di Franceso Bonicelli Verrina
Queste sono le memorie di H. A. (1889-1988), mediocre pittore austriaco, emigrato dall’Europa nel 1939, ex capo di un piccolo e insignificante partito bavarese degli anni ’20, perseguitato politico e autore di letteratura di quarta categoria, maestro elementare, di disegno, in una remota cittadina della Nuova Zelanda. Le memorie in oggetto sono state raccolte e pubblicate postume, nel 1988, dalla sua vicina di casa, A. E., un’anziana patologa, nota per la dedizione ai suoi pazienti, che alle soglie della pensione ha preso una seconda specializzazione, in psichiatria, continuando così a lavorare e a percorrere migliaia di miglia settimanali. A. E., che ci trasmette queste memorie del suo defunto vicino di casa, ha speso la vita collezionando arte, spezzando cuori di rampolli castigliani, fingendosi morta per intere settimane per girare indisturbata il mondo, con i mezzi più improbabili. Nessun vicino saprebbe darle con precisione un’età, che potrebbe essere compresa fra i 70 e i 120 anni, se si prendessero per vere tutte le esperienze che dice di aver vissuto e i personaggi remoti che ritiene di aver conosciuto. Alcuni temono abbia doti medianiche, altri affermano che non esista, altri ancora che non sia altro che una fantastica e simpatica affabulatrice, dall’enorme energia vitale e mentale. Noi ci limitiamo a trasmettere questo materiale da lei raccolto, come puri e semplici corrispondenti. Le ceneri dell’autore sono state, secondo le sue stesse volontà, disperse nel lago di Birchwood, al termine di una gita in barca con pic-nic di A. E., che si è fatta carico della missione.
(Pare che in gioventù A. E. si sia battuta per una equazione economica da premio Nobel, ma ovviamente censurata, per dimostrare come sul lungo termine la mancanza di lettura avrebbe portato all’impoverimento di tutti portando al potere dei dementi su scala planetaria. Si è insinuato anche che abbia fatto parte di un gruppo terroristico, di studenti, che andava a rapire pedagogisti che si divertivano ad avvelenare le vite dei nuovi insegnanti tentando di automatizzare ed aziendalizzare la scuola, costringendoli a ritrattare in cambio della liberazione).
Inizio delle memorie di H. A.:
“Tutti i posti dove nessuno abbia voglia di far qualcosa seriamente, ovvero, oltre la superficie, appaiono belli, da fuori.
Ma bisogna avere il coraggio e l’onestà di ammettere che la gente non è cattiva ovunque allo stesso modo, ci sono luoghi dove la meschinità è un esercizio quotidiano collettivo, stagni dove il talento non è ben accetto. In simili luoghi esercitano un’enorme forza (d’inerzia) vecchie idee stantìe, dogmatiche, amministrate da gran sacerdoti del luogo comune, cerchie ristrette ed apparentemente esclusive, composte da persone, spesso solo di certe famiglie, che fuori dalla loro palude non sono né sarebbero mai qualcuno, ma nel loro acquitrinio godono di illimitata ed immeritata autorità tribale in qualche campo, che sfruttano per opprimere ogni novità. Nel loro campo non hanno fatto niente per davvero, non si sono dedicati con passione disinteressata, non hanno migliorato la vita di nessuno né illuminato una via, ma solo per compiacere qualcuno ed ottenere un titolo di cui vantarsi con altri ruffiani e per cui essere immotivatamente stimati dai greggi, malgrado la propria malevolenza e arroganza, senza mai un’idea propria.
In quei luoghi si finge di essere popolari, attraverso la vuota fanfaronaggine e la compiaciuta ignoranza, nessuno si sente in cammino, in divenire. L’autonomia di pensiero, anche minima e con la migliore disposizione d’animo, è compressa in ogni modo, svilita, insultata e calpestata di comune accordo da tutti con una tenacia che non si sospetterebbe da come costoro conducono tutti gli altri loro affari. Chi pratica il pensiero autonomo si sente umiliato, sbagliato, colpevole e non può far altro che suicidarsi (fisicamente od omologandosi) o sopravvivere covando un rancore enorme e talvolta accettando di diventare crudele come i branchi che lo ostacolano.
Se avrà l’occasione di muoversi, per reimparare ogni cosa, si accorgerà di non essere solo al mondo, come accadde a me, spostandomi dalla squallida e odiosa Leonding, in Alta Austria, dove passai una triste adolescenza perseguitato ed abusato, da mio padre e dai miei compagni di scuola, a Monaco, dove mi unii a un centinaio di rivoluzionari patriottici, affini alle mie idee, che però lasciavano debiti in ogni birreria. Sono sempre stato astemio e non ho mai amato le salsicce, mi divertiva però far perdere del tempo alle prostitute, tergiversando sui prezzi, per poi non consumare.
Solo Braunau è stata il paradiso, per me, il mio personale paradiso perduto, la mia infanzia. Braunau era una minuscola cittadina bavarese, naturalmente unita alla tedesca Simbach, ma finita nelle grinfie absburgiche e dove anche Napoleone soggiornò, con il suo quartier generale, nel 1805.
Per me ormai Braunau è solo il luogo dove ho stretto forte la mano bollente della mia povera mamma mentre moriva, nei suoi ultimi sussulti. Tutto ciò che avessi mai avuto al mondo lo persi quell’anno, l’anno più terribile della mia vita, il 1907, e il 1908 (dato che si era quasi a Natale del 1907, mia madre morì il 21 dicembre 1907). Solo un caro amico di nome August e mia sorella mi furono vicini. Ma nessuno poteva farsi carico del mio dolore, né lo avrei ceduto a nessun altro. Non bisogna fuggire dalla tristezza e dal dolore. Quando raramente mi capita di dormire, grazie a qualche ansiolitico, sempre più potente, mi capita ancora oggi di sognare mia madre nuotare in un lago, che innaturalmente si allarga con velocità, sempre più grande, mentre la vedo allontanarsi e andare sempre più al largo. Se chiudo forte gli occhi posso ancora sentire la sua voce, il suo odore rassicurante che è rimasto per anni con me, vederla nelle stradine di Braunau, che oggi forse non esisteranno più, devastate dall’edilizia di massa. Tengo sempre una foto di mia madre sul cuore, nella tasca interna, in alto a sinistra, della giacca.
Non avendo il coraggio di suicidarmi sono spesso stato tentato dall’omicidio, con gli anni ho capito che forse, in questa umanità cannibalistica, il rifiuto dell’omicidio potrebbe essere l’atto più eroico e trasgressivo, ma finchè ci saranno padri violenti, ci sarà un’umanità violenta e tuttavia assistiamo in continuazione ad uccisioni, carneficine, fratricidi, anche quando non scorre sangue. Ogni luogo si è trasformato in prigione, nella grande camera a gas dell’indifferenza. In un simile scenario con chi si potrebbe ormai fare una rivoluzione per la sopravvivenza dello Spirito? Dove si troverà la fiaccola che illumini un sentiero per fuggire da questa asfissìa mentale e ambientale e tornare alla radice, alle sorgenti del Superuomo? Chi ha ancora un cuore caldo e uno spirito forte? Chi spezzerà la catena della sopraffazione dei popoli, i miti rozzi e volgari della velocità e del denaro? Si ama quello che si cerca e quello che si cerca si crea.
