di Alfredo Morganti – 17 settembre 2018
Sono due PD, dice ‘Repubblica’, ma che non ne fanno uno, aggiungo io. La proposta di Orfini di scioglierlo, in fin dei conti, si riferisce a un partito già sciolto di suo, almeno virtualmente. Liquefatto nella spinta propulsiva, nell’entusiasmo dei suoi dirigenti e dei suoi iscritti, nella tenuta elettorale, nello spirito e nella carne potremmo dire. Il Partito Democratico nasce male, veltronianamente diciamo, e campa peggio, randellato per cinque anni da Renzi alla ricerca di una novità che era vecchissima, ossia la messa in un angolo della sinistra e la rottamazione della sua cultura e della sua classe dirigente storica. A cosa è servito il PD? All’avventura renziana e niente più. Il loftismo ha spianato la strada al folclore successivo, al più becero tentativo di riforma costituzionale mai visto, all’attacco ai corpi intermedi, al compimento finale della crisi dei partiti, al leaderismo quale unica via al potere, alla dilapidazione di una quantità enorme di risorse pubbliche, che hanno preso la forma di bonus e sgravi come se non ci fosse una domani. Oggi questo partito non rappresenta più nulla, ed è anzi fonte di imbarazzo per la sinistra. Bisogna andare oltre, perché oggi la democrazia è in crisi ed è sotto attacco, e il PD non garantisce niente a proposito, anzi favorisce questo clima di incertezza.
Qualcuno, così, dovrebbe avvertire Renzi che il suo compito è concluso, l’obiettivo è raggiunto. Non c’è più bisogno che spari sull’ambulanza. Molli l’osso, si faccia il suo movimento, e non se ne parla più. Gli altri azzerino la situazione, rimettano in discussione la storia recente e si riapra la discussione politica nell’universo grande della sinistra. Servirà più radicalità, serviranno posizioni nette sul lavoro, la scuola, la democrazia, in un grande lavoro di rifondazione di cui c’è assoluta urgenza, ma senza accampare la solita fretta emergenziale. Renzi, d’altra parte, è solo l’ultimo emblema della crisi della sinistra, il più pervicace ed estraneo alla tradizione, ma l’ultimo. Il gorgo è arrivato dopo molti antecedenti scivoloni. Serve un dibattito che non spacchi il capello in quattro, quindi, ma recuperi una serietà, un livello di partecipazione e una modalità di fondo, quella dell’alternativa, del cambiamento e della giustizia sociale. Senza più codismi, senza più l’illusione che la sinistra possa fare meglio il lavoro degli altri. Sconfitta dall’egemonia liberista, alla ricerca di una modalità di sopravvivenza, la sinistra si è lasciata un po’ andare divenendo più realista del Re. E anche oggi alcune sue nicchie immaginano che il governo gialloverde sia benemerito per avere almeno individuato i temi essenziali cui far fronte. Ancora subalternità. Malattia lunga e esiziale, che ci spinge a perdere autonomia di pensiero e a fare il tifo per gli altri oppure ad apparire camaleonti, piuttosto che tirar dritto lungo la strada che più ci appartiene. Persa la quale si perde spirito, identità, immagine, carattere, cultura, tale da non essere nemmeno più riconosciuti. L’anomia è dietro l’angolo.