Disoccupate le strade dai sogni

per Gabriella
Autore originale del testo: Mario Bonanno
Fonte: sololibri.net
Url fonte: https://www.sololibri.net/Disoccupate-le-strade-dai-sogni-Lolli.html

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Disoccupate le strade dai sogni copertina del libro

DISOCCUPATE LE STRADE DAI SOGNI – di CLAUDIO LOLLI – ed. GOODFELLAS

recensione di Mario Bonanno

Non la credevo certo così lunga/ e obbligatoria questa strada ferrata/ che ci ha concesso dei rifornimenti/ senza il miracolo di una fermata/ Davanti a me solo una vecchia donna/ mangia panini e parla di suo figlio/ mi assomigliava/ sono tutti uguali gli occhi degli uomini verso l’esilio

(Anticipatici Antipodi, 1983)

E quanto amore sprecato negli autobus/ tra gente che potrebbe volersi bene/ perché siamo tutti umani e mortali/ nella natura e nelle sue catene/ E quanto amore perduto negli autobus/ in questo circo di gente diversa/ per cui la vita è soltanto una lotta/ ma è troppo spesso una battaglia persa/ Quanto amore abbandonato negli autobus/ da questi uomini multicolori/ rinchiusi sempre nelle loro celle/ senza sapere cosa c’è là fuori

(Il grande freddo, 2017).

Quarantacinque anni e spiccioli, scappati via a scrivere cose così. A scrivere cose da Claudio Lolli, alla Claudio Lolli. Ovvero frequentatore di minimi e massimi sistemi, spostamenti del cuore, aritmie sociali, isole-che-forse-c’erano, abitate da zingari felci, sogni disoccupati (a forza di carri armati, in senso stretto e traslato) e antipatici antipodi susseguenti. Prosatore prima ancora che cantautore. Poeta prima ancora che cantautore politico (ma quanto è pigra questa vulgata pubblicistica, sempre a caccia di etichette da affibbiare).

Claudio Lolli è sui generis, in forma e sostanza, parole e canzoni: dalle attese godotiane al grande freddo delle occasioni mancate. Ripeto che i testi di alcuni cantautori sono da assumersi in accezione poetica, e i testi di Claudio Lolli mi vengono in soccorso. Sempre stato così: dal disco delle cinquemila lire in copertina in poi.
Parole esposte al sole della significanza, messe lì, dentro e fuori i dischi: “vecchia piccola borghesia/ per piccina che tu sia/ non so dire se fai più rabbia/ pena, schifo o malinconia” è stato un mantra generazionale: ha trasceso tutti i refrain di questo mondo); schierate apposta per comprovarlo. Un fila indiana di parole, progenie del logos e della stratificazione. Capoversi non comuni di una comune ontologia da romanzo realista, se è vero che “forse so chi sono: un uomo qualunque e proprio per questo non lo sono più”.

La citazione – purissimo Lolli-style: ossimorico, inedito, spericolato, speculativo – risale alla pag. 175 di “Disoccupate le strade dai sogni”, il libro che lo osanna con dentro tutti i testi del suo canzoniere.
Un’occasione imprescindibile per dare a Lolli quel che è di Lolli e definirlo poeta sic et simpliciter, semplicemente poeta, se vi piace di più.
Poeta in quanto:

  1. le parole che enumera, volendo sanno affrancarsi dalla musica;
  2. confidano sulle loro gambe e vanno inoltre dove devono;
  3. assumono rilevanza portante/determinante;
  4. intersecano sovente la forma lirica;
  5. infine (l’ho già detto) ne attestano l’estrazione esistenziale, più che politica.

Dunque non fatevi ingannare dalle apparenze, in un senso o nell’altro: Claudio Lolli è una persona gentile votata alla crudeltà dello sguardo sullo stato delle cose. Al racconto del gioco delle parti in campo, con pochissimi analgesici di scorta.
Il suo sguardo è lunghissimo e atroce, lo sguardo di chi non ha nulla da perdere in quanto ha già perso il cielo. Lo sguardo mite ma affatto remissivo con cui si sfidano le idiosincrasie dello stare al mondo. Lo sguardo ostinato, indefesso, impudico, deputato a un insistito oltraggio – alla miopia di comodo, al pensiero non-pensante, alla canzone stessa -; lo sguardo proprio del poeta-scrittore-cantautore che staziona – ab origine – dalla parte del torto (brechtianamente dalla parte del torto). Lo sguardo del pensatore con cui misurarsi, e fare i conti.

