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La prima volta che ho sentito la parola “masturbazione” avevo 14 anni, e me lo ricordo ancora perchè fu una sorta di shock: nella mia famiglia (cattolica, anche se di sinistra) parlare di sesso era assolutamente tabù.
Mi trovavo ad un pranzo con una coppia di magistrati che discutevano su una piccina di otto-nove anni e sul suo darsi compulsivamente piacere, considerandolo un segno evidente di abuso.
Solo che la bambina aveva alti natali; era mai possibile che la figlia di cotanti genitori avesse/stesse subendo qualcosa di grave? Ebbene, dalle indagini risultava di si. Ahimè.
Di quel giorno mi è rimasta impressa (oltre il mio disagio) l’idea che le “fughe edonistiche” siano quasi sempre indice di un contesto insopportabile e, se suona banale, mettiamola cosi: la ricerca consolatoria ossessiva in un bambino e’ quasi sempre indice di abuso (perlomeno) emotivo, anche in situazioni in cui la famiglia sembra inattaccabile.
La seconda cosa che ho imparato con l’esperienza, è che l’abuso o crea gentaccia o crea supereroi.
Anche qui, se questo suona eccessivamente riduttivo, riformuliamo: o l’abusato sviluppa per difesa una forte chiusura all’esterno, privandosi della capacita’ empatica, o proietta il suo dolore “troppo” all’esterno, facendosi carico delle sofferenze altrui, nella vana speranza che, lenendo il dolore altrui, possa lenire il proprio.
Ma il mondo è complesso, pieno di sfumature, ed ogni idea rigida è erronea, in primis le mie.
A questo pensavo leggendo il bel libro di Federico Bonadonna, HOSTIA, oggi presentato al Circolo dei Lettori di Torino.
C’è, infatti, una bimba abusata – Emma – che perde capacità empatica, e c’è un giovane – Martino – che vuole fare il supereroe (e in parte ci riesce).
Solo che il supereroe è una personaccia.
Ed infatti la trama, che può essere riassunta nel tentativo di Martino, capo del servizio sociale, di salvare la piccola Emma da una gravissima situazione familiare, e nel contempo riscoprire ed affrontare le radici del suo dolore, ha un secondo, un terzo, ed un quarto livello di lettura.
Il secondo, è quello dell’impossibilita’ di diventare padre per chi non riesce a liberarsi del ruolo di figlio.
Martino vorrebbe proteggere Emma, ma ci mette tre anni perchè non riesce a trovare una strategia efficiente contro un mezzo veto amministrativo: cioè resta bloccato in uno scontro simbolico con l’ autorità – proiezione della figura genitoriale – ed intanto la ragazzina viene irrimediabilmente compromessa.
Il terzo, è quello della difficoltà di crescere coordinando la parte più matura e gli istinti più immaturi di noi.
Così Martino cerca di prendere in mano la sua vita entrando in analisi, ma se la finanzia come farebbe un ragazzino: spacciando, cioè trovando una via facile, poco faticosa ed avventurosa – nonostante abbia un ruolo istituzionale e uno stipendio.
E fa tutte cosucce da pischello: gioca a pallone, vive in una barca, fa a cazzotti con gli zingari eccetera.
Il quarto, è la difficoltà di amare – che è forse lo scoglio più duro da affrontare per le vittime di abuso.
E’ difficile, effettivamente, rivolgere l’attenzione ad altri se si sente sempre vivo il proprio dolore: è come avere un chiodo conficcato in una mano e volersi occupare di qualcosa d’altro.
Non ne esce Emma, cui il sesso compulsivo non basta, e che svilupperà una patologia mentale.
E non ne esce Martino, nonostante i suoi sforzi: razionalizza – ma non perdona – il male fattogli dai genitori; si affianca ad una donna che – sostanzialmente – gli è indifferente; respinge l’unico tentativo di vera intimità che riceve, e cioè quello della collega Emilia, perchè neanche lo riconosce.
E’ per questo che Martino è una personaccia, nonostante cerchi di evolvere: resta completamente autoreferenziale.
Non comprende, intellettualizza; non si relaziona, utilizza; non ama, proietta; non vive, sopravvive.
Forse il libro si potrebbe recensire con questa domanda: basta il coraggio per sconfiggere i draghi?
Vi consiglio la presentazione di venerdì 16, h 21 30, cari amici torinesi.
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