Il mio popolo ha molto amato la forza e la bellezza, dopo essersi ribellato invano alla spartizione iniqua del mondo prima della Grande Guerra, dopo essere stato spartito, umiliato, disarmato, oppresso, dissanguato, al termine di essa, non ha più saputo reagire efficacemente, ha molto amato quel sogno che cercava ma non ha saputo crearlo, né saprei ora dire se, malgrado il nostro entusiasmo e il nostro pittoresco amore per le divise, avremmo potuto salvarlo da questo abisso.
Se l’umanità è questo, Dio benedica colui che darà un contributo alla sua estinzione, a fermare tutto questo, a fermare quest’idea di progresso. A un uccello basta un ramo per fare un nido, compiere lo scopo della sua vita. Per questo l’umanità se la prende tanto con le povere bestie, per una sorta d’invidia.
Personalmente amo molto la natura, amo perdermici contemplandola ed abbracciandola nel suo insieme, tornare all’Essere con lo sguardo e con il cuore. Gli uomini vogliono distinguere meticolosamente ogni cosa e distinguendo osservano la vita da sempre più lontano.
Per il mio esilio non avrei potuto eleggere altro luogo che la Nuova Zelanda (dopo aver scartato le Ande), con le sue montagne che mi ricordano le mie Alpi, così amate anche dalla mia conterranea Elisabetta, detta Sissi, condannata come insana mentale da una pletora di imbecilli fanatici del pettegolezzo storico. Nel mio caso ho sempre sognato la grandezza, ma non sono diventato un grande personaggio, sono solo un’insignificante orma sulla terra, fra le altre. La Storia non si è fermata ad aspettarmi, ma essa è fatta solo per prendere la polvere nelle biblioteche. Mi sento grande e libero solo contemplando le montagne, l’assenza dell’uomo.
Quando morirò forse solo dopo qualche settimana si accorgeranno, alla galleria d’arte locale, che da un po’ di tempo non passo più a portargli nuovi dipinti, ad importunarli e a litigare con qualche altro espositore, destando l’ilarità di tutti, con il mio aspetto gracile e trascurato, il mio modo (per loro buffo) di tagliarmi i baffi, il mio morbo di Parkinson, la mia tosse stizzosa, i miei gesti “da marionetta” e il mio accento esotico. Dicono che assomigli a un Chaplin antipatico, a un Proust senza fascino.
Denunceranno la mia scomparsa, passeranno giorni a cercarmi in luoghi dove non sarei mai andato e per scoprire che non ho il becco d’un parente nell’intero vasto universo (ah, sapeste il gusto di questa solitudine assoluta in cui posso essere unico dittatore incontrastato del mio mondo!) e allora finalmente si avvicineranno a casa mia, guarderanno dalla finestra, scorgendomi magari steso blu sul sofà come sonnecchiando, oppure abbatteranno la porta, sentendo forse un odore insolito (qui le pareti sono sottilissime, queste sembrano case costruite da gente di passaggio, consapevole di non potersi fermare qui per sempre) e mi scopriranno con disgusto, magari in qualche posa imbarazzante.
Pare ci dovrebbe essere anche un modo educato per morire, un modo educato per decomporsi, un modo educato per mettere a parte gli altri, impiccioni, della tua scomparsa, consentendogli il piacere di ricordarti, ficcare il naso nella tua vita, solo per un po’, senza il peso insopportabile della tua presenza. Ma anche l’assenza è presenza, e forse continuiamo tutti a essere presenti, talvolta invece la presenza è assenza. Personalmente spero di scomparire del tutto. Nessuno mi viene a trovare, tranne l’infermiera che mi viene a bucare il dito tutte le sere. Spererei di sentire quando sarà il mio momento e andarmi a perdere in un bosco. Anche Federico il Grande non aveva altri amici che i suoi cani. Io ho solo un cane.
Abito a Birchwood (bosco di betulle, secondo il significato letterale, ma le betulle non ci sono più, forse non ci sono mai state), un non-luogo, ai piedi delle alpi, il cui centro è costituito da due grandi supermercati, qualche ristorante da poco e una chiesa, con una strada al centro, costeggiata da due marciapiedi. Sono arrivato qui nel 1939, quando questo posto era ancora più desolato, ma la gente camminava di più ed era meno compulsiva.
Il nome stesso, bosco di betulle: un nome stupido, dato da gente che in realtà amava tagliare gli alberi per fare giardini. Uomini e donne affetti da un ottimismo ossessivo e insano, uomini in piedi, io sono da sempre un uomo “coricato”, quando ho cercato di alzarmi mi hanno ributtato nell’angolo.
In fondo sono anche naturalmente indolente e pigro, ho provato a lottare contro questa mia indole, fingermi un soldato, come avevo fatto nel 1914 (allo scoppio della Grande Guerra), ma già allora non ne avevano voluto sapere di arruolarmi, né in Baviera, né in Austria (patria per la quale avrei combattuto malvolentieri), troppo debole e in cattiva salute persino per fare l’ausiliario.
Questo mi diede un ulteriore colpo. Erano stati anni terribili, dalla morte di mia madre, avrei voluto buttarmi nelle braccia della guerra e della morte (non avevo mai tenuto un fucile in mano, solo pennelli e matite per disegnare e dipingere), mentre tanti miei coetanei si facevano piagare i piedi mettendo certe erbe negli scarponi o fumavano centinaia di sigarette al giorno, prima della visita di leva per il reclutamento, per ottenere di farsi esonerare.
Sognavo anche di vestire un’uniforme, con tante medaglie o anche solo una sobria e nobile croce di guerra, ho sempre avuto un debole per il tremendo gusto estetico che mi danno le uniformi militari, ne ho poi disegnate molte per i miei piccoli alunni, della scuola primaria di Birchwood, con loro grandi felicità e divertimento. Qualsiasi cosa pur di togliersi le loro uniformi scolastiche borghesi, che si divertono a sporcare e distruggere in tutti i modi possibili. Inoltre nel disegnare le loro divise fittizie potevano dare sfogo, nell’ora di disegno, a tutta la loro fantasia e io li lasciavo fare, anche se in realtà, all’inizio, avrei avuto certe idee da mettere in pratica e il loro entusiasmo mi dava un po’ sui nervi.
Tornando al 1914, ero apolide, avendo rinunciato alla cittadinanza austriaca e non avevo ottenuto quella prussiana. L’unica patria era stata mia madre, non avevo trovato una ragazza e nemmeno mi davo troppo da fare, dopo una grande delusione amorosa di nome Stephanie.
Di solito le ragazze pensavano fossi più vecchio, per il mio cattivo stato di salute e la mia trascuratezza, il mio tenore di vita non le invitava, mi scambiavano per un barbone, ed effettivamente lo ero. Il poco che avevo ancora in banca, dall’eredità di mia zia, lo spendevo per leggere.
La patria è qualcosa che deve andare oltre sé stessi e io non ne avevo, scartato due volte dall’Accademia di Belle Arti e dall’esercito, non avevo mete, se non in una certa idea di Germania, che molti giovani poveri diavoli come me condividevano, non avendo nemmeno un pezzo di pane, la mia generazione si nutriva di questi sogni di potenza, ereditati da Wagner, Goethe e Schiller. Avevo odiato la scuola, ne avevo cambiate diverse, anche per il lavoro di doganiere di mio padre, avevo ovunque incontrato compagni di scuola stronzi che non avevano fatto altro che inacuire la mia diffidenza verso il mondo, soprattutto ebrei figli di papà.