“Disoccupate le strade dai sogni” (assemblato dal fido Danilo Tommasetta, fotografato da Eric Toccaceli, illustrato da Enzo De Giorgi, editato da Goodfellas, con postfazione di Fulvio Abbate) è un libro imperdibile e stavolta più che mai c’è da prendermi alla lettera: un libro pieno così di saggezze e stranezze, miraggi, affondi, affronti e dissipazioni. Un libro dolce e impietoso al contempo, come sa esserlo soltanto l’autentica poesia.

Mario Bonanno

E’ VERO CHE IL GIORNO SAPEVA DI SPORCO – di MARIO BONANNO  – ed. STAMPA ALTERNATIVA

Riascoltando Disoccupate le strade dai sogni” di Claudio Lolli

di Athos Enrile,  da faremusic.it

Commentare un libro dove si parla di terzi pone sempre qualche problema di equilibrio, a maggior ragione se questo “terzo” è un artista e il focus del contenitore è un album, musiche e liriche ben precise, che per alcuni hanno significati fondamentali, calati in una precisa contestualizzazione, per altri – magari quelli anagraficamente più fortunati – possono rappresentare qualcosa di “leggero”, solo trame accattivanti alimentate da poesie e messaggi. Certo, parlare solo di reazione istintiva al cospetto dell’opera di Claudio Lolli potrebbe sembrare blasfemo, ma l’arte contemporanea non cerca la bellezza, piuttosto la verità, e mi pare del tutto normale intenerirsi ascoltando “Michel” – dall’album Aspettando Godot, – al solo approccio, fatto di un arpeggio impareggiabile ed una voce che intona: “Ti ricordi, Michel dei nostri pantaloni corti…”: giuro, mi basta questo per tornare indietro a momenti che hanno significati del tutto personali, sicuramente lontani dal pensiero che portò al momento creativo, in quel lontano 1972.

Ma la necessità di equilibrio a cui accennavo obbliga a pensare se occorra scrivere di Claudio Lolli e della sua opera o privilegiare la rilettura di Disoccupate le strade dai sogni – disco rilasciato nel 1977 – da parte di Bonanno.

Proverò a fare entrambe le cose, introducendo però i miei ricordi personali relativi ad un periodo dove la posizione geografica del singolo determinava esperienze molto diverse tra loro, e quello che accadeva a Bologna – è questa la scena – era percepito in modo differente da chi “girava attorno”, con un sistema di informazione che amplificava o minimizzava la portata degli eventi in funzione dell’interesse del momento.

È il 1977, ho 21 anni e mi trovo casualmente a Milano, una città “non mia”, anche se la “mia” provincia, Savona, è reduce dalla bombe che scoppiano a ripetizione, mentre noi giovani facciamo la ronda notturna nelle nostre scuole. Il tram su cui viaggio penetra nel corpo della città sino a che un muro ci ferma. Le saracinesche calano rapidamente, i passeggeri scendono da un mezzo che non ha più meta e si allontanano a gran velocità, in uno stato misto tra paura e curiosità. E il muro si avvicina, fatto di eschimi, attrezzi manuali, copricapo, mentre un altro muro si contrappone, anche questo in divisa, blu. Mi fermo qui… è un’immagine che a distanza di 40 anni non mi abbandona mai, nonostante la sua episodicità, e immagino quali solchi possano essere stati scavati da chi viveva le esperienze dall’interno, nel quotidiano.

Claudio Lolli nasce con un dono, un talento che capita ogni tanto, perché qualcuno distribuisce a casaccio…

È un poeta, un musicista, un cantastorie, e impiega la sua arte per compilare un diario, per raccontare dal di dentro una storia, la storia, senza aver alcuna voglia/necessità/velleità di diventare un protagonista, né di mettere in mostra il piglio intellettuale. Sono tutti protagonisti quelli che vivono quel particolare momento storico in alcune città molto precise, dove la politica significa trovare alternative ad un sistema insoddisfacente e dove la ribellione non è una moda, sino a che gli ideali di base sfociano nella violenza arrivando al limite del degrado personale (alcune testimonianze video relative alle manifestazioni del Parco Lambro feriscono profondamente). Ma Lolli è attore principale suo malgrado, perché attraverso le sue creazioni rende un servizio alla storia, fotografa il momento e lo rende immortale, prerogativa questa di chi fa il suo mestiere, anche se nel suo caso l’oggettività può essere influenzata solamente dalla percezione – che è del tutto personale – e da nessun altro condizionamento esterno.

