Draghi o vili

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Alessandro De Angelis
Fonte: huffingtonpost

di Alessandro De Angelis – 5 ottobre 2018

Il “warning” è scattato ai livelli istituzionali più alti. Anche Ignazio Visco la scorsa settimana è salito al Colle per un colloquio informale col capo dello Stato. Riservato. Pochi giorni dopo, mercoledì scorso, è stata la volta di Mario Draghi. Incontro anch’esso riservato. Quirinale, Bankitalia, Bce: è la rete di protezione che, in questi anni e in questi mesi, si è sempre attivata nei momenti più difficili. Quello in atto rischia di essere il più difficile di sempre, come lascia intendere la reazione dei mercati alla manovra e l’escalation del conflitto con l’Europa. Lo attesta anche la modalità stessa degli incontri, tra persone che, in tempi normali, non mancano certo di consuetudine telefonica.

Il punto di fondo è ormai abbastanza chiaro: per calcolo, di chi ha messo in conto un “piano B” che innesca “la guerra” (per dirla alla Paolo Savona) con l’Europa, o per superficialità di chi, sottovalutando il contesto di tensione sui mercati, sta assecondando questa dinamica, o per entrambi, sia come sia, sulla manovra si sta spalancando una crisi senza precedenti. Solo qualche settimana fa il presidente della Bce, in un intervento irrituale nei torni e nell’eloquio, aveva messo in guardia dalle “parole che creano danni” invitando alla cautela sui giochi pericolosi di spesa senza valutare le compatibilità finanziarie, perché questo avrebbe rischiato di accendere il gran falò dello spread. Dopo le parole sono arrivati i fatti che stanno già creando danni di una manovra fondata essenzialmente sull’aumento del debito e dalla incerte coperture.

È la stessa preoccupazione che, non a caso, mette agli atti il direttore generale di Bankitalia Salvatore Rossi nella sua lectio magistralis di oggi all’Università di Venezia: “Una cosa è certa: il problema non si risolve inducendo lo Stato a indebitarsi”. Né si risolve con “tonnellate di falsità”, come “il luogo comune” di un’economia italiana che “potrebbe essere prospera e felice se solo l’Europa, per stolidità teutonica, e i mercati, per occasionali antipatie politiche, non le imponessero una camicia di forza finanziaria”. Difficile non leggere in queste parole, neanche tanto tra le righe, un riferimento alla narrazione del governo gialloverde.

Parliamoci chiaro, il rischio che Bruxelles bocci la manovra è concreto. Ancor più di questo è però il giudizio delle agenzie di rating il vero snodo. Entro fine mese si pronunceranno Moody’s e Standard and Poor’s. L’Italia è ancora due tacche sopra il livello “spazzatura”, ma il singolo downgrading avrebbe dei danni incalcolabili. Nei Palazzi che contano è bastata la notizia per far capire la posta in gioco. Il capo della Bce, “salvatore dell’Italia” sin dal 2011 che va a parlare col capo dello Stato di una crisi in atto. L’interpretazione è che stavolta neanche lui ha più armi per salvarci. Perché il QE, l’ombrello che finora ci ha protetto attraverso l’acquisto massiccio di titoli di Stato, è entrato nella sua ultima fase. E da gennaio l’Italia è senza rete. Poi, in caso di crisi finanziaria, c’è solo il commissariamento di fatto del paese, attraverso un programma concordato con la Commissione e il fondo “salva-Stati”. Significa che o in queste settimane verranno apportate modifiche sostanziali alla manovra, e al momento non si vedono segni di ravvedimento, oppure il paese rischia di essere trascinato nell’abisso dei mercati.

Draghi, Visco, Mattarella. La rete di protezione istituzionale continua a vigilare, nella speranza che questa sorta di moral suasion possa produrre i suoi effetti. Le prossime due settimane sono cruciali, di qui a quando le Camere voteranno il Def, a maggioranza qualificata (il che rappresenta una sorta di verifica della compattezza politica). E a quel punto il governo scriverà la manovra che deve essere mandata a Bruxelles entro il 15 e in Parlamento entro il 20 di ottobre. Di mezzo c’è un passaggio non banale (e non scontato), ovvero la validazione dell’Ubp, l’ufficio parlamentare di bilancio, un organo terzo chiamato a fare le sue valutazioni indipendenti sui conti dello Stato. È un iter ancora lungo che Mattarella seguirà con grande attenzione e con grande prudenza anche rispetto alle sue uscite pubbliche che, in un momento così delicato, potrebbero anche produrre un effetto allarmistico sui mercati. È assolutamente prematuro porsi la fatidica domanda: “Ma il capo dello Stato firmerà la manovra?”. Chi è di casa al Colle è certo che non metterà mai la firma sul default nazionale. Ora però il problema è evitarlo. Questo raccontano gli incontri di questi giorni. Non solo una preoccupazione crescente. Ma anche un crescente attivismo affinché quella rete di protezione produca, ancora una volta, gli effetti sperati.

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