Senza licenza superiore non potevo iscrivermi a nessuna università, solo all’Accademia, che del resto era l’unica strada che sognavo davvero di percorrere, solo con l’arte mi sentivo appagato e tranquillo, non desideravo altro e non me lo volevano dare e non capivo cosa ci fosse di sbagliato nei miei quadri figurativi, nelle architetture perfette dipinte sulle mie tele, nei miei paesaggi rassicuranti e luminosi.
Al settimo anniversario della morte di mia madre decisi di tentare un’ultima volta la strada dell’Accademia, tornai quindi a Vienna e finalmente mi accettarono, forse grazie alla penuria di artisti degenerati, falcidiati dalla guerra. Quando mi avevano rifiutato le prime due volte avevo desiderato dentro di me, intensamente, di distruggere il mondo, ammazzare tutti quegli accademici, come credo qualsiasi giovane che sia derubato di un sogno.
Sono arrivato in Nuova Zelanda nell’ottobre 1939, dopo un interminabile viaggio per mare di più di un mese, passato a vomitare e battere i denti, coperto di stracci sudici, circondato da altri pezzenti come me.
Ero partito da Liverpool, dove avevo passato un paio di settimane a spese del mio odioso fratellastro di successo, Alois, che là aveva un ristorante. Era figlio del primo matrimonio di mio padre, il quale poi sposò in seconde nozze mia madre, per tradirla a sua volta con una serie di altre donne, picchiarla e ubriacarsi costantemente.
Il mio fratellastro è uno di quelli che nel mondo anglosassone si definisce “orientato al risultato”. Sfruttai tuttavia la sua ipocrita ospitalità da neocalvinista. In quei giorni inglesi avevo potuto frequentare alcuni ragazzi facili e disgraziati come me, con i quali condividere mezz’ore in rifugi di fortuna. Ero un cinquantenne non cresciuto. Francamente non ho mai avuto una tendenza sessuale chiara, dal primo rifiuto, della bionda Stephanie di Linz, mi sono innamorato indifferentemente di uomini e di donne.
Aspettavo di partire per la prima terra lontana che fosse possibile raggiungere da quel porto, ma dentro di me sognavo una terra di montagne, non sopportavo più la piatta landa inglese. Colsi al volo con gioia, quindi, la notizia di potermi imbarcare per la Nuova Zelanda, dall’altra parte del mondo, mentre nella vecchia marcia Europa capitalistica socialista giudaica corrotta e borghese, un’altra guerra mondiale stava per scoppiare. Un’altra guerra che riguardava solo l’Europa, ripiegata sul proprio ombelico.
Con il mio diploma dell’Accademia di Belle Arti avrei potuto sicuramente insegnare disegno in Nuova Zelanda. Avrei potuto mandare ognitanto qualcosa alla mia povera sorella Angela, per aiutarla a mantenersi e a mantenere i suoi figli. Eravamo entrambi sempre stati molto affezionati e amavo anche i miei piccoli nipoti.
Quando arrivai a destinazione, dopo un viaggio infernale, ricevetti lo status di rifugiato politico. Con me c’erano tanti altri tedeschi, nelle mie stesse miserrime condizioni e che forse come me avevano fatto parte del partito negli anni ’20, forse fino al suo scioglimento, imposto da Schleicher nel 1933.
Nessuna scuola mi aveva mai voluto in Germania come maestro di disegno, con la crisi che c’era il personale se mai si tagliava, si mandava a casa, certo non si prendeva nessun nuovo. Invece, giunto in Nuova Zelanda, fui destinato subito alla scuola primaria di Birchwood.
Ricevetti una casa con un piccolo giardino, dalla scuola, non lontano da essa. Nella mia valigia avevo solo portato tre camicie lise, un pentolino, un maglione di lana spessa, la foto di mia madre e il ritratto di Federico il Grande, da cui non mi sono mai separato, pennelli e tele, quaderni, il mio manoscritto che avevo cercato di pubblicare senza successo in Germania, che pensavo di intitolare “La mia battaglia”, le memorie del mio tempo in prigionia dopo i disordini del 1923, ai quali avevo partecipato, come leader del nostro piccolo partito nazionalsocialista.
Forse, pensavo, in Nuova Zelanda, se il mio inglese fosse migliorato da poterlo tradurre, avrei potuto proporlo ad un editore, far conoscere la visione di un giovane della mia generazione dalla decrepita Europa, ma ben presto abbandonai l’impresa. Non sono mai stato davvero costante nei miei propositi.
Birchwood sembra a prima vista un posto deserto. Le relazioni sociali sono rare e non ci si fanno mai confidenze, forse nemmeno con sé stessi. Con i miei vicini non ho mai avuto problemi, non hanno mai voluto sapere fino in fondo chi fossi, ma mi hanno donato un nuovo guardaroba e ho potuto buttar via i miei quattro vecchi stracci.
Qui tutti rifiutano qualsiasi problematizzazione della vita, vivono senza sensi di colpa, se ne sbattono di cose come la cultura, tutto viene spontaneo, come le funzioni biologiche elementari. Ho alcuni alberi da frutto che mi nutrono in ogni stagione, senza troppa fatica, mi accontento di poco e anzi ne regalo ancora ai miei vicini, quando capita, quando rimango a scrutare la strada e i tramonti, accanto alla mia staccionata con la lavanda.
Posso senza difficoltà seguire il mio regime vegano intrapreso nel 1930, come voto. Allora avevo ancora una fede fervida, che ho perso con la maturità (avevo sognato di farmi prete).
Come dicevo, ho un cane bastardo, che come Schopenhauer chiamo Uomo. Mi dà gusto potergli dire: Uomo siediti! Uomo vai via!! Uomo fai questo, fai quello! Mi fa sentire superiore a tutti gli uomini. In realtà il cane è senz’altro superiore a me ed a qualsiasi altro uomo. Niente a che vedere coi pastori tedeschi, ma un leale compagno nella battaglia della vita, tanto più dura in un luogo come questo, tanto privo di conflittualità, dove la vita è così semplice da essere impossibile.
Finchè ho insegnato, le giornate a scuola si ripetevano identiche, con i miei bambini che mi hanno sempre voluto molto bene, ma a nessuno di loro interessavano i miei palazzi o i miei paesaggi, perciò avevo imparato a disegnare per loro anche qualche animale. In primavera uscivamo a fare passeggiate e a raccogliere fiori da mettere nei vasi in classe, per dipingerli.
Per un periodo veniva sempre a farci visita nel giardino della scuola un maestoso fagiano maschio. Ogni mattina, puntuale, arrivava. Devo dire, ho sempre avuto seri problemi relazionali con gli adulti, per una mia forma di ipersensibilità e un’acuta suscettibilità, ma forse per questo mi sentivo così in sintonia con i bambini, naturalmente introspettivi, dotati di un linguaggio essenziale e primitivo, fatto ancora di gesti ed espressioni, una comunicazione naturale ed elementare. Ho sempre avuto doti mimiche e con le mie pose e le mie smorfie sono sempre riuscito a far ridere i piccoli a crepapelle, fingendomi un solenne condottiero, mentre non avevano sortito effetto ai miei comizi con gli adulti, in Germania.
