Fuori la Germania dall’euro!

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Hartmut Elsenhans
Fonte: About International Politics and Society Who we are

di Hartmut Elsenhans – 19 aprile 2018

Con le sue esportazioni tra le prime al mondo, la Germania non è certo il punto debole dell’Europa- eppure sta indebolendo l’Europa stessa. Per porvi rimedio, il presidente francese Emmanuel Macron ha portato avanti proposte di vasta portata su come un budget per l’eurozona potrebbe aiutare ad armonizzare le economie dei Paesi membri. Berlino, d’altro canto, ha fatto soltanto il più piccolo passo possibile per venire incontro alle posizioni francesi. Se la Germania non sarà più collaborativa, i suoi vicini europei potrebbero benissimo iniziare a perdere la pazienza – e non è impensabile che ciò risulti in richieste sull’uscita dalla moneta unica per il Paese con l’economia più forte dell’eurozona.

Il meccanismo è simile a ciò che accadrebbe inserendo dei bambini prodigio in una normale classe scolastica, e per essere sicuri che ciò non accada, la Germania avrà bisogno non soltanto di porre fine alla sua politica di austerità fiscale, ma anche di assicurare che gli stipendi, nel suo Paese, aumentino finalmente in modo considerevole. Questa necessità, tra l’altro, offre ai socialdemocratici tedeschi la perfetta opportunità per sfuggire alla gabbia del pensiero neoliberale in cui sono stati tanto a lungo intrappolati e di collegare una maggiore giustizia sociale al salvataggio del progetto europeo.

Per troppo tempo è stato detto ai lavoratori tedeschi che i loro stipendi erano troppo alti per poter competere internazionalmente; il vero problema, in realtà, è che la domanda internazionale non è sufficiente. Per dire la stessa cosa in un modo differente: non è che i lavoratori tedeschi siano troppo costosi, è che, per vari anni e fino ai giorni nostri, i loro stipendi non sono aumentati abbastanza per mettersi in pari con la loro produttività.

In questa situazione, il fatto che la crescita degli stipendi li renda meno competitivi dovrebbe essere l’ultima delle preoccupazioni dei lavoratori tedeschi – soprattutto per quei lavoratori che hanno i salari più bassi, i quali non producono beni commerciabili e dunque non rientrano nella competizione globale. Piuttosto, il peso della competitività internazionale ricade sulle spalle dei lavoratori delle aziende esportatrici ed è precisamente in queste industrie che le assunzioni stanno aumentando a dismisura e c’è una crescente carenza di lavoratori qualificati.

Il progetto europeo in pericolo

Negli ultimi decenni, i membri dell’eurozona partner della Germania hanno visto i propri stipendi crescere al fine di mettersi in pari con la crescita della produttività e per non perdere il passo col vincolo del 2% di inflazione posto dalla Banca Centrale Europea; i lavoratori tedeschi, invece, spesso non hanno ricevuto nemmeno un rialzo degli stipendi legato all’aumento della produttività. Il risultato è stato un deficit commerciale per i vicini europei della Germania, il che ha lasciato ai loro governi ben poche possibilità se non quella di alleviare gli effetti negativi della disoccupazione con iniziative finanziate dallo Stato. Ciò significa che i posti di lavoro tedeschi sono creati dalla prontezza dei suoi partner dell’eurozona ad assumersi il debito nazionale.

In questo modo, la stessa politica di austerità fiscale della Germania ha posto il progetto europeo in serio pericolo: gli Stati che ne soffrono sono impantanati nel debito, costretti a non regolamentare i loro mercati di assunzione e ad aumentare i tagli alla loro sicurezza sociale, oltre ad essere afflitti dalla disoccupazione giovanile.

Tutto ciò ha contribuito all’attuale destabilizzazione populista. In tale situazione, la politica economica tedesca si è mossa in direzione opposta rispetto a quegli inalienabili principi essenziali della propria politica estera immediatamente successiva alla seconda guerra mondiale: “Mai più, mai da soli” – in altre parole, mai agire in modo isolato internazionalmente, mai agire aggressivamente. I segnali, da parte di Berlino, di una possibile volontà di cambiamento della propria formula economica sono troppo esitanti e troppo tardivi.

 Ciò che diviene chiaro è che la Germania ha trasformato l’Europa meridionale in una periferia da sfruttare per far sì che le proprie industrie esportatrici continuino a prosperare; Berlino ha creato un’Unione Europea divisa a metà tra la sua alta produttività nell’esportazione al proprio centro e la sua stagnante attività nella zona meridionale.

