di Fausto Anderlini – 30 dicembre 2017
Raccontino per il penultimo dell’anno (un po’ lungo ma ameno, almeno spero, per chi vi poserà gli occhi)
Il presupposto sta ancora in quella specie di manifesto funerario che porta il nome di Repubblica che proprio ieri ha rimarcato il cartellino della contumelia quotidiana contro Grasso. Stavolta dedicando una pagina intera alle accuse sollevate da tal Bonifazi per il quale Grasso sarebbe reo di non aver onorato un debito di 80.000 euro dovuti al partito come da regola pattuita all’ingaggio parlamentare. Questo Bonifazi agisce come un cacciatore di taglie ed ha, dettaglio lombrosiano, un aspetto fisico non rassicurante (troppo irto di pelo scuro). Tributarista di provincia proveniente da una famiglia di piccoli boiardi politici (padre direttore della centrale del latte e zio nella deputazione dei Paschi nonchè direttore della cassa di Prato), è un tipico petaluzzo del giglio magico tosco-fiorentino. Perfettamente inquadrato, per ascendenze e modalità di socializzazione politica, nel format consortile Boschi Renzi e varia compagnia. Già noto per il braccino corto nel corrispondere i ratei da parlamentare in epoca bersaniana (seggio acquisito in Piemonte in quota paracadutata pro Renzi nel 2013) una volta issato al rango di tesoriere è diventato un implacabile esattore con uno zelo molesto e marranesco quale solo si riscontra nei delinquenti incalliti che per un provvidenziale destino cambiano fronte, e diventano acerrimi gendarmi mettendo la loro ribalda malizia al servizio di legge e ordine vigenti. Soprattutto perseguitando e inzaccherando ogni cosa rammenti una qualche nobiltà a loro inibita per congenita tara antropologica.
Al di là della volontà di discredito esibita dall’ennesimo mostriciattolo sull’Arno, il tema ha comunque una sua rilevanza etica. Se una persona abbandona un partito dal quale si sente tradito deve comunque onorare i debiti pregressi ? Col piffero, io dico. Il rapporto che lega l’aderente a un partito è di tipo squisitamente libidico-fiduciario. Tutt’altra cosa dagli obblighi che interessano un impiegato con la ditta per la quale lavora (che in caso di rescissione per colpe non sue avrebbe piuttosto diritto a una buonuscita) o un pigionante col padrone di casa. Se il rapporto di fiducia si rompe tutte le obbligazioni, anche pregresse, si dissolvono e lasciano il campo alla recriminazione, ovvero alla comunione dei rancori. Perchè in ogni sodalizio affettivo che si rompe la contabilità a consuntivo riguarda il dare e l’avere. Che però è naturale oggetto di contenzioso. Come in un matrimonio andato a male. Dove non valgono nè legge nè ragione. A meno non ci siano estremi per ricorrere al tribunale civile o altra istanza giurisdizionale. Nel qual caso la procedura impone comunque atti diversi che presentarsi a sparare cazzate su un quotidiano diventato ricettacolo di gossip e pettegolezzi ingiuriosi. Perciò fossi in Grasso terrei per me la cifra impropriamente rivendicata dallo sceriffo di Nottingham, e senza alcuna remora, versandola semmai nelle casse di LeU, o in altra opera benefica. Ai dipendenti Pd provvedano, al caso, i finanzieri della corte renziana. Non gli ha ordinato il dottore di prendersi un partito per renderlo decotto.