Ebbene fu proprio per quel fagiano che persi definitivamente qualsiasi rapporto con il mondo degli adulti. Un giorno infatti lo stavamo aspettando alla finestra e lo guardavamo come ogni mattina, quando qualcuno gli sparò, con un fucile, i bambini scoppiarono a piangere atterriti. Aveva spiccato il volo, sentendo il pericolo nelle viscere, ed era ripiombato a terra sulla schiena, stecchito. Ero uscito precipitandomi con odio addosso a quello sprezzante esemplare umano che aveva spezzato una vita tanto gentile. Come se non bastasse l’ignorante pensava di aver catturato un pavone! Io non gli feci nulla, ma quello mi assestò un pugno che mi mandò in frantumi la mandibola, che mi aveva già distrutto da adolescente mio padre. Ebbi una tale crisi di nervi che mi diagnosticarono una profonda depressione e mi misero per alcuni anni in un ospedale psichiatrico, dopo avermi medicato la mandibola.
In ospedale veniva sempre a trovarmi un prete, desideroso di dissertare con me di politica, forse era l’unico a sapere qualcosa di me. Ma io non ne volevo più sapere.
Non mi sono mai sentito felice come in manicomio, quando finalmente la mandibola si mise a posto. Avevo soldi che non sapevo come spendere e spedivo a mia sorella, con una cartolina di tanto in tanto. Lei una volta riuscì a spedirmi una cartolina dalla nostra Braunau, con poche righe. Forse non mi aveva mai perdonato per essermene andato. Avevo nuovamente tempo per leggere moltissimo.
Ebbi modo di ripensare al mio passato.
Nel 1939 ero un ricercato, per ragioni politiche, in Germania. Avevo persino dovuto tagliarmi i baffi. La storia è un concatenarsi di errori inutili e idolatrìe.
Durante gli anni della Seconda Guerra Mondiale ho frequentato radicali e pacifisti in Nuova Zelanda, rischiando più volte di essere nuovamente espulso anche da qui.
Rimpiango quando il tempo era immobile a Braunau. Non ho mai più voluto parlare il tedesco di Braunau, né parlare del mio paese natale. Talvolta sogno di andare in gita con una comitiva in Austria e prendere una bicicletta per raggiungere Braunau e perdermi felice in un tempo che non esiste più né esisterà mai più e conservo solo sigillato nel petto e sparirà con me, con i miei sogni di grandezza che non hanno nuocciuto a nessuno. Non potrei dipingere Braunau, la mia Braunau, senza commuovermi. Non ho mai più ceduto alla tentazione e dipingo quasi solo alberi e montagne.
Forse un tempo il mio cuore mi ha salvato dalla materia, dal potere e da me stesso, anch’io ho avuto un cuore e chissà se non mi avesse salvato, cosa sarei potuto diventare in quei tempi bui. Ma con quante delusioni e frustrazioni ho pagato il mio diritto a respirare.
Non ho mai superato il lutto di mia madre. Superare il lutto, espressione di moda. Non credo neanche di volerlo superare e non posso perdonare quell’ubriacone fedifrago di mio padre, sempre così distante, impietoso, allineato col pensiero maggioritario, insensibile, arroccato senza mai un gesto o un’espressione affettuosi, sadico nello scoprire mille modi di torturarci, picchiarci, opprimerci, umiliarci, perseguitarci. Come se non bastasse, non si è mai ricordato un compleanno né mio né di mia sorella, né del nostro povero fratello morto ancora bambino.
La morte di mia madre è stata la mia vera morte. Non temo la mia morte personale, che mi appare in realtà solo come una finzione. Forse avrei dovuto tagliarmi le vene invece di mettermi a scrivere. Ma vedo lo scrivere queste cose come una sorta di espiazione della colpa per il dolore che ho inflitto a mia madre con la mia perseverante inconcludenza negli studi e per il mio disimpegno nel lavoro.
Con il dolore costante per la sua assenza, tanto forte da essere quasi presente, espierò, per tutta la vita che mi resta da vivere, tutto l’amore che ha riversato su di me, un fardello troppo pesante per le mie gracili spalle, io troppo fragile per difenderla dalla crudeltà di mio padre, al quale pensarono il destino e la tubercolosi, a toglierlo da questo mondo.
Mia madre morì di cancro solo un paio di anni dopo questa liberazione. Il mio dolore taglia la carne, buca le ossa e lo stomaco.
Mi hanno sempre rimproverato di scrivere lettere troppo lunghe e fare discorsi infiniti. Il mio preside a scuola, un tedesco come me, fanatico del calcolo e dei risultati, mi sbatteva sempre in faccia di essere semplice. Come fa qualcuno a definirsi “semplice”, con tanta arroganza? Io sono il più grande sconosciuto a me stesso, ognuno è complesso, un abisso, imprendibile, come si può pensare di essere semplici?
Per forza devo scrivere o parlare molto per potermi spiegare, le cose sono così complesse e problematiche, che neanche tante parole riescono a rendere quello che sento. Ogni parola rischia di essere una menzogna, poiché non dice quasi niente di ciò che sento profondamente. Come si può pretendere verità dai discorsi? Come si fa a credere alle parole? Eppure che sensazione quando alla birreria di Monaco avevo quei tre o quattro studenti che pendevano dalle mie labbra.
Solo la musica, l’arte e i bambini sono degni di fiducia. Vedono senza fatica oltre la crosta delle cose, non si accontentano delle apparenze, esprimono sentimenti e significati profondi. Ma la vita si allontana da questo, siamo tutti sopravvissuti alla fuga dello Spirito. Ognuno un frammento postumo, un corrispondente, un esiliato, un sospetto.
È anche incredibile come negli anni ci si possa sorprendere di sé stessi. La follia è distribuita un po’ a casaccio nel vasto mondo.
Mi sono sentito perseguitato dal mondo intero, ho odiato l’umanità fuori e dentro di me, ho desiderato essere allo scranno del potere del mondo per distruggerlo. Ma questo non è un Superuomo, per Nietzsche il Superuomo è un bambino, un piccolo bambino che con incanto ama e accetta il suo destino, tanto da desiderarne la ripetizione all’infinito. Dio mi salvi dalla ripetizione infinita del mio destino. Ma quant’è vero che gli unici superuomini siano i bambini, si dovrebbe rimanere bambini per sempre, sarebbero i bambini i superuomini, se solo potessero rimanere intatti, senza essere rovinati dai genitori. Perciò non ho mai voluto avere figli.
Quando sono arrivato a Birchwood, questa cittadina di ebrei, ho pensato fosse uno scherzo del destino. Ho odiato gli ebrei con tutto il mio cuore, ho sognato un’Europa senza di loro, come buona parte dei miei coetanei non-ebrei, in Germania e in Austria e nel resto d’Europa e forse del mondo. Ho scritto pagine piene di odio anti-semita. Non so cosa sarebbe potuto succedere se fossimo andati al potere nel ’23, quando tentammo il putsch a Monaco. In prigione scrissi quel mio libro che nessuno ha mai voluto leggere né pubblicare, pieno di odio anti-semita, ma anche con diversi altri spunti di riflessione, visioni e osservazioni sul mondo di allora, che forse un giorno qualcuno scoprirà e pubblicherà postumo, come una “profezia”.
