di Alfredo Morganti – 28 giugno 2018
C’era una volta il buonismo, che poi era solo il tentativo di considerare nei termini dovuti l’altro, di tollerarne e rispettarne l’opinione, di conservare riguardo anche verso chi ti appare nemico. Oggi va di moda, invece, il crudelismo.
Ossia la totale e orgogliosamente rivendicata non considerazione del bios, della vita e delle qualità umane altrui (solitamente dei più poveri), in nome di un’enfasi pressoché totale verso la determinatezza dei meccanismi economici, il consenso popolare e la tutela delle posizioni di privilegio concesse dal mercato, dalla geopolitica, dalla condizione economica, dall’appartenenza etnica, dallo status o dalla mera fortuna. Si è ‘buonisti’ quando non si è sufficientemente severi verso chi oppone una diversa condizione e diverse opinioni, e magari vorrebbe incrinare le stolide certezze del tuo mondo. Si è buonisti se si prova pietà verso le vittime, i vessati, i perdenti, gli sfigati, i gufi. Il ‘pietismo’ d’altronde è per certi aspetti l’antecedente storico del buonismo.
Scrive Giacomo Papi in un blog sul Post del 27 febbraio 2017, che il termine «pietismo» fu “utilizzato dopo il 1938 contro chi spendesse qualche parola in favore degli ebrei vessati dalle leggi razziali. Fu un termine diffuso, di uso comune nel discorso pubblico, con cui si impediva ogni pietà ed esitazione. Ancora nel 1948 nell’Enciclopedia Treccani alla voce «Fascismo» si legge: «È altresì noto come il “pietismo” filosemitico fosse anche nei ranghi del partito, e fin nelle sommità (Balbo, per esempio), largamente diffuso». Anche durante il fascismo, una virtù, la pietà, l’essere pietosi, fu distorta e ribaltata in un vizio e in una debolezza, in modo da assolversi preventivamente da ogni colpa, per esempio quella di rastrellare e mandare a morire gli ebrei italiani”.
Leggo spesso in certe espressioni o dichiarazioni, nel loro tipico stile e persino nelle scelte lessicali che vengono compiute, segni di palese crudeltà ormai sdoganata anche a sinistra. Espressioni che non vengono certo attenuate dalla banale premessa: “fatte salve le considerazioni umanitarie”. Anzi, mettere l’umanità in premessa è come non considerarla. La politica della crudeltà scansa l’etica, taccia di moralismo e si piega infine a un realismo sconcio, che del realismo ha davvero ben poco. Senso della realtà vorrebbe invece che le vite concrete e il bios fossero tenuti in debita considerazione, non trattate come scarti radioattivi. Pochi sanno che quando le pratiche disumanitarie prendono piede, si riversano poi anche sugli altri poveri, sugli altri diseredati, non solo sugli ultimi della fila. Se lo stile della crudeltà diventa cool, tenderà ad applicarsi a tutti i deboli, ai subordinati, ai poveri come un virus sociale inarrestabile.
È sempre stato così, lo sappiamo. Il crudelismo, in fondo, è figlio di un’epoca che non conosce più legami sociali, ma solo competizione individuale. È ingenerato da individui soli, paurosi, abbandonati, che riverberano sui più deboli le proprie angosce. È il frutto di donne e uomini ridotti a merci, che temono di perdere le proprie posizioni di vantaggio espositivo sugli scaffali dei supermercati. È il segno che i meccanismi economici sono diventati tutto, anche se così non sarebbe, e filtrano le visioni condizionandone gli esiti. Solo il mercato che diventa tout court anima può indurre alla guerra tra merci, solo il compimento totale della società di mercato può spingere così lontano i sentimenti umani, sino a non riconoscersi più. Deboli con i forti e forti con i deboli, e il mercato trionfa. Tutto ritorna.