di Fausto Anderlini – 30 gennaio 2018
La rinuncia
Non è solo un grido di dolore verso la politica cinica, come scrive generosamente Prospero. Piuttosto un atto d’orgoglio, di superiorità, di ascetica noncuranza, cioè di aristocratico disprezzo. E insieme di ostinata devozione a una certa idea di sè e del mondo. Cuperlo sfida i politicanti che lo contornano con l’unica arma che essi non userebbero mai. La rinuncia.
Che è poi anche l’unica rimasta nelle sue mani al termine di uno stillicidio di sconfitte e patetiche umiliazioni politiche. Come ho già avuto modo di rimarcare Cuperlo incarna un’idea religiosa ed evangelica della vocazione politica, si direbbe gandhiana, per la quale, dall’alto di una concezione empatica della vita e di una stoica responsabilizzazione, si affida all’atto, al modo, allo stile, all’attitudine e al tono il compito di far lievitare le coscienze. L’uso di sè, il beau geste, la gentilezza, come investimento etico. Ma l’efficacia della non violenza gandhiana, come noto, risiedeva nel fatto che il nemico non era assoluto, ovvero impenetrabile. Il colonialismo inglese si muoveva al seguito di una idea civilizzatrice nella quale c’erano risorse morali suscettive, almeno in certe parti, d’essere attivate nel segno del senso di colpa. Il punto debole sul quale lavorare. Un fondo morale però assai scarso, se non totalmente assente, negli interlocutori di Cuperlo. Il quale è incapace di liberarsi dell’idea redentiva del Pd come una sorta di Chiesa degenerata e bisognosa di riforma. Ma pur sempre una Chiesa, con al fondo un verbo nel quale ancora pescare. E non per caso fa seguire alla sua rinuncia la riaffermazione di un ingaggio (al lavoro e alla lotta) nella campagna elettorale. Sorta di obbedienza paradossale che vorrebbe dar forza alla ‘rinuncia’ con una offerta estrema ed inaudita di ‘lealtà’. Ma lealtà verso chi e che cosa ?
In realtà il Pd più che a una chiesa somiglia a una caserma o a un mercato. E coi mercanti nel tempio Gesù, come noto, dismise ogni benevolenza per lasciar campo all’ira. Il Pd è un organismo finalizzato al potere per sè e i prebendali che lo infoltiscono di questi atti se ne infischiano. Roba per fessi. Renzi è un blasfemo spergiuro che ha più volte dichiarato di ‘ritirarsi’ salvo rimettersi in gioco con inarrivabile cinismo. Una faccia che non teme di mostrarsi come un culo. Anzi come un cuculo, vista la perfida abilità con la quale si è impossessato del nido altrui trasformandolo nel proprio seguito personale. Facendo della chiesa (o dell’antica ‘ditta’) un covo, un club privé ricettacolo esclusivo di seguaci e clientes. Come nelle associazioni criminali nel Pd nessuno è insostituibile, salvo il capo. Una rinuncia è accolta dalla ciurma come un’ottima occasione per abbassare il denominatore nella ripartizione del bottino.
Così si vede come appena liberato il collegio subito De Vincenti vi si è installato beneplacitando Gentiloni. Per non dire di quel sicofante di Giacchetti che s’è visto recapitare un seggio sicuro a sua insaputa dopo aver dichiarato di gettarsi eroicamente nel collegio senza il paracadute. E se si guarda agli ‘apostoli’ è ancor peggio. Un branco di iscarioti. A Bologna, dove si dice la federazione sia governata dai ‘cuperliani’, i candidati De Maria e Critelli non solo si son guardati dall’abbandonare i collegi ‘sicuri’ per solidarietà col profeta. Non hanno fatto neanche un post su fb per rammaricarsi. Idem la Cantone, la simpatica zietta dello Spi che ricordo durante le primarie quando stava a fianco di Cuperlo, nella Piazza dei Celestini, ieratica come un angelo custode. E che adesso si appresta a far coppia nientemeno che con Casini…. Gente scellerata, col cuore di pietra. Sicchè alla fine, la rinuncia di Cuperlo è una ‘depence’ destinata a non generare alcun frutto. Uno spreco. A meno che un’ira funesta si sprigioni dagli elettori…..
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L’intervento di Michele Prospero – 28 gennaio 2018
Il grido di Cuperlo e una politica cinica
Molte sono le cose poco esaltanti che i cosiddetti partiti hanno commesso nella compilazione delle loro liste elettorali (forse un ulteriore incentivo all’astensionismo). Una delle rare manifestazioni di dignità etico-politica è apparso il rifiuto di Gianni Cuperlo di correre nel collegio di Sassuolo.
Tutti i suoi luogotenenti, politici più smaliziati e in fondo meno idealisti di lui, che molto lo hanno condizionato, rallentato (e danneggiato nel momento delle scelte, sul referendum e altro) hanno avuto rassicurazioni. Mentre lancia la sua sfida, Cuperlo rimane da solo, nessuno a lui vicino raccoglie il grido mite. Si ripete quello che già gli era successo quando rinunciò per dissenso alla carica di presidente del Pd.
Dell’ultimo segretario dei giovani comunisti si potrebbe dire quello che Lenin asseriva riguardo la figura di Bucharin. E cioè che si tratta di una persona cui, per il suo tratto, stile, letture, gentilezza non è possibile non voler bene. In un partito vero, cioè con delle idealità, nessuno oserebbe graffiare un dirigente della sua onestà e condotta così disinteressata. Ma (e questa è l’illusione che va rimproverata a Cuperlo come un grave errore politico) il Pd non è un partito capace di riconoscere le differenze, di rispettarle.
Se un politico di professione (anomalo come Cuperlo, perché nel tempo ha conservato un’etica della convinzione in lui ben radicata) ricorre al gesto estremo della rinuncia, il suo posto vacante viene subito ricoperto da un accademico. Quando si dice superiorità morale della società civile. Il ministro De Vincenti, che con gesuitico sgomitare si presta a rimuovere l’ombra di Cuperlo, svela la radicalità del male della politica italiana.
Un politico moderno nella comprensione dei linguaggi e delle tecniche della comunicazione e però antico nella coltivazione di ideali ormai bruciati dal pd (che propone nelle aree un tempo rosse i nomi di antichi cascami del centro-destra) non verrà rimpianto da una politica cinica e affaristica che si avvicina sempre più ad un precipizio.
Cuperlo dovrebbe anche riflettere però sulla natura del suo errore. Avrebbe dovuto molto prima di adesso compiere scelte inevitabili, imposte dalla natura reale del renzismo, che lui stesso denunciò in direzione con parole che parvero di fuoco. Anche per le difficoltà di ricominciare un lavoro credibile per la ricostruzione di una sinistra futura, un suo tempestivo abbandono del Pd avrebbe semplificato un percorso che ora cammina tra gli scogli.