Comunque se già eravamo pochi nel ’23, quando uscii di prigione, nel ’30, eravamo ancor meno. solo un’amnistia ci avrebbe forse potuto permettere di capitalizzare la nostra popolarità del momento e rimetterci al lavoro. Sette anni in prigione senza possibilità di comunicare con il mondo fuori, sono infiniti.
Eravamo un pugno di reduci di guerra, di studentelli e disoccupati nazionalsocialisti che sognavano di cambiare il mondo e di disperati avanzi di galera che vivevano di espedienti, con sempre minor interesse per i miei comizi clandestini negli scantinati delle birrerie di Monaco, laddove ancora ci lasciavano entrare, malgrado i nostri cospicui debiti.
Il nostro obiettivo era stato certo anche cacciare gli ebrei, sfruttarli come capri espiatori della situazione, ma trasferirli in un altro luogo lontano dall’Europa, come del resto desideravano anche i sionisti. Ma soprattutto volevamo una revisione degli ingiusti trattati di Versailles, così anche i russi, gli ungheresi, gli italiani, eccetera. Chiedevamo come nazionalsocialisti la cessazione immediata delle sanzioni di guerra che affamavano il nostro popolo, il ricongiungimento con le minoranze tedesche disperse e perseguitate in tutta l’Europa orientale e desideravamo metterci al lavoro per costruire un grande stato sociale per i lavoratori tedeschi, ridare lavoro e dignità al nostro popolo, vinto e umiliato. Ci sentivamo gli “avvocati difensori” del popolo tedesco, chiamati a fare pulizia nella vecchia politica, tagliare privilegi, seppellire i vecchi partiti, invocare la democrazia plebiscitaria diretta. Salvo l’internazionalismo, avevamo notevoli punti di contatto con i comunisti tedeschi, per questo eravamo entrambi invisi alle elites e ce le davano e ce le davamo di santa ragione. Ma non avremmo mai ammesso di essere dei comunisti nazionalisti. Ci davamo la caccia a vicenda.
Del resto, a differenza dei comunisti, non abbiamo mai messo insieme più di qualche centinaio di voti. Abbiamo avuto solo la stima di qualche originale sparso per il mondo e l’odio del fascismo italiano opportunista, che per un certo periodo avevamo preso a modello.
Fu proprio nel 1933 che il generale Schleicher, ond’evitare una crescita di consenso per i comunisti e scongiurare la loro alleanza con la social-democrazia, mise in atto un colpo di stato militare e si proclamò fuhrer, sfruttando i perfetti meccanismi democratici della costituzione repubblicana weimeriana e dei suoi tecnocrati. Schleicher depose il vecchio presidente von Hindenburg, sostituendolo con von Papen, votato da tutto il popolo tedesco, poi misero al bando il partito comunista e quello nazionalsocialista, di cui i segretari dimissionari Drexler e Harrer mi avevano di recente lasciato la patata bollente della segreteria, essendo in caduta libera nei consensi.
Schleicher ebbe fin da subito il plauso degli USA e della Gran Bretagna, nonché del Vaticano, cui era caro von Papen.
A quel punto i miei fedelissimi Goebbels e Himmler mi abbandonarono e rimasi solo con qualche barbone a Monaco. Furono altri anni di stenti, braccato dalla polizia come criminale politico. Nessuno mi voleva per nessun lavoro, cambiavo spesso identità e ostello, vagando per tutta la Baviera.
L’organizzazione crociata di Himmler intanto acquistava popolarità fra i giovani, le nostre formazioni paramilitari, le SA, non erano neanche più prese in considerazione dalla polizia come elementi di pericolo, i pochi rimasti sarebbero stati uccisi dalle SS di Himmler, che frattanto andavano a distruggere e saccheggiare negozi ebrei e venivano affiancate alle forze dell’ordine, nel tentativo del fuhrer Schleicher di gratificare il salto di Himmler ed il suo sostegno al nuovo regime istituzionale.
Noi nazionalsocialisti, per le nostre idee sociali, eravamo stati osservati speciali, chiunque compisse il salto, tradendo il partito, e vendesse il nascondiglio di qualche camerata, veniva lautamente ricompensato. Gli ultimi comunisti e nazionalsocialisti furono ghigliottinati o internati a vita ai lavori forzati. Io, come dicevo, riuscii a nascondermi usando una serie di identità false, che mi fornivano i servizi segreti inglesi. Infatti, gli inglesi, al di là del loro appoggio di facciata, a Schleicher, tenevano strettamente d’occhio ogni mossa tedesca e non disdegnavano un aiutino a qualche oppositore politico, senza dar troppo nell’occhio. Fu così che infine fui accolto in Gran Bretagna come rifugiato.
La Germania, riaccolta nel consesso delle potenze, una volta rimessi al trono gli Hohenzollern, nel 1935, fu riarmata dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna, per muovere guerra, insieme alla Polonia, contro l’Unione Sovietica, con la missione di andare a consolidare il potere dell’alleato Stalin e scongiurare il pericolo di Trotzky, che controllava buona parte delle repubbliche centrali, mentre Mussolini, sfruttando il momento di distrazione internazionale, invadeva indisturbato l’Etiopia e l’Albania.
L’operazione tedesco-polacca in Russia fu un successo lampo e portò la Polonia a occupare Bielorussia, Ucraina e Paesi Baltici, spingendosi fino alle porte di Mosca, ripristinando i confini del 1610, che il maresciallo Pilsudski aveva sognato di riprisitnare già nel 1920.
Trotzky fu catturato e ucciso dai servizi britannici. Stalin ottenne in cambio della perdita dei territori europei, l’instaurazione di una repubblica sovietica in Andalusia, consentendo un controllo incontrastato dello stretto alla Gran Bretagna, mentre la Spagna si divideva in tanti piccoli regni e repubbliche a causa della guerra civile. Dall’altra parte anche la Germania procedeva con l’annessione di Cecoslovacchia, Austria e Ungheria, rinunciando alla Sahr e alla Ruhr, a vantaggio della Francia, finalmente rassicurata.
Ma una Francia e una Germania troppo forti non piacquero alla Gran Bretagna, la quale, con Mussolini, fomentò una resistenza anti-tedesca in Austria e in Ungheria e occupò la Bretagna, la Normandia e la costa baltica tedesca, con il nulla osta di Washington e con il potente aiuto militare della Polonia. Era il settembre 1939, gli ultimi nazionalsocialisti superstiti e tutti gli oppositori tedeschi furono accolti in Gran Bretagna attraverso un corridoio umanitario nella Manica, con messa a disposizione di imbarcazioni di ogni genere.
Alla fine della guerra, che durò dieci anni e vide contrapporsi Gran Bretagna e Polonia contro Francia e Germania, la Francia è stata ridotta a un terzo ed è tornata una monarchia con un erede di casa Orleans, a vantaggio dell’Italia mussoliniana, entrata in guerra all’ultimo momento, e della Catalogna e della Navarra, piccoli stati che si sono notevolmente espansi. La Germania invece è stata spartita fra Gran Bretagna, Polonia e Austria. L’occhialuto Himmler, è ormai l’uomo di fiducia di Londra nella loro parte di governatorato (quell’uomo è riuscito ad ammaliare chiunque, senza valere niente, ed ha magnifici rapporti con Washington e con Roma il Vaticano).