Ma qui c’è il destro per una riflessione più dettagliata sulle modalità della ‘scissione’ e del suo spirito. Bersani è un uomo mite ed empatico, ossequioso delle regole. Anche troppo. Una mansuetudine della quale il brigantaggio politico dei parvenu ha largamente profittato. Un gentiluomo che quando se ne è andato ha lasciato ogni cosa in ordine e adempiuto ai versamenti, senza portare nulla con sè salvo la Chiara Geloni. Per usucapione, essendo già stata liquidata e messa a maggese col solito garbo dai nuovi padroni del partito. Ma in effetti la ‘scissione’ ha avuto uno strano decorso. Una disillusione. Una diserzione di massa distillata nel tempo. Un lungo abbandono, prima di aderenti, da soli o a frotte, poi di gruppi dirigenti, persino in soprannumero. Sicchè non c’è stato quel ‘trunk’, quella dichiarazione formale di guerra, quel punto zero che porta i dirigenti a riunirsi in una Pallacorda proclamando il ‘vero’ partito mentre i quadri al seguito occupano le sezioni e vi si barricano dentro con le aste delle bandiere in mano avocando a sè quanto più patrimonio è possibile. Come sempre è avvenuto, di norma, nelle scissioni socialiste. Quelle esteticamente più belle (impareggiabile il sequel che interessò nenniani e saragattiani all’epoca del Psu). Nulla di tutto questo è avvenuto, e io avrei desiderato tanto prendere possesso con un manipolo di via Rivani, del Passepartout o di altre case del popolo. Venendo alla pugna coi gaglioffi e gli indegni e suonandoli di santa ragione. Oltre che una soddisfazione psicologica, sarebbe stato nel nostro sacrosanto diritto. Essendo larga parte di quel patrimonio (o ciò che ne è restato dopo lo scialo veltroniano) frutto della fatica edificatoria e manutentrice dei compagni costretti all’esilio dagli inquilini abusivi. Predoni parassiti come cuculi. Democristiani della tradizione peggiore.
Ma poi mi sovviene. Che cazzo avremmo mai ri-conquistato ? Il Pd è un partito pieno di debiti. I renziani l’hanno a bellaposta lasciato andare a male alimentando la loro fazione di altre entrate (giro provinciale privato del giglio magico, secondo una pratica già diffusa nella ex-margherita, che infatti conferì al Pd solo i buchi lasciati dal tesoriere di Rutelli, poi benignamente tappati dai generosi post-comunisti….). Il Pd non ha patrimonio, le sedi sono usate in affitto (più spesso morosamente) e la più parte di esse è di proprietà della fondazione che ha in custodia i beni che furono del Pci. Che a livello nazionale significa Sposetti e a Bologna Mauro Roda (Fondazione duemila). Mauro Roda è un simpatico quasi mio coetaneo. Uomo della provincia (nel Pci, e ancora nel Pds prima di darsi alla tesoreria immobiliare si occupava di agricoltura) ha un piacevole aspetto volpino e sornione che molto lo accomuna a Sposetti. Ma la sua caratteristica precipua è la cadenza lenta e baritonale dell’eloquio. Si direbbe quasi ventriloquo tanto è parsimonioso il movimento delle labbra. Quando ero in segreteria con lui capitava che i suoi saggi e pacati interventi scemassero, scendendo di scala in scala, in una personale e borbottante confabulazione. Intraducibile per gli ascoltatori, sicchè a un certo punto bisognava richiamarlo come se fosse andato in cantina a imbottigliare il vino. Il suo ‘basso a scendere’ è perfettamente speculare all’alto a salire’ di Farinelli, il grande lirico castrato del ‘700 bolognese, il cui mistero è stato indagato ancora di recente dalla scienza dell’anatomia. Negli ultimi tempi si è impegnato in una encomiabile valorizzazione culturale delle case del popolo. Specie di occasionale restauro conservativo. Organizza una ‘notte rossa’ durante la quale le avite dimore si animano di romantiche ri-presentazioni di mitici esponenti del movimento operaio e dell’epopea rivoluzionaria (l’ultimo è stato nientemeno Che Guevara). Come fossero fantasmi richiamati in vita. Una ‘notte delle streghe’ però abbastanza innocua, che al Pd serve a tenere in vita la fiction che tanto piace agli utilizzatori d’antan rimasti a guardia del ‘partitone’ come se a dirigere il bidone vuoto fosse ancora Togliatti. Ora, venendo a noi, quando si era ancora nel regno del ‘si dice’ e del ‘si potrebbe fare’ Mauro Roda (che, come si è capito dalla descrizione è sicuramente uno dei nostri) era stato prodigo di lusinghiere quanto informali profferte. Ma alla fine, alla prova dei fatti, ha tirato fuori per Mdp null’altro che un ufficietto al Candilejas, nella più estrema periferia della città. Una griccisia che più squallida non si potrebbe. Mentre a Ravenna Errani e compagni, assai più sagaci e decisi, hanno trovato modo di albergare in una splendida casa del popolo in riva al mare. Istituzione della ‘memoria immobiliare’ rossa Fondazione Duemila resta pur sempre ancorata, anche per questo, a un sistema locale di potere, agonizzante, molinellizzato, renzianamente sfigurato ma ancora in vita e capace di ricatto. Perchè il cauto Mauro Roda si avventuri in una legittima e riparatrice ripartizione del capitale bisognerà che il decesso sia certificato e/o che a Bologna LeU superi di slancio la soglia della doppia cifra. Allora nulla impedirà che la parte migliore del patrimonio ritorni nelle mani giuste, per rimenare se non gli antichi fasti almeno una vita dignitosa e solvibile. Mancano solo due mesi alla prova. Occorre darsi da fare.
