Fonte: senso comune
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di Stefano Bartolini, 22 aprile 2017
«Oggi l’ossequio esteriore alla Liberazione non è più messo in discussione, la sua simbologia è divenuta talmente diffusa da prestarsi a banalizzazioni e improvvisazioni estemporanee, come nel proclamare da parte governativa il 25 aprile “festa del coraggio”, svuotata di ogni riferimento storico. E non a caso, dopo aver votato la fiducia su una legge elettorale che di fatto abrogava la democrazia parlamentare, i deputati della maggioranza intonavano Bella ciao. Per questo negli ultimi anni la ricorrenza del 25 aprile appare sempre più una mesta cerimonia degli addii, per prendere congedo dalle speranze e dalle conquiste di una civiltà repubblicana che nel tempo sembra deperire e affievolirsi»
(Giampasquale Santomassimo, 25 aprile, in Calendario civile)
Il 25 aprile è ormai una festa che da contesa è passata ad essere riconosciuta da un po’ tutti (eredi del fascismo e centri commerciali esclusi), ma in questo passaggio, se si è mantenuta la memoria, se ne sono persi i significati a favore di una vuota retorica. Sentiamo parlare ovunque di libertà, ma il termine è a sua volta insensato. Di quale libertà parliamo? Di quella dal bisogno o della libertà di licenziare? Della libertà dallo sfruttamento e dalle discriminazioni o di quella della volpe nel pollaio? Nessuno ce lo indica.
Eppure il 25 aprile è forse la festa più faziosa nel calendario laico. Vi si celebrano i partigiani, quelli che si schierarono, che parteggiarono. Nulla di cui meravigliarsi, ce lo rammenta Alessandro Portelli: «Il calendario civile non ricostruisce la comunità come entità mistica e indifferenziata ma come luogo di differenze». Invece noi oggi viviamo in un Paese dove domina la favola di una società indifferenziata, in cui – da Montezemolo al precario di Foodora – siamo tutti uguali ed abbiamo gli stessi interessi. Ovvio che in questa narrazione ci sia spazio solo per un 25 aprile neutro, buono per tutti.
Com’è stato possibile che la festa sia stata neutralizzata? Le ragioni profonde vanno ricercate in quel passaggio, fra anni ’80 e ‘90, durante il quale l’antifascismo, per rilanciarsi e sopravvivere, ha cercato di trovare nuova linfa in un aspetto fino a quel momento rimasto marginale, l’antirazzismo. Ma il risultato di questo tentativo, nobile nelle intenzioni, alla fine è stato l’identificarsi dell’antifascismo in un antirazzismo vago, slegato dalle sue ragioni culturali, politiche ed economiche, funzionale ad un’ideologia liberale che ci racconta una società capitalista paradisiaca, nella quale la crisi è solo un incidente di percorso, in cui l’unico problema aperto resta solo quello della convivenza fra culture e persone diverse.
Ma con in mano solo l’antirazzismo non siamo più in grado di decifrare il presente. Cos’era il corporativismo, oggi che si affacciano progetti neocorporativi? Cos’era la legge Acerbo, oggi che si parla di legge elