Fonte: Blondet e Friends
di Maurizio Blondet – 6 agosto 2018
Due terzi delle aziende tedesche lamentano che le carenze infrastrutturali, a cominciare da strade e ponti fatiscenti: “L’economia ha bisogno che la logistica sia la più possibile agevole possibile”, e le condizioni infrastrutturali sono ormai di ostacolo. Lo ha stabilito dell’Istituto Tedesco del Business (IW) che ha intervistato 2800 aziende: il 68% di esse accusano intoppi dovuti alle carenze delle infrastrutture, ossia il 10% in più che nel 2013, quando la stessa inchiesta sulle stesse imprese, e si erano lagnate il 58%. La situazione è particolarmente grave nel Nord Reno-Westfalia, il land relativamente sottosviluppato.
E non si tratta solo di strade e ponti: anche l’istruzione e i servizi digitali soffrono, le infrastrutture fisiche e intangibili, persino gli studi universitari, soffrono della scarsità degli investimenti “da parte di ogni settore del governo tedesco, nonostante che esso accumuli attivi di bilancio da anni”, dice che Bruegel Institute – che al mistero di questa carenza di investimenti nonostante i colossali surplus con cui Berlino potrebbe pagarseli, ha dedicato uno studio preoccupato: è infatti “il patrimonio del capitale fisso” della nazione che si sta degradando per risparmio sulla manutenzione.
Appare così che la Repubblica Federale Tedesca applichi anche a se stessa le austerità (inutili) che impone ai paesi-cicala quando obbliga Grecia e Italia a mantenere attivi di bilancio, e (tutti) il limite del 3% del deficit, e in generale a “tagliare i costi”. Ovviamente pare che Berlino guardi alla manutenzione delle strade, ponti e ferrovie, o edifici pubblici e ammodernamenti digitali, come dei “costi”. Inutile opporre che questi “risparmi” in tempi di recessione sono “pro-ciclici”, ossia aggravano la recessione e con essa peggiorano il debito in rapporto al Pil (se non altro perché fanno calare il Pil): la Bundesbank, e Berlino, e l’intera popolazione tedesca sono lì a sorvegliare che greci e italiani non vivano “sopra i loro mezzi”, e li additano ai “mercati” perché” li “puniscano” se provano a sforare, esigendo tassi più alti sul debito pubblico. La scoperta che la Germania lesina in modo incredibile sui propri investimenti infrastrutturali, ci dice almeno che davvero ci crede, alla sua propria ricetta austeritaria: la applica sui di sé fino all’autolesionismo.
E’ un caso storico di tirchieria metafisica? Se lo è, l’attacco di avarizia sarà sicuramente aggravato – e spingerà a fare altri “risparmi” – dai recenti cali degli ordinativi ricevuti dall’industria tedesca. Cali ragguardevoli: -4% a giugno rispetto al mese precedente. Gli economisti si aspettavano un calo di solo lo 0,4 rispetto alla crescita a maggio del 2,6. Gli ordini dall’Eurozona sono calati del 2,7 percento, mentre gli affari con il resto del mondo sono scesi del 5,9 percento. La domanda interna si è ridotta del 2,8%. Gli economisti presumono che la ripresa in Germania sia al culmine. Pertanto, molti esperti e istituti di ricerca hanno ridotto le loro previsioni economiche per il 2018 a poco meno del due percento.
“Tu NON cadrai in debito”
Il rallentamento non è poi tanto strano, visto che ormai il 17,3 per cento degli europei vivono sotto la soglia di povertà del loro paese (ogni paese ha la “sua” soglia di povertà, che si verifica quando è al 60% del reddito ‘mediano’ della società): sono ben 87 milioni di persone – i cui consumi sono calati, e ben poco possono comprare delle merci tedesche. Che la povertà sia aumentata causa l’euro e aggravata dalla gestione austeritaria tedesca della moneta, lo mostra la divisione geografica. Sotto il 17 per cento sono Finlandia (11,6%), Danimarca (11,9), Norvegia (12,8) Olanda (12,7); al disopra sono Romania (dove il 25,5% della popolazione è sotto la soglia di povertà), Spagna (22,) e Grecia (21,2), seguite da Italia (20,6) e Portogallo (19,0) – i paesi del Sud, penalizzati dall’euro forte che ha fatto calare l’export e, insieme, dalle cure “di risanamento” recessive, riduzione del debito, deficit, tagli di costi, privatizzazioni eccetera.
In Spagna, Grecia, Romania, oltre un abitante su 10 è in “povertà estrema”, intesa come reddito sotto il 40 per cento del mediano (attenzione: non medio, mediano).
La Grecia è ovviamente il caso storico della crudeltà germanica: un “case history” che spero verrà studiata un giorno alla Bocconi come esempio dei grandi successi della tecnocrazia europea e delle sue teorie.
Le cifre non finiscono di stupire. La “cura” e “salvataggio” della Grecia sono cominciati nel 2010. Ancora l’anno prima, 2009, il Pil del Paese, calcolato a parità di potere d’acquisto, toccò 330 miliardi di dollari, nonostante già anche gli ellenici sentissero gli effetti della crisi finanziaria scoppiata nel 2008. Ebbene: nel 2016, il Pil è solo di 190 miliardi di dollari: un taglio di 140 miliardi. Nel 2017, il Pil greco, trascinato dalla ripresina europea generale, è risalito microscopicamente: a 200 miliardi. Nel 2018 si aspetta cresca a 225: in ogni caso, sempre 100 miliardi in meno del 2009. Il tasso di disoccupazione è al 20% e quella giovanile al 40. Ma questo non dice ancora tutto: il tasso di investimento è sceso dal 17,2% nel 2010 all’11,7 nel 2016. Un calo colossale del mantenimento delle infrastrutture – che ovviamente si traduce, alla lunga, nella rovina di quell’ “equipaggiamento del territorio” (strade, ponti, via ferrate, distribuzione elettrica, telecomunicazioni) che sono essenziali a un paese moderno. In altre parole un arretramento verso un sottosviluppo reso permanente dalla rovina infrastrutturale, che rende impossibile una rinascita.
L’Italia è stata messa sulla stessa strada dai governi da Monti in poi che hanno applicato le ricette ordoliberiste dettate dalla Germania. Il tasso di investimento è sceso dal 20% del Pil al 16,% – rovina delle infrastrutture – per via dei vincoli di credito imposti dall’UE a Basilea III e le severe norme sui bilanci statali da tenere in attivo primario. Il governo Renzi, in tardiva resipiscenza, ha creato un fondo degli investimenti, ma risibile: 1,9 miliardi per il20017, poco più di 3 miliardi per il 2018. Come ha reso chiaro il professor Paolo Savona, occorrerebbero ordini d’investimento sostenuti vicino ai 50 miliardi: l’Italia deve aumentare il suo Pil del 30% accrescere non solo l’occupazione; l’Italia ha un’enorme richiesta arretrata in infrastrutture, il turismo è vecchio per mancanza d’investimenti, i giacimenti artistici trascurati e incapaci di rendere, le aziende necessitano di tecnologie adeguate.
La UE diventerà un nano economico ?
Ma appena si prospetta la volontà di un rilancio della spesa infrastrutturale, “i mercati” (essenzialmente: la Bundesbank, a cui bastano 10 miliardi per manipolare punitivamente i nostri titoli pubblici) ci puniscono con lo spread. Se l’onere degli interessi aumenta di un solo punto percentuale, il disavanzo annuale aumenta da 40 a 60 miliardi di euro, che vengono così sottratti agli investimenti strutturali. Ora, in una zona monetaria non ci dovrebbe essere spread alcuno, una vera banca centrale manterrebbe uguale il rischio di credito (rigorosamente zero) dell’eurozona. Attenzione, perché l’arretramento cronico finirà per colpire anche l’Italia numero 3, quella che funziona e trascinare le altre due, la povera – culturalmente arretrata e la corrotta – parassitaria: le aziende innovative e dinamiche che hanno vinto la sfida dell’euro, superato il cambio sfavorevole, si sono rammodernate e reinventate in processi e prodotti, e adesso danno all’Italia un attivo nell’export di 40 miliardi. Per confronto, basti pensare che la altezzosa Francia ha invece un passivo dell’export – e di 80 miliardi.
Ma i mancati investimenti infrastrutturali, che già esercitano un freno potente su questa Italia di che combatte e vince, finiranno per debellare anche questi sforzi eroici. La mitologia grillesco-meridionale anti-industriale, non aiuta certo. Ma peggio ancora è il rifiuto europeo (tedesco) di allentare la stretta per spese produttive a debito. Appena si è prospettato di allentare la regolamentazione bancaria europea, la membra tedesca della BCE, Sabine Lautenschlaeger, ha strillato: “Si rischia di indebolire gli strumenti in mano ai regolatori, renderanno loro più difficile richiedere più capitale per certi rischi… bisogna che la BCE torni ad alzare i tassi d’interesse”.
Non c’è verso, insomma. Nemmeno di fronte all’evidenza, il tedesco cambia. Le carenze infrastrutturali resteranno e i aggraveranno, a cominciare dalla stessa Germania che avrebbe i fondi per pagarsele, ma non lo fa perché la sua teoria impone di “tagliare i costi”.
Una volta un ministro belga definì l’Europa “un gigante economico, un nano politico e un verme militare”. Adesso, la UE rischia alla lunga di rendere l’Europa anche un nano economico, in confronto alla Cina ad esempio, con le infrastrutture invecchiate a forza di risparmiare. Qualcosa che ricorda tristemente da vicino i meravigliosi acquedotti e le eccezionali strade di cui Roma aveva coperto l’Europa, che furono abbandonati dai barbari all’incuria o alla distruzione mentre erano incapaci di ricostruire le arcate cadute, o che loro stessi avevano tagliato per far mancare l’acqua a Roma assediata. Quei barbari erano almeno esterni, e aspiravano a diventare”romani”. Questi li abbiamo dentro, anzi al centro, e vogliono restare tedeschi: ossia tirchi e corti.