Gli Absburgo sono stati ripristinati sui troni di Vienna e di Budapest, come gendarmi dei Balcani, insieme al vecchio Mussolini e a suo genero, il generalissimo Ciano, suo delfino e sicuro erede. La Cecoslovacchia passata di mente a tutti. Quattro secoli di storia finiti nel gabinetto.
Dall’altra parte del mondo, nel Pacifico, la Cina si è divisa, come sappiamo tutti, in due stati, una repubblica a sud e un impero a nord, il Giappone è diventato il cinquantunesimo stato degli Stati Uniti, dopo un intervento preventivo statunitense che in quattro e quattr’otto lo ha messo in ginocchio, nel 1935.
Quando ebbi modo di leggere cosa era accaduto agli ebrei, in Europa orientale, durante l’avanzata polacca, rimasi senza parole e mi commossi. Le atroci efferatezze che avevano subito e come erano stati spazzati via dai massacri di massa delle truppe polacche, unite alla libera violenza dei locali. E le fabbriche della morte costruite da Himmler, dove gli abili al lavoro venivano deportati in massa per essere schiavizzati e spremuti per poi essere buttati via, eliminati. Per alcuni turbo-capitalisti odierni, un’esemplare modello di catena di montaggio, che necessiterebbe solo di un maggiore “focus sul cliente”, qualche aggiustamento qua e là, qualche distrazione in più per i lavoratori schiavizzati.
Il tutto era del resto accaduto con la complicità del mondo intero. In quel momento mi sorpresi di me stesso, ma decisi fermamente che non avrei mai più odiato gli ebrei. Non erano stati loro i responsabili delle sciagure del mio paese, i fatti lo avevano dimostrato inequivocabilmente, le cose si vedono bene solo da lontano. Anche il medico che aveva curato mia , in fondo, era ebreo.
D’altra parte, da fuori, da questo sicuro angolo di mondo, posso permettermi oggi di giudicare questi eventi, avendo il privilegio di non aver mai combattuto una guerra, né mai ricevuto l’ordine di uccidere, ma non so cosa avrei potuto fare se avessi avuto anche solo una briciola di potere nelle mani, nei miei anni più bui, in mezzo a reduci di guerra assetati di vendetta.
Oggi sono troppo vecchio per poter fare questi esercizi mentali e provare a sentirmi qualcun altro, immaginare cosa avrei potuto essere. Una volta ho sognato di andarmene nell’aldilà, dove un morto mi faceva vedere che in un’altra dimensione sono stato un crudele dittatore, uno dei più crudeli, forse il più crudele, ho guidato il mio paese alla distruzione e sterminato con la tecnica interi popoli. Mi sono svegliato sudando freddo. Tuttavia posso dire di essermi convinto che tutti ci troviamo su un sottilissimo strato di ghiaccio, un sottilissimo confine fra saggezza e pazzia, è la natura umana il problema, è il poter che va scagliato dalle mani, rifiutato, superato, altrimenti chissà quante nuove catastrofi e sciagure ci aspettano, per di più nell’era impersonale della tecnica a tutto campo. L’uomo non può essere strumento del potere, il potere può far compiere qualunque cosa, è una grande tentazione.
Se un uomo si trova nelle condizioni di compiere un’azione crudele, senza disapprovazione sociale, la farà, se un uomo può prendere una cattiva scelta la prenderà, se può schiacciare la testa a uno più debole lo farà, imporrà la propria superiorità, mentre se qualcuno sarà nelle condizioni di schiacciargli la testa e sottometterlo, quello stesso uomo si sottometterà al più forte. La natura umana è di obbedire o comandare, piaccia o non piaccia, non c’è altro da sapere sull’istinto umano, così funziona l’umanità e talvolta è guidata dai peggiori.
Il potere trasforma gli uomini in cose, l’unico antidoto sarebbe esercitare una dittatura su sé stessi, per passare attraverso le frustrazioni e i mancati riconoscimenti, talvolta basterebbe essere riconosciuti. La mia vita è stata un calvario di emicranie, crisi depressive e isteriche, fallimenti, panico, malinconia esistenziale, mancati riconoscimenti.
I primi tempi della scuola a Birchwood, fu soprattutto un mio studente, che per i colleghi aveva dei problemi psichici, a richiamarmi dalle mie profonde tenebre, si chiamava Tom.
Era l’unico a non credere alla mia favoletta che i nasi se ne vadano di notte a passeggiare per i fatti loro (come raccontava Gogol’). Tom disegnava di continuo qualunque cosa gli passasse per la mente, ma concepiva anche misteriosi piani dettagliati e precisi per le più strane missioni, disegnava mappe, piantine, città immaginarie. Disegnava con grande rapidità e poi rimaneva per lunghi attimi assente, fissando il vuoto. Ma il vuoto non era vuoto per lui. Non parlava mai con nessuno, ma con me parlava spesso, soprattutto di storia ed io lo ascoltavo, i bambini non sono sacchi da riempire e per essere buoni adulti avrebbero solo bisogno di poter fantasticare liberamente ed avere qualche riconoscimento.
Tom aveva sempre vestiti sporchi, croste di sporco di settimane, unghie lunghe e nere. Portava sempre nel suo zainetto un cagnolino, un amico inseparabile per lui. Lo dovette lasciare qui, affidandomelo, quando lasciò la sua casa con sua mamma, se ne andavano chissà dove, con qualche mobile scalcagnato legato su un pick-up. Il padre era un violento, che cosa ne sarebbe stato di quel ragazzo in un’altra epoca, come oggi? E cosa sarà diventato se nessuno lo avrà fatto sentire amato, buono, importante, se come “debole” avrà dovuto farsi una corazza di chissà ché, contro i “forti”, sarà condannato per tutta la vita a sentire un’insopprimibile sete di vendetta, un legittimo desiderio di rivalsa? Si trasformerà in uno specchio, forse peggiorativo, dei suoi carnefici? O nel loro capo? E li guiderà contro qualche nuovo capro espiatorio? Questa è la storia del mondo e lo sarà fino a quando non cesserà la prepotenza. Fino a quando non ci sarà un’autorità che nasca solo dallo Spirito, altrimenti un attore del potere varrà un altro, morto più morto meno, rapinato più rapinato meno.
Prima che il padre venisse a riprenderselo come un pacco e trascinarlo di peso per un braccio, Tom era passato a salutare il suo maestro e mi ha affidato il suo cucciolo, come ciò che aveva di più prezioso e il cucciolo si è abituato alla mia casa ed è cresciuto con me. Ho avuto molti altri cani dopo di lui, ma lo ricordo ancora con affetto.
Il nonno di Tom è un pastore che vende grappa porta a porta, per attirare fedeli. Io non bevo dalla pesante sbronza che presi quando terminai finalmente la scuola dell’obbligo. Non bevo, mai fumato, seguo una dieta vegana, per molta gente oggi sarei un politico ideale, l’uomo politico del futuro, che sta in agguato, aspettando il suo grande ingresso sul palcoscenico del mondo. Per fortuna per me la politica non è mai stata più che un passatempo in anni tetri e fortunatamente lontani.
