Leopolda 8. La fuga

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Alfredo Morganti

di Alfredo Morganti – 23 novembre 2017

Incontro era una canzone di Guccini: “Siamo qualcosa che non resta, frasi vuote nella testa e il cuore di simboli pieno”. Jena – la Stampa

Rondolino non andrà alla Leopolda 8. Deve accudire due cuccioli di maremmano e non può lasciarli soli. Ma dice di essere come Cincinnato: “in attesa che il Paese mi richiami!”. Lo riferisce Monica Guerzoni sul Corsera, in un pezzo che non sai se sia di colore o ricada per davvero nelle cronache politiche. O entrambe le cose. La notizia su Rondolino, in verità, rende l’articolo della Guerzoni di un genere inesplicabile, o meglio un paragenere che potremmo definire “la politica al tempo di Renzi e Berlusconi”, un misto di reale e surreale, di narrazione e di vuota realtà. Nessun grande cronista politico, di quelli che raccontavano la politica 0.0 di decenni fa, avrebbe mai trascritto una dichiarazione di quel tenore, e poi la giustificazione associata dei cuccioli. Nessuno. Nemmeno se fosse stata solo una battuta, anzi tanto più. Che poi il pezzo del Corsera una notizia ce l’aveva pure, ed era questa: alla Leopolda c’è la fuga dei big, colleghi di partito compresi.

Quelli che ci andranno, lo faranno con discrezione, col bavero alzato e il cappello Borsalino calcato in testa, compresi gli occhiali neri sugli occhi. Ed è chiaro, allora, perché Renzi abbia affidato a dei giovanotti il compito di metterci la faccia e l’organizzazione! Attorno a lui c’è sempre meno folla. Chi ci sarà, alla Leopolda, risponderà a una specie di precetto. Pochi diranno un giorno: io c’ero.

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Leopolda: Renzi prova a rilanciare tra millennial e fake news, ma tra la gente prevale il reducismo

di Alessandro De Angelis – 24 novembre 2017 – Huffpost

Renzi prova a rilanciare tra millennial e fake news, ma tra la gente prevale il reducismo
Le file di sedie sono parecchie di meno, rispetto ai tempi dell’assalto al cielo, a quello del potere, a quando poi si trasformò nel bunker del sì. 

Oddio come si è ristretta la Leopolda. Le file di sedie sono parecchie di meno, rispetto ai tempi dell’assalto al cielo, a quello del potere, a quando poi si trasformò nel bunker del sì. Leopolda senza effetti speciali, senza la regia di Simona Ercolani, senza nomi di successo, sfavillanti testimonial del nuovo che avanza: Alessandro Baricco, Oscar Farinetti, Davide Serra, Brunello Cucinelli, Luigi Zingales.

Ci sono i giovani, i millennials, quelli che vanno all’Università, nati quando Silvio Berlusconi era a palazzo Chigi nel 2001. Sono loro i co-conduttori di questa edizione. “Chi di voi era maggiorenne nel 2011? Che ricordate di allora?” chiede Renzi, nei panni del presentatore. Loro rispondono, come in una puntata di Amici. Domande incalzanti, risposte brevi: “I ristoranti che erano pieni”, “la disastrosa riforma Gelmini”. Come in un format che celebra se stesso, partono le immagini delle scorse edizioni, peccato che la regia fa cilecca e i video non partono: “Ragazzi – scherza il segretario del Pd – siamo peggio di un tg di Mentana”.

Manca il pathos, la tensione, il nemico da rottamare, il plebiscito da vincere. La Leopolda è insofferente, irriducibile ridotta del renzismo impaurito delle prossime elezioni. Monica, sindacalista per una vita, appena vede il giornalista, si ferma: “Voi giornalisti dovete raccontare la verità, dovete denunciare le fake news, smetterla di essere sempre contro. Noi comunque prenderemo il 40 per cento, altro che ‘arrivate terzi'”. Annuiscono quelli attorno: “Noi il programma ce l’abbiamo, quello dei mille giorni: il jobs act, gli ottanta euro, altro che Camusso, il peggior segretario che la Cgil ha mai avuto, peggio dei Cobas”.

Ecco, le fake news, “la battaglia per la verità”. È questo l’unico titolo di giornata con Renzi che impugna il pezzo del NYT, per bollare come dire che quel che sta accadendo in Italia che è impressionante: “Un sito che sparge odio, veleno e falsità contro di noi. La Leopolda inizia per la lotta per la verità”.

C’è rabbia, non elaborata, per quel che è successo, timore, senso di sospensione in un finale di legislatura che è un viaggio verso l’ignoto. Magone e malinconia, per ciò che è stato e non è più. “Non permettiamo ai rimpianti di superare i sogni”, è scritto nel panello al centro della sala di questa stazione dismessa dove tutto partì, otto anni fa. È il messaggio che vuole dare Matteo Renzi, quando sale sul palco, consapevole che aleggia tra i suoi il rimpianto del passato: “Quello che abbiamo fatto nei mille giorni non ce lo porta via nessuno. Basta il ricordo dei mille giorni, dai tavoli una proposta concreta”. Epperò il ricordo aleggia, vero collante di una comunità ristretta, compiaciuta dell’essere tale, avvolta dallo spirito reducista del “siamo meno ma siamo noi”. Parli con la gente e la sensazione è questa. Giancarlo, del Pd fiorentino, dice: “C’è rimpianto. Ma ce lo ricordiamo il paese come era prima dei mille giorni? La verità è che i nemici li abbiamo avuti dentro, in casa. Quelli del Pci, Pds, Ds e che ora hanno fatto la scissione”.

Tutte le chiacchiere sulle alleanze, sulle aperture, sulle consultazioni di Fassino, franano nell’animus delle persone. C’è poco da fare, la ferita del 4 dicembre brucia ancora, ed è come se l’orologio politico fosse ancora fermo lì: “Io – dice Fabrizio, produttore cinematografico italo-canadese – se Renzi fa l’alleanza con D’Alema e compagni non lo voto più. D’Alema è più pericoloso di Berlusconi”. Un altro obietta: “Ma senza alleanze perdiamo”. Arriva Giancarlo da Pistoia: “C’è una zona silenziosa anche nei sondaggi. Noi il 40 per cento lo possiamo prendere, come alle europee”.

Leopolda 8, L8, che si legge “lotto”, come dire che la battaglia continua. E che c’è un futuro, non solo un passato: “Se leggo i giornali – dice Renzi – vedo associato alla nostra esperienza un sentimento quasi di rassegnazione, la Leopolda serve a metterci energia”. Già, l’energia.

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