Un modello insostenibile

Nessun economista conservatore potrebbe seriamente affermare che il permanente surplus commerciale tedesco, in normali circostanze, non porterebbe naturalmente ad un innalzamento del valore della moneta oltre a rendere i lavoratori tedeschi più cari se comparati internazionalmente. Ma ai lavoratori tedeschi viene ancora detto che la loro volontà di rinunciare alla crescita dei salari li rende  moralmente superiori agli sfaticati lavoratori dell’Europa meridionale. Se solo gli altri Paesi fossero un po’ più simili alla Germania (Kaiser Willy saluta amichevolmente).

Per quanto tempo i lavoratori tedeschi – nonché i loro vicini – sopporteranno tutto ciò?

Dato che l’attuale modello economico tedesco è insostenibile, il presidente francese ha fatto una proposta alla Germania: un nuovo modo di crescere insieme e di favorire l’integrazione europea. Macron vorrebbe una forma temperata di unione di trasferimento di capitali e un budget comune per l’eurozona per finanziare le infrastrutture e sviluppare progetti nelle economie più deboli. In altre parole, è una versione del Landerfinanzausgleich federale che la Germania usa per trasferire denaro internamente dagli Stati più ricchi a quelli più poveri.

Certamente la storia della Germania nel secondo dopoguerra mostra che furono soltanto decenni di sussidi dagli Stati più ricchi ad aiutare la Baviera a trasformarsi da un sottosviluppato Stato ricevente a un contribuente produttivo. Inoltre, le richieste da parte degli altri Stati hanno giocato un ruolo non indifferente in ciò – e i forti sindacati  come IG-Metall non hanno mai obiettato che gli aumenti degli stipendi nella Renania Settentrionale-Vestfalia avrebbero provocato una perdita di posti di lavoro a vantaggio della sottosviluppata Baviera, la quale garantiva stipendi più bassi. Gli Stati come la Renania Settentrionale-Vestfalia e Baden-Wurttemberg hanno semplicemente continuato a progredire, il che alla fine ha permesso alla Bavaria di crescere passo dopo passo e di raggiungere gli obiettivi di crescita in un momento successivo.

In altre parole, quanti vogliono assicurarsi che non ci sia nessun trasferimento di denaro su larga scala tra i Paesi dell’eurozona devono iniziare a promuovere la crescita degli stipendi in Germania. A riprova di quanto questo punto di vista sia diventato ortodosso, i dirigenti aziendali tedeschi hanno ricevuto l’opinabile onore di essere i primi capitalisti cui sia stato detto dal Fondo Monetario Internazionale – non proprio famoso per la sua opposizione alle linee di pensiero neoliberiste – di arrendersi all’evidenza e di far crescere gli stipendi nel tentativo di non far diventare l’economia mondiale ancora più caotica di quanto già non sia. Il populismo in Europa e negli Stati Uniti è un diretto risultato della mancanza di buonsenso nell’élite economica tedesca e nell’establishment politico del Paese.

Nessun sacrificio per i lavoratori tedeschi

Per essere molto chiari, la Germania deve imparare che i surplus commerciali non sono una virtù prussiana, ma piuttosto un vizio dall’effetto corrosivo sulla cooperazione economica internazionale. Ecco perché i fondatori del popolare sistema “Bretton Woods” hanno asserito che le nazioni con un surplus dovrebbero essere punite: l’economista britannico Maynard Keynes ha addirittura suggerito di concedere gli introiti dei bilanci commerciali positivi ai Paesi in deficit con un basso interesse di restituzione; se comparati a ciò, i suggerimenti di Macron su un budget dell’eurozona sono estremamente moderati.

Oltre a ciò, questo modo di procedere non richiederebbe alcun sacrificio da parte dei lavoratori tedeschi – o da parte dei Tedeschi disoccupati. La maggior parte dell’altissimo surplus commerciale della Germania finisce in investimenti finanziari; in altre parole, finisce in speculazioni che non comportano alcun contributo alla creazione di ricchezza (la somma del prodotto interno lordo è pari a meno di un decimo del volume annuo di speculazione sui mercati finanziari).

Per concludere, un budget dell’eurozona non sarà sufficiente ad eliminare le differenze tra i Paesi europei; data l’impopolarità del sovrapprezzo solidale sulle tasse introdotto in Germania per pagare l’unificazione -ovvero al fine di mantenere  il Paese unito a livello nazionale – è facile prevedere quanto piccolo sarebbe lo spazio di manovra per chi proponesse un’unione di trasferimenti monetari. Dunque, se Berlino non affianca a un budget europeo  una vera e forte crescita dei salari così come una tangibile espansione nella spesa sociale e per le infrastrutture, la fine dell’euro sarà inevitabile – o quantomeno la fine dell’euro con il monolite tedesco al suo centro.

Traduzione di Giacomo Piacentini

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