Avrei voluto farmi prete, da bambino, ero infatuato dai riti ecclesiastici e dall’incenso bruciato. Ma oggi, quando penso a Cristo in croce per l’umanità, dico: ma chi glielo ha fatto fare? Gli uomini sono pentole a pressione che scivolano su una lastra di ghiaccio, pronte ad esplodere. Quante me ne sono prese dalla polizia, se uno pensasse ai danni che provoca una forza di polizia, comparati con i vantaggi, i primi sopravanzerebbero sicuramente i secondi.
Non c’è genetica, non c’è storia, non c’è cultura, o meglio tutte queste cose sottostanno al caso e al destino, il destino è dato dalle esperienze, offerte da una concatenazione assurda di casi, siamo burattini abitanti del caso, delle circostanze, delle realtà alle quali dobbiamo resistere, dei ruoli che ci troviamo chiamati ad interpretare, delle maschere che gli altri vogliono che indossiamo, delle azioni e reazioni che casi fortuiti, circostanze e esperienze vissute ci mettono nelle condizioni di compiere. Nessuno nasce dittatore, nessuno cambia il corso della storia, senza essere inebriato dal consenso e dall’approvazione, il dittatore è una reazione collettiva, una circostanza, uno spillo, una fatalità, il male esiste comunque e ogni uomo nel suo piccolo è un guscio di noce nel mare.
Tom ed io ci divertivamo a inventare equazioni assurde, l’impatto dell’arte sulla benevolenza delle persone, con opere d’arte viste e buone azioni compiute, come fattori.
In un gruppo di persone se qualcuno chiede chi ha rubato qualcosa, sono gli innocenti a sentirsi subito in colpa e toccarsi le tasche, come hanno dimostrato alcuni esperimenti.
Mi specchiavo in Tom. Facevamo lunghe passeggiate insieme, dopo la scuola e passavamo lunghe ore in silenzio, in un luogo segreto che conoscevamo solo noi, al lago, aspettando che uscisse un ornitorinco. E un tempo, come molti pensavano e pensano ancora oggi, credevo che quelli come Tom avrebbero dovuto essere soppressi o abortiti.
Non potrò mai considerare uno studente un “cliente”. Questo ho detto a un vecchio giornalista yankee, qualche settimana fa, un radical chic in vacanza da queste parti con la moglie, che mi ha scoperto e mi ha voluto intervistare, come un mostro raro, per una rivista patinata, pseudo-impegnata para-intellettuale, che leggerà qualche suo amico, in un certo circolo del golf, frequentato da gente che vive al di sopra delle proprie possibilità e delle possibilità del pianeta e si incontrano i venerdì sera fingendo di salvare il mondo con abbondanti libagioni con il tema della fame nel mondo, sullo sfondo.
Titolo: L’ultimo nazional-socialista, vive in Nuova Zelanda, alle pendici del monte tal dei tali. Quanti alberi uccisi per questi stupidi bordelli di pensiero.
Gli americani, stanno alla cultura come un elefante in un negozio di porcellane. Hanno devastato il mondo con la loro smania di fare e di crescere all’infinito, costruire, consumare, depredare, svelare tutto. Rappresentano il nuovo che avanza e deve subito lasciare spazio ad altro nuovo più nuovo e sacrificano lo spazio per la vera vita, per lo Spirito, per contemplare angoli di assenza dell’uomo, dove la vita animale e vegetale non sia ancora sfruttata, mercificata, perseguitata dall’uomo, dove l’uomo possa ancora trovarsi come io unico.
Chiunque fermasse questo processo, che appare sempre più inarrestabile, sarebbe un eroe o un martire. E chiunque può essere un mostro, o il mostro. C’è un mostro in ciascuno di noi, dipende da casi fortuiti che si svegli, che si manifesti o meno. La civiltà finge di ignorarlo, in questa dimensione, dove non esiste più un orizzonte perché tutto è realizzato e a portata di mano, dove chiunque non si senta felice è un “terrorista”, chi non corrisponde a certi parametri è da gettare, chi non ama la tecnica è fallato, ma quale diavolo può aver concepito un sistema del genere?
Chi ci può vivere senza rendersene conto, senza ribellarsi, senza credere in qualcosa di drasticamente diverso?
Questo è l’inferno, l’atomizzazione dell’Essere.
Passo i miei pomeriggi nel cortile del centro anziani, dove la mia vicina di casa, una psichiatra, anziana anche lei, anche se non sembra, mi ha costretto ad andare con il ricatto che altrimenti non mi avrebbe fatto cremare e non si sarebbe presa cura delle mie memorie. Chi se ne importa. Qui non parlo con nessuno, la gente è di una superficialità spiazzante. Sono tornato a dipingere le mie città immaginarie (mentre un certo Speer, amico raccomandato di Himmler, è diventato l’architetto più celebrato negli Stati Uniti, ho letto). Dipingo diversi quadri al giorno che accatasto come una formica e forse non vorrà mai nessuno. Non riesco a camminare neanche più con il bastone, ho bisogno di chi mi cambi il pannolone, mi metta le supposte. L’unico atto di protesta che mi è rimasto è fare la cacca un po’ per volta, sogno di indisporre le assistenti al punto che mi ributtino a casa. Mi danno da mangiare sempre carne e non la voglio mangiare, perciò la nascondo nel cassetto del comodino e ce la lascio marcire.
Dipingo architetture neoclassiche, immaginarie città imperiali, visioni che mi accompagnano da sempre, ora più nitide, forse perché mi avvicino al mondo dei morti. Mi sono sempre sentito a dir la verità più prossimo al mondo dei morti, che a quello dei vivi, che spreco la mia vita!
Mi sento così solo. Sono prigioniero del passato fin dall’infanzia, anche del passato che non ho vissuto, non ho mai avuto fibra di tuffarmi nel futuro e oggi aspetto impaziente la fine.
La galleria d’arte locale non vuole più miei quadri, hanno già probabilmente buttato via gli altri. Solo la mia vicina di casa dimostra un interesse ossessivo nei miei quadri. Forse li studia dal suo punto di vista psichiatrico. Comunque è molto gentile e colta, e si ferma con me a conversare, forse ad analizzarmi, mi porta del tè, che odio, malgrado il fascino per il mondo orientale, ma fingo mi piaccia.
Quindi in definitiva davvero nessuno, è mai stato interessato alla mia arte solo per il gusto di guardarla.
Per fortuna, così nessuno li ha mai davvero valutati, ovvero ridotti a denaro. Se il denaro è l’unica scala di valore, tutto è in vendita, tutto ha solo un senso quantitativo e non c’è Dio che possa salvarci.
Durante la mia permanenza all’ospedale psichiatrico, i medici che mi esaminarono ebbero modo di diagnosticarmi una serie di malattie, anche veneree, trascurate negli anni, scompensi ormonali, disturbi dati dal mio uso combinato di morfina e anfetamine, dall’assenza di proteine animali nella mia dieta. Quando mi dimisero, fui introdotto in una sorta di lavoro protetto, presso un convento di suore vespasiane. Mi facevano fare il giardiniere ed ero un disastro, mi tagliavo sempre, sono sempre stato un imbranato. A tal punto che attrassi la compassione di una ragazza mulatta di cui mi innamorai perdutamente, alle soglie dei settant’anni. Un giorno la invitai a prendere un caffè e le dedicai una poesia, ma poi non avevo soldi per offrirle la consumazione e mi offrì lei. Fu il più bell’amore platonico della mia vita, passammo la giornata intera a pescare in un fiume, lei sapeva pescare con le mani, ne prendeva anche due per volta. Ebbi modo di rivedere le mie opinioni sulle razze.
