Il capitale umano a sinistra

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Lucia Annunziata
Fonte: huffingtonpost
Url fonte: http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/il-capitale-umano-a-sinistra_a_23015113/

di Lucia Annunziata – 4 luglio 2017

Il miglior aggettivo è quello scelto da Massimo Cacciari: malinconico. Si potrebbe calcare un po’ più la mano sull’umore, ma va bene anche così. Non c’è nulla di allegro infatti, nulla di speranzoso, in quello che sta succedendo a sinistra. E se il male denunciato della politica nei tempi moderni è il bonapartismo di ritorno (un tocco francese che dobbiamo a Macron per aver ravvivato la fredda formula dell’uomo solo al comando) va detto che da questo male non è esente nessuno.

 Con un po’ di sano realismo, la dinamica in corso a sinistra (cominciando da Renzi e finendo il più in là possibile) può essere banalmente raccontata come la esistenza di una collezione di leader in eccesso, un grande capitale umano, poco, male, o sotto impiegato. Dal cui pieno impiego si spera o si desidera che nasca qualcosa di nuovo.
Eccetto che i leader in campo hanno tutti tante responsabilità negli errori del passato che è difficile oggi dare loro fiducia.

Delle responsabilità di Matteo Renzi dopo tante discussioni e analisi sappiamo quasi tutto. Il referendum, lo stile di lavoro, le cose dette e non fatte, costituiscono una quasi letteratura in questo genere minore che produciamo noi che facciamo questo lavoro. Ma una novità è chiara su questa resa dei conti a sinistra: Matteo Renzi a questo punto sta esattamente nel punto in cui intende stare. Il suo Pd, cui ha lavorato con tanta ostinazione, ripulendolo di ogni sbavatura di “sinistra”, è ora finalmente lo strumento che voleva fin dall’inizio della scalata al partito. Il suo programma e le sue fila in questo momento sono finalmente coincidenti: dentro il Pd, Renzi nasce in quell’ala moderata a traino ex Dc che ha sempre mal sopportato (e non lo hai mai nascosto) le altre varie anime del Partito, dai cattolici di sinistra (i cattolici adulti) ai rifondaroli, passando per tutto l’armamentario ex comunista. Che la sua fosse una battaglia di modernità è possibile; che questa battaglia si sia poi nelle sue mani trasformata nella proprietà di un marchio per spostarlo su una diversa ipotesi politica, è un fatto.

 Matteo Renzi oggi – in particolare dopo le due sconfitte del referendum e delle amministrative – è arrivato alla conclusione che l’unico voto in cui risiede la vittoria, l’unico che val la pena di conquistare è quello moderato . Questo è il suo progetto per le prossime politiche, specie se ci sarà una legge super proporzionale: competere per quel voto lì dov’è, cioè nelle file dei centristi e di Forza Italia, per poi eventualmente con quelle stesse forze moderate allearsi nel caso di fallimento di altre possibilità. Prendere o lasciare, piacere o meno (e come elettrice non potrei sceglierlo) è questo il piano. Mai come in questo momento Renzi è stato così chiaro. Inutile dunque inseguirlo, fargli proposte, tentarlo con unità, dialogo o altro. Quella fase è finita.

Questa nuova identità del Pd renziano è stata sicuramente capita dalle forze alla sua sinistra, che a loro volta però non hanno finora espresso un intento altrettanto chiaro. “Insieme” infatti non è un programma in sé, è tutt’al più un metodo. Sulla carta si presenta come la perfetta risposta all’uomo solo al comando che oggi controlla il Pd: tratta infatti di unificare una grande lista di leader, quel capitale umano di cui si parlava, ottenendone il massimo risultato. Se non fosse che questo grande pool di leadership è anche il prodotto di una storia di frammentazioni del passato, le cui ragioni e radici non sono mai state finora né analizzate né mai davvero ammesse.

L’esperienza dell’Ulivo, ci cui si parla oggi con tanta nostalgia, nata in maniera entusiasmante è franata nel susseguirsi di tre leader in cinque anni – Prodi, D’Alema, Amato – e con un quarto candidato alle elezioni, Francesco Rutelli. La seconda chance avuta da quella area politica è durata solo due anni, dal 2006 al 2008.

Tutti i leader che oggi dicono di voler stare insieme, in passato si sono a un certo punto alleati, odiati, divisi, traditi. Alcuni più di altri: senza dubbio Massimo D’Alema è stato il Gengis Khan (1) di queste esperienze di partito e di governo, ma il clima di odio, complotti, di personale sete di potere senza quartiere è stata la vera temperatura di quella esperienza di centro sinistra il cui fallimento oggi può essere definito, senza esagerazione, “drammatico”.

