di Alfredo Morganti – 2 agosto 2017
Assistiamo in questi giorni a un certo andar via dal PD. Dirigenti e pezzi rilevanti di ceto politico anche locale stanno lasciando il partito per approdare esplicitamente in Articolo 1 – MDP. Testimoniano, ovviamente, l’esistenza di parti corrispondenti di elettorato che intraprendono parallelamente lo stesso viaggio. Se non è ancora uno smottamento poco ci manca. I dirigenti del PD fanno spallucce, dicono che se ne faranno una ragione (sarà una pessima ragione, vedrete), adducono meschinamente motivazioni solo ‘personali’ nelle fuoriuscite. E dunque ‘non è successo niente’, citando Leonardo Pieraccioni dopo lo scontro in motorino con un muro. Tuttavia, la situazione è fluida e indica una persistente difficoltà del PD e del suo Capo a gestire la fase critica, nata dalla sconfitta referendaria e dalla sciocca idea di smantellare il partito nello stesso istante in cui se ne dichiara l’autosufficienza. Curioso paradosso.
Questa fase di ‘movimento’ e di instabilità dimostra come il lavoro politico non è mai a bocce ferme, ma deve tener conto di sviluppi e dinamiche anche improvvise o imprevedibili. Compresa la necessità di non valutare mai in assoluto le pedine in campo, ma sempre nel loro concreto (e mutevolissimo) posizionamento. Purtroppo, in tempi di comunicazione-politica tutto appare falsato e spettacolarizzato, le ‘persone’ assumono un rilievo preponderante rispetto alle loro ‘forme’ e relazioni, i fatti sembrano ‘congelati’ e assolutizzati, quasi che il loro ‘valore’ sia altrettanto assoluto e assegnato una volta per tutte, per restare quindi permanente. Guardate Renzi, per dire, non è più la faccia tosta di tre anni fa, oggi nasconde a fatica il nervosismo, lancia microfoni e si limita a presentare il suo libro sui palchetti, quasi fuori dalla scena politica, nello scoraggiamento immaginabile dei ‘suoi’ fedelissimi. Sono le parabole che disegnano i valori, i posizionamenti, il posto occupato al momento sulla scacchiera, la funzione che si esercita in una ‘struttura’ pure essa variabile. Il ‘lavoro’ politico e la metafisica sono quanto mai distanti.
Oggi tutto si gioca, ritengo, sulla capacità attrattiva della sinistra: verso l’elettorato, verso il ceto politico, verso culture politiche prossime ma dissimili. La chiave del centrosinistra prodiano fu questa, fu una prossimità di governo tra mondi diversi. Perché non basta essere ‘forti’ in sé, per quanto sia necessario. È indispensabile non essere (o apparire) isolati, sordi, ripiegati su se stessi, privi di un orizzonte se non asfittico. Non basta insomma ‘asserragliarsi’, approntando misure di difesa (ma anche di attacco) ben congegnate. È la capacità espansiva quella decisiva, la capacità di produrre egemonia culturale e politica, di ampliare i confini e non restringerli. Apparendo affidabili a vasti strati della popolazione, in special modo quella più disagiata o colpita dalla crisi. Conquistando élite e ceto politico. Attraendo intellettuali e tecnici. Credo che questo sia il timone, sempre. La forza attrattiva e propulsiva della sinistra, senza immaginare chissà quale autosufficienza, ha sempre indirizzato il Paese nei suoi momenti migliori, ha coagulato interessi comuni anche stando all’opposizione, ben salda in direzione della giustizia sociale e della democrazia. Credo sia questo l’ideale di gioventù a cui io mi appello sempre, così come fanno alcuni dirigenti autorevoli della sinistra, lieto di seguirli lungo questa strada maestra.