Era già orfana, in giovane età, com’ero stato io. Non si può che amarsi fra chi ha qualche ferita. Parlammo fino a notte fonda della libertà, scoprendo una profonda sintonìa. Fummo d’accordo sul fatto che gli uomini e le donne non se ne facciano niente della libertà, ancor meno della democrazia. Cosa se ne fa un uomo della libertà di essere obeso, idiota, ignorante, stronzo? L’uomo reclama un significato, il tempo è un mare troppo grande per essere attraversato senza una bussola, fosse anche quella offerta da una religione, da una fede fanatica che dia il potere di spostare le montagne. La democrazia non coltiva le idee, fa lo stesso che fa una qualsiasi altra fede, dà una bussola, un significato che pretende di essere ancora più definitivo delle altre fedi, altrimenti solo un pugno di masochisti la seguirebbe coscientemente, anche perché i significati che alla lunga può permettersi di cercare e offrire una democrazia capitalista non possono che essere i più facili e quindi i più stupidi, peggiorandoli di generazione in generazione, offrendo anch’essa un’idea di superiorità, ma mercificata, accessibile attraverso le vie meno faticose e selettive, dalle masse più vuote, pigre e anti-estetiche, in forme che anestetizzino lo Spirito e il fuoco sacro. Forme di un mondo in cui sia tutto utile o inutile, bianco o nero, buono o cattivo.
Per sentire, invece, bisogna contemplare le radici, e di antico non vi sono più che le stelle. Posso stare ore nel buio assoluto, con il naso in su, quando tutti già dormono da ore.
La ragazza mulatta ed io passammo la notte a guardare le stelle. Lei sapeva che sarebbe morta qualche settimana dopo. Quando fui finalmente libero dal mio lavoro riabilitativo al convento, fui aiutato dalla federazione dei pescatori che fecero una colletta per comprarmi un biglietto dell’autobus per attraversare lo stato e tornare a Birchwood. Sull’autobus, come se non bastasse, fui tormentato tutto il tempo da un’orchestra gipsy in viaggio con me.
Talvolta passa un vecchio studente accanto al cortile del centro, e mi saluta, non c’è niente di più bello che essere chiamato e riconosciuto dai propri discepoli, anche a distanza di anni. Tuttavia sento più affinità con queste gazze che stanno facendo il nido fra i rami del platano secolare in cortile, che con qualsiasi essere umano che mi circondi.
Non tutti hanno il carattere o la nobiltà di spirito per guidare i popoli, è una questione di circostanze storiche e destino, tutti vorremmo diventare famosi, pare, avere un po’ di potere da esercitare su qualcun altro, ma le circostanze possono anche salvarci da questo istinto. I tempi interessanti sono quelli più duri da vivere e chi guida le folle interpreta i sogni delle folle, belli o brutti che siano.
Per me l’eternità è stata mia madre, il tempo era immobile finchè c’è stata lei. Ma quella piccola mulatta fu un pezzo di eternità sul mio cammino, mi insegnò a non disprezzare gli altri popoli e mi fece capire, alle soglie dell’anzianità, che in realtà l’unico popolo che odiavo veramente era il popolo tedesco, così nichilista, che anche Nietzsche aveva detestato e che non era stato in grado di valorizzare i suoi geni migliori, e come Nietzsche odiavo il tedesco che era in me. Capii anche che di solito nell’odio per gli altri si odia veramente solo sé stessi. Odiavo tutte le angherìe che avevo subito in Germania e quella parte di me, un tempo predominante, pronta a predicarne altrettante, se fossi riuscito a prendere il potere, per vendicare i torti subiti, ai danni di altri in cui ora, così vecchio e malconcio, non posso che specchiarmi, essendomi disintossicato dalle droghe e dagli psicofarmaci che mi hanno accompagnato per decenni.
È così difficile essere uomini e diventare adulti. Sono sempre stato insofferente all’autorità perché in realtà tutti desideriamo essere uniche autorità, arbitri in terra del bene e del male. Abbiamo perso il senso di parentela con gli alberi, che immobili lasciano che l’Essere sia e vivono lo scorrere del tempo come se non esistesse. Ci affanniamo a incendiare e gassare formicai nei cortili, mentre gli alberi si lasciano percorrere da parassiti, senza ribellarsi. Avrei dovuto essere aiutato prima da qualche psichiatra, ormai è tardi per rispondere a domande idiote del tipo: ha brutti pensieri? Ha desiderato farsi del male? Per anni solo le anfetamine mi hanno riscosso dal mio torpore autodistruttivo. Ho sempre desiderato autodistruggermi, non esistere. Ma sono anche stato spesso tentato dal desiderio inconfessabile di visitare il mondo dopo una catastrofe nucleare di scala planetaria. Ma nel mondo delle statistiche il mio problema personale non esiste, siamo un unico corpo indistinguibile, stiamo tutti bene.
Può darsi per qualcuno sia importante porsi obiettivi, ma è un’arte la totale dedizione a non averne. Le stelle che ora guardo tremano a guardare cosa sta succedendo quaggiù, un secondo nell’eternità, che sembra stia succedendo tutto insieme dentro di me.
Mi trovo vecchio, confinato in questo ospizio, dove ci sorprendiamo tutti a parlare delle stesse identiche cose, soprattutto funzioni fisiologiche. Ci assomigliamo tutti in fondo, la vita inizia e finisce nella merda e ad aspettare chi ci cambi il pannolone. Che fregatura vivere così a lungo per me che mi sono sempre sentito così vicino a chi era già di là, ai cavalieri teutonici, ai soldati di Barbarossa, ai soldati di Federico il Grande.
Eppure, malgrado i nostri sogni infausti di grandezza, ci scopriamo tutti pesciolini nella corrente, sempre più rapida.
Il male esisterebbe, sarebbe esistito ed esisterà con diversi attori, ma identici risultati, profondamente connaturato all’umanità di ogni epoca. O si sublima con l’arte, o ognuno è sempre nella possibilità di sterminare i propri simili o, se no, di cercare di partecipare a qualche nefandezza o addirittura condurre il proprio popolo alla catastrofe. È la volontà.
Si finisce per costruirsi una fortezza intorno, nella quale si è già kaputt. Un robot che potesse comprare tutto quello che esiste in commercio, senza limiti, sarebbe senz’altro l’individuo più invidiato al mondo, senza avere una vita propria. È l’indifferenza che ci lega ai fili del fato come burattini, per il resto, siamo già condannati dalla nascita a diventare passato e oblio e questo non può che assolverci, in definitiva, perché il fatto, anzi, i fatti non sussistono. Le azioni degli uomini non sono degne né dell’inferno né del paradiso, l’uomo si sopravvaluta. Una vita senza creazione è una non vita, ed è ciò a cui l’uomo moderno si è condannato, si finisce per invidiare le pietre.
Sono rimasto solo, a difendere uno stendardo sbiadito. Le bestie non hanno destino, l’uomo è solo un pezzo di vetro che offre opachi riflessi di minimi frammenti di storia, in attesa di essere sbriciolato e tornare sabbia.
Questo non è tutto, ma facciamo finta che lo sia, perché rimanga anche un po’ mio e non sia vero che si possiede solo quello che si è perduto.