Una domanda tra le tante lasciate aperte da quegli anni, ce n’è una che le compendia tutte: se l’Ulivo, il Pd, e tutti gli altri partiti che in queste orbite hanno girato, avessero gestito con maggiore responsabilità collettiva la speranza che gli italiani avevano riposto in loro, la crisi dei partiti – per quanto tendenza storica – sarebbe oggi diversa, meno radicale, meno distruttiva?

Il fallimento di quel periodo ha infatti avuto conseguenze che ancora ci accompagnano.

Il primo errore fu il consenso dato dal Pd al modo scelto per mettere fine al governo Berlusconi nel 2011. Il Pd aveva allora una forte autorevolezza dovuta proprio alla sua lunga opposizione al leader di Forza Italia. Eppure invece di andare subito alle elezioni (spaventato dalla crisi internazionale? Rispettoso della nomenklatura nazionale ed europea?) accettò che la crisi gli fosse portata via dalle mani e venisse “istituzionalizzata”. Il Pd di Bersani accettò che il Presidente della Repubblica nominasse un governo tecnico, quello di Mario Monti.

Una singola decisione che ha senza dubbio accelerato la svalutazione dei partiti (e dunque del Parlamento) mettendo la politica sul binario di un decisionismo del Quirinale che ha portato alla più lunga serie storica di leader non eletti nella nostra storia: dopo Monti, nonostante il risultato elettorale Bersani non ottiene l’incarico, e seguono le successive nomine di Letta, Renzi, Gentiloni.

Un meccanismo che ha divorato per altro ogni suo protagonista, incluso Renzi.

Eppure, nonostante questi “traumi” degli anni scorsi, va notato che la tendenza alla selezione dei leader dall’alto sembra diventata una pratica organica della politica. Lo strumento delle nomine dal vertice è parte integrante del Pd di Matteo Renzi, nominato per eccellenza, che è stato Premier e rimane segretario del Pd senza mai neppure essere stato parlamentare.

Ma anche in tutto quello che si muove a sinistra del Pd si vede questo marchio elitario, sia pur nella versione benevolente di Romano Prodi. I nuovi progetti somigliano pericolosamente a un esperimento di ingegneria sociale che cala dall’alto. Battaglie politiche generose ma fuori tempo, come quella di Orlando. Confusione generazionale – come la indecisione degli adulti sul ruolo di Speranza. La stessa scelta dell’ottimo Pisapia, persona di rara rispettabilità, pure è una scelta a freddo. La sua patente di fiducia è considerata la sua estraneità alle forti tensioni che hanno in questi anni lacerato la sinistra, a partire dalla grande rottura avvenuta sul Referendum: ma un leader non dovrebbe essere al contrario uno che ha dato un segno alle battaglie di questi anni? Tenendo conto che il 60 per cento degli italiani ha votato No, la domanda (che avanza Montanari a nome di un altro settore della sinistra a sinistra) non è, nemmeno numericamente, irrilevante.

Quel che rimane di questo quadro di “insieme”, alla fine, è quel che si diceva: la speranza che il capitale umano di tanti leader messi insieme possa creare qualcosa.

Si torna così al dubbio iniziale: come faranno a stare in una sola forza politica nemici di tanti anni, in un progetto così vago?

Romano Prodi sembra essere molto consapevole di questo dubbio. Per questo è partito proprio dalla relazioni personali a sinistra. Ben sapendo che in quelle pieghe “personali” si nasconde tutta l’essenza della politica finora.

A sinistra, sembra dirci Prodi, e ci piacerebbe che lo esplicitasse, ci può essere di nuovo qualcosa solo a conclusione di un processo in cui si affronti finalmente la verità. E la si dica.

La fine del Pd non è dovuta a Matteo Renzi, è arrivata molto prima. Al di là di una improvvisata unità, che ha molto a che fare con le elezioni e poco con le soluzioni che vengono offerte al paese, è ora che il dossier di quel che si è stato venga riaperto. È impossibile infatti essere credibili ripresentandosi come se nulla fosse successo.

Se un uomo solo al comando non è la soluzione – come si vede anche dalle vicende internazionali – la soluzione non è nemmeno una occasionale unità di tanti uomini soli al comando.

(1) http://www.corriere.it/cultura/libri/11_giugno_30/citati-grousset-gengis-khan_bdd16be8-a328-11e0-9bbf-ebc35d9cc61e.shtml

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