, furono piuttosto il regime di accumulazione e il modo di regolazione dell’era fordista, stretti nella morsa della pressione crescente che i salari esercitavano su rendite e profitti, dell’aumento dei prezzi delle materie prime e dell’accresciuta concorrenza internazionale dovuta alla rinascita industriale di Germania e Giappone. A obnubilare i movimenti operai, indebolendone la capacità di opporsi alla controrivoluzione neoliberale, contribuì il diffondersi di teorie nate negli stessi ambienti di sinistra, come la tesi secondo cui una delle cause fondamentali della crisi era la spirale incontrollata della spesa pubblica; o come il mito secondo cui il successo delle multinazionali – nella misura in cui neutralizzava i poteri di regolazione dello stato-nazione – rendeva di fatto impossibile praticare il “keynesismo in un solo paese”. Accettate tali teorie, le sinistre assunsero in prima persona il ruolo di becchini delle politiche keynesiane: se gli stati non subirono passivamente la controrivoluzione neoliberista ma ne furono attivi promotori, il “merito” spetta, prima che ai governi di Ronald Reagan e Margaret Thatcher, alla svolta che James Callaghan impose al Labour Party alla metà degli anni Settanta, dopo avere liquidato la sinistra di Tony Benn, e alla retromarcia che il presidente francese Mitterrand, “ispirato” dal ministro social liberale Jacques Delors, compì all’inizio degli anni Ottanta, convertendosi al liberismo pur essendo stato eletto con un programma radicale di trasformazioni in senso socialista dell’economia.
La traiettoria appena descritta si è ripetuta in Italia, benché nel nostro Paese la connotazione “sociale” delle politiche keynesiane fosse corroborata dai principi contenuti nella nostra Carta fondamentale, come l’insistenza sui temi della tutela del lavoro, dell’uguaglianza sostanziale, della limitazione del diritto di proprietà, ecc. espressione della parziale convergenza fra le visioni comunista, socialista e cattolica. Contro questo compromesso “cattocomunista” – come sarebbe stato sprezzantemente liquidato dopo la crisi dei Settanta – è sempre esistita, argomentano Fazi e Mitchell, una strisciante opposizione liberale che ha avuto i suoi interpreti più autorevoli nei vari Einaudi, Carli e Ciampi. Costoro nutrivano non a caso grandi aspettative nel progetto europeo, nel quale intravedevano – sulla scorta delle idee di von Hayek – un’opportunità per neutralizzare la “anomalia” italiana. Citando stralci dai discorsi e dagli scritti di Togliatti, Basso, Di Vittorio e altri esponenti storici della sinistra italiana, gli autori ne mettono in luce la profonda avversione contro l’integrazione del nostro Paese in una costituenda istituzione sovranazionale. Le loro parole esprimevano una chiara consapevolezza che la sovranità nazionale era il presupposto indispensabile di qualsiasi realizzazione dei bisogni e degli interessi delle classi subalterne.
A partire dagli anni Settanta, tuttavia, anche in Italia si attivano inediti canali di penetrazione del pensiero liberale nella cultura di sinistra: vedi il ruolo di un economista come il premio Nobel Franco Modigliani nel diffondere il verbo monetarista all’interno del Pci. La mutazione sarà più lenta di quella avvenuta in altri Paesi europei, ma i suoi effetti non tarderanno a farsi sentire, già a partire dagli anni Settanta, allorché Enrico Berlinguer tesserà l’elogio dell’austerità come strumento per rilanciare crescita e occupazione. Dai primi anni Ottanta all’ingresso nell’area dell’euro, la frana diverrà inarrestabile. I Carli, gli Andreatta, i Ciampi e il grande privatizzatore Prodi avranno mano libera per scandire le tappe di una marcia accelerata verso la de sovranizzazione, de politicizzazione e de democratizzazione dello stato italiano: adesione allo SME, divorzio fra Tesoro e Banca centrale, approvazione del Trattato di Maastricht, fino al colpo di grazia della rinuncia al potere di emissione della moneta e all’integrazione nell’area dell’euro, che imporrà la costituzionalizzazione del neoliberismo e il divieto di adottare politiche keynesiane. Per Fazi e Mitchell è sbagliato interpretare tale processo come un “indebolimento dello stato”, occorre al contrario prendere atto che proprio gli stati – a partire dal nostro – hanno scelto autonomamente di subordinare le proprie scelte a vincoli esterni, il che non significa che si sono suicidati, bensì che hanno attuato con successo un progetto radicale di indebolimento delle classi lavoratrici e di svuotamento della democrazia.
“Sovranità o barbarie” è un titolo che evoca non a caso il celebre slogan “Socialismo o barbarie”. L’associazione non è casuale: negli anni Settanta, secondo gli autori, l’unico modo per uscire dalla crisi del modello keynesiano sarebbe stato compiere un salto a un modo di produzione post capitalista, obiettivo cui alludevano esplicitamente i programmi della sinistra laburista di Tony Benn e del Mitterrand prima maniera: piena occupazione, espansione del welfare, ridistribuzione della ricchezza, nazionalizzazione delle aree economiche strategiche, controllo democratico sulle decisioni di investimento e produzione, pianificazione industriale, asservimento della finanza ai bisogni della collettività. Ma simili obiettivi si sarebbero potuti realizzare solo mantenendo una rigorosa autonomia dello stato nazione, a partire dalla sovranità monetaria e dalla conseguente possibilità di finanziare il fabbisogno della spesa pubblica attraverso l’emissione di moneta. Oggi, dopo decenni di smantellamento sistematico di tale autonomia, non resta altra alternativa se non riconquistare la sovranità nazionale e popolare come presupposti irrinunciabili per rilanciare quel progetto politico che venne accantonato quarant’anni fa.
Gli “europeisti “critici” potrebbero replicare: perché questa via non potrebbe essere imboccata da una Unione europea riformata, piuttosto che dai singoli stati nazionali? Per il semplice motivo, rispondono gli autori, che non è pensabile democratizzare uno spazio che è stato creato con l’esplicita finalità di de democratizzare e de politicizzare i processi decisionali, concentrandoli nelle mani di una ristretta élite, in modo da poter annientare i rapporti di forza delle classi subalterne.
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