Concludendo, e pensandoci sopra, le vere scissioni hanno sempre un carattere violentemente religioso. Cioè scismatico. Sono fratture che interessano le chiese. Il verbo, la teleologia, prima ancora del potere. Come tali, contrariamente a molte interpretazioni meramente sarcastiche, sono intrinseche alla natura passionale e trascendente dell’uomo. Se talvolta sono sussulti terminali di un organismo politico morente talaltra segnano nuovi inizi forieri di grandi prospettive. Sempre comunque, anche nei casi più disperati, sono segno di lotta, dunque di vita (come direbbe Max Weber). In questo contesto il caso dell’uscita di Mdp dal Pd non è interpretabile come una scissione. Piuttosto una forma di abbandono, proprio conseguente alla constatazione che il Pd non aveva più parvenza, per quanto remota e secolare, di una chiesa. Un partito irriconoscibile, ‘non si sa cosa’ (come risponde la gente nei sondaggi) perciò non ri-formabile. Solo da abbandonare in un sussulto di salvezza. Portandosi via nulla, se non sè stessi. Riprendersi un pezzo almeno di patrimonio della chiesa delle origini, oratori, piccoli conventi, bocciofile, sacrestie e sala biliardo, è una questione succedanea a un necessario intermezzo monacale se non ascetico. Poi, se le cose, andranno come si deve si tornerà sui luoghi a dissotterrare i reperti, come fecero gli ex-partigiani dopo l’attentato a Togliatti.
Diverso, ma sempre inquadrabile nelle categorie avanti esumate, il caso della scissione che interessò il Pds. Se per certi aspetti la nascita di Rifondazione corrispose a un classico scisma, l’atto avvenne rispetto a una entità politica, il Pds, essa stessa nata per autoscisma entro il Pci. Per auto-ri-denominazione. Fu come mettere all’incanto, dopo lungo e sin troppo ampio dibattito (durato due anni) simboli e patrimonio del Pci. In quel lasso di tempo, del resto, il prode Armando aveva lavorato con cura preparando le migliori condizioni di una uscita che doveva risultare pacifica e profittevole, anche in vista di futuri re-incontri. Contrariamente agli ingraiani che sono per indole tanto idealisti acchiappanuvole quanto arruffoni e spontaneisti, Cossutta era un vero migliorista sovietico, cioè un organizzatore di sicura perizia. Perciò Rc, prima d’essere rovinata da Bertinotti, e poi ancora il PCd’I di Russo e Diliberto goderono di una florida vita. E adesso ve lo dico: son contento che tanti cossuttiani, miglioristi fautori dell’unità socialista, e sinanche post-craxiani vengono a noi, con LeU. Per quanto attempati portano esperienza e vita vissuta, risorse cruciali se si vuol far germinare una nuova vita.
Salute, compagno Armando, non eri uno stalinista, come si dice, ma un uomo avveduto e simpatico.Un bravo scissionista, direi quasi meglio di Rossanda e Pintor, onorati da una radiazione così solare che Torquemada se la sarebbe sognata. Avendo depositata in testa, per somma generosità, l’aureola dell’eresia (non c’è Chiesa del nome degna che non sia pratica di eretici e inquisitori, entrambi tragicamente avvinghiati). E felice fine d’anno per tutti gli scissionisti, i diasporici, i transfughi, gli esiliati, i scismatici,eretici o dogmatici, i disertori, i rottami, gli inerti, i monaci, i chierici e gli spretati, e sinanche i misantropi e i menagramo (questi sperando che si redimano per tempo). E comunque tenere a mente la regola aurea: a brigante brigante e mezzo.