Disoccupate le strade dai sogni” arriva a distanza di un anno da quel capolavoro che è “Ho visto anche degli zingari felici”, per me entusiasmante anche dal punto di vista musicale. Anche in questo Lolli si differisce dai suoi colleghi coevi, perché alcune delle sue trame, unitamente alla pulizia e alla caratterizzazione vocale, potrebbero colpire anche con liriche meno profonde, e forse anche in loro assenza.

Lo racconta Bonanno che, arrivati a pagina 63, propone un modo fantastico di fruire del suo lavoro: una dopo l’altra arrivano le canzoni dell’album, e per ogni brano esiste il commento di Claudio Lolli, pensieri di oggi guardando al passato, didascalie che permettono di decodificare ciò che spesso resta intrappolato tra le righe. La tentazione è forte, basta il canale giusto il clic appropriato e parte “Alba Meccanica”… “L’alba si inventa una ruota a Torino…”. Lo ascolto mentre giro le pagine.

E si rivive un’epoca ormai sepolta.

Dice Claudio Lolli a proposito del disco: “Come vendite il disco andò benino. All’inizio diede un po’ di spaesamento. Venne giudicato difficile, oscuro, troppo intellettualistico, strano. E’ stato recuperato dal tempo. Oggi lo vedo come un disco abitato dalla malinconia dei timidi. Ci sento dentro qualcosa di tragico (come può essere tragico assistere da un angolo di strada alla fine di qualcosa che ami), ma di una tragicità che ha ancora una sua appartenenza, una sua tenerezza, una sua insolenza, quasi d’amore. Queste sono le cose che sento scorrere dentro questo disco, cose che magari sentivo anche prima, ma in modo meno chiaro, meno lucido di adesso”.

Nell’opera di Bonanno troviamo la completezza, i pensieri di Gigi Marinoni e del poeta Nanni Balestrini, le splendide illustrazioni fotografiche di Enzo Eric Toccaceli, le interviste, tutta la discografia, le voci dell’epoca… una documentazione che niente ha a che fare con l’arte della realizzazione biografica, ma invoglia alla conoscenza – per chi non ha vissuto quei momenti – e stimola la memoria di chi era in qualche modo presente.

Ma credo ci sia qualcosa di più.

Davanti alla rappresentazione dell’arte – musica, pittura, scultura… – la reazione del “passante per caso” è sempre istintiva, e ciò che influisce ha sempre a che fare con l’emotività, con l’empatia che nasce spontanea, così come la repulsione o, ancora peggio, l’indifferenza. Mario Bonanno ci aiuta a guarda la cornice, il contorno, e quindi ci invita col suo lavoro allo sforzo intellettuale, a riflettere su ciò che è ormai invisibile, a contemplare l’assenza perché attraverso la sua comprensione il godimento non è più prerogativa dei sensi ma dell’intelletto.

La “parola” da lui usata ha un grande peso – “Finchè sono nella tua bocca, sei il signore delle tue parole. Quando escono diventi il loro servo” (citazione ebraica) -, e Bonanno dosa il suo verbo, tra il forbito e l’accessibile, conscio della forza dell’esposizione e del fatto che il contenuto conti davvero poco sull’efficacia del messaggio proposto.

Arrivato a pagina 93 trovo il sunto, la filosofia, l’idea che più mi affascina quando mi appresto a leggere un libro, qualunque sia l’argomento: “La parola è un grande sovrano, che con un corpo piccolissimo e invisibile compie imprese massimamente divine: sa calmare la paura, eliminare il dolore, suscitare la gioia, sollevare la pietà”. (Gorgia da Lentini).

“Disoccupate le strade dai sogni” è la “celebrazione di una fine” (Lolli), una chiosa drammatica, tremendamente attualizzabile nel nostro nuovo mondo, un luogo e un tempo dove anche i sogni, a volte, sono fuori dalla portata dei nostri giovani, un periodo della vita in cui un tempo era viva la speranza che sì, con un po’ di impegno e di condivisione, qualcosa sarebbe potuto cambiare.

Un libro che soddisfa, coinvolge, incuriosisce e promuove l’azione e l’interazione.



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