di Alfredo Morganti su facebook – 18 luglio 2014
Mia madre se ne è andata dieci anni fa. Al termine di una malattia crudele, dopo tre settimane di sofferenze indicibili in ospedale, dopo un terribile intervento chirurgico. Ho ancora stampati in mente quei giorni e quelle notti, come se fossero un ricordo solo di ieri, come se accadesse ora, qui davanti a me. Furono un tunnel stretto, buio in fondo, dove le speranze (poche) venivano pian piano soffocate dal male e da un destino inesorabile. La vedo in quel letto contrita, con gli occhi chiusi per lo più, magari vogliosa di comunicare ma incapace, impossibilitata dalla situazione. La vedevo che si spegneva pian piano, lei non ancora settantenne. Il male aveva la meglio sul suo carattere deciso, sulla sua personalità tosta, rugosa, spavalda, e la macinava come se fosse burro. A nulla valse alternarsi giorno e notte accanto al suo letto, non lasciarla mai o quasi, con dentro l’idea che ogni giorno che passava diventava sempre più difficile una svolta. Era l’alba quando mia moglie, dall’ospedale, mi chiamò a casa per dirmi di venire subito in corsia. Non ho un’immagine di quei momenti, ma sensazioni. Come di qualcosa che senti sfuggirti, come una grande malinconia più che un pianto o una rabbia. Un sasso che pesa. Un velo che si distende sull’animo, e lo stringe, lo comprime, e tu non riesci nemmeno a respirare per quanto ti avvolge.
In quei giorni di ospedale senti che vorresti cessare di essere un figlio, e magari trasformarti in suo padre, abbracciarla e avvolgerla come faresti con una figlia. Una specie di ribaltamento dei ruoli: ritrasmettere a lei quello che lei aveva trasmesso a te per decenni, restituirle il calore e l’amore, tramutare tutto in una energia che potesse servire a salvarla, o a consolarla almeno, attenuando le sue sofferenze, fare da scudo insomma, sorreggerla, sostenerle l’animo. Come un baluardo. E invece sei lì, impotente, impossibilitato persino a parlarle, mentre guardi la sacca delle urine e speri che si riempia, che non si blocchi tutto, che la vita continui a scorrere. Dall’ottavo piano vedi tutta la piana di Tor Vergata, e giù giù il profilo dei Castelli. E pensi che vorresti prendere per mano tua madre, e tuo padre che già non c’è più da tre anni, per farli volare assieme dopo tanti anni di economie, preoccupazioni, sacrifici, povertà (si può dire povertà?), progetti sempre rinviati, anni che scorrono come pietre senza che accada nulla. Nonostante una vita vissuta con sobrietà, mitezza, profittando dei più piccoli ritagli di felicità offerti dalle circostanze. Penso a loro quando sento gente che dice: abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità e ora dobbiamo pagare. Tu sei vissuto al di sopra delle tue possibilità, i miei sono vissuti persino al di sotto, pur di garantire a tutta la famiglia un minimo di prospettiva. Eppure quello non paga mai, mentre loro hanno pagato tutto, pure gli spiccioli.
Sono figlio di due operai che si sono conosciuti in fabbrica. Mia madre si licenziò dopo dieci anni di lavoro per badare a una famiglia di 8 persone (con nonni e fratelli), mio padre fu licenziato invece nel giorno di Natale del 1963, a seguito di una occupazione della fabbrica. Mio fratello aveva tre mesi, io 6 anni. Poi arrivò sino a Milano per cercare un lavoro che non si trovava. Ma fu il cantiere a imprigionarlo per 26 anni. Di mia madre ricordo i panni lavati in fontana al freddo, al mattino prima di fare la spesa. Spesso mi mettevo vicino e la guardavo mentre insaponava e strizzava. Oppure quando sgrossava con la carta vetrata il legno ruvido delle testate del letto per guadagnare qualcosa. Non una lira è entrata in casa mia che non fosse prodotta dal lavoro. Oggi spero che entrambi volino davvero da qualche parte, leggeri, felici, stretti nella mano. Spero che mia madre quel giorno di dieci anni fa sia davvero uscita dalla finestra e abbia finalmente sorriso alla luce del sole in alto. Lo spero davvero. Ma oggi, quando passo sotto quell’ospedale e guardo su (è la finestra all’ottavo piano, sotto la scritta verde luminosa), provo sempre una stretta al cuore e abbasso subito lo sguardo. Risento all’istante il velo di malinconia stringere il mio animo e il cuore sparire sotto il peso della tristezza. Non so spiegarlo, ma è come se sentissi in quel momento e tutto assieme il peso della nostra esistenza e tutto il dolore che la vita sa riservare. Mi salva da questo abisso e da questo tormento la mia famiglia. Ma è così da dieci anni, ogni volta che passo là sotto quella finestra all’ottavo piano. E temo che sarà sempre così. Come un destino.