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di Luca Billi, 30 settembre 2018
I più antichi etimologisti decompongono il termine latino pauper – da cui deriva l’italiano povero – in pau-ca e par-iens, quindi il povero è letteralmente colui che produce poco; mi pare significativo che già la storia della lingua metta in relazione la povertà e il lavoro.
Gli statistici inevitabilmente misurano la povertà utilizzando un criterio quantitativo, ossia calcolano quanto denaro è necessario per acquistare i beni e i servizi ritenuti essenziali per uno standard di vita minimo, ma questo dato – per quanto significativo – non riesce a descrivere e raccontare la povertà, che è un fenomeno sociale più complesso e che dovremmo saper misurare anche usando criteri qualitativi. E non solo per concordare con l’antico adagio secondo cui i soldi non danno la felicità, proverbio peraltro inventato da chi i soldi li ha e cerca in questo modo di consolare chi invece non li ha.
Chi non ha un lavoro è povero non soltanto per il fatto che non ha, per sé e per la propria famiglia, i soldi necessari per comprare il pane, ma soprattutto perché perde in dignità, in competenza, in libertà.
Per la generazione di mio padre il lavoro ha rappresentato un elemento fondamentale della propria formazione. Mio padre aveva la licenza elementare, ma ha sempre lavorato e lavorando ha sviluppato tutte le proprie competenze, anche tecniche. In particolare mio padre sapeva fare – e bene – diverse cose in campo elettromeccanico e le ha imparate esclusivamente facendole – e sbagliando all’inizio – osservando le persone più vecchie di lui che le sapevano già fare, soprattutto non smettendo mai di aggiornarsi; e le ha continuate ad imparare, anche mentre le insegnava a persone più giovani di lui. Per mio padre il lavoro – insieme alla politica – è stato un’agenzia formativa molto più importante della scuola; e questo vale per tantissime persone di quella generazione. Per quelli della generazione di mio padre l’art. 1 della Costituzione non era una formula rituale, ma qualcosa che vivevano giorno per giorno, per cui avevano lottato e che avrebbero voluto trasmettere a noi.
Per quella generazione il saper fare – e questo valeva per ogni lavoro, perché ogni lavoro aveva una propria dignità – significava poter lavorare e quindi essere un cittadino. Perché il lavoro, insieme al salario – che è importante e deve essere equo – dà alle persone una ricchezza non quantificabile, perché è il lavoro, e non il salario, che rende cittadini liberi. Per questo le forze del capitale hanno svalutato in questi anni il lavoro, lo hanno impoverito, lo hanno precarizzato, lo hanno dequalificato, oltre naturalmente ad avergli dato meno valore attraverso salari sempre più bassi e non più equi. Magari possono concedere un reddito di cittadinanza, perché una paga senza lavoro non crea cittadini, ma sudditi; e loro hanno bisogno di sudditi, non di cittadini.
Per questo lottare contro la povertà significa essenzialmente garantire opportunità di lavoro, sicuro, che garantisca alle persone un reddito equo e una prospettiva di continuità, che permetta loro di crescere, di formarsi, di avere dignità. Perché – ed è il più grande insegnamento che ci ha lasciato la generazione di mio padre – una persona che ha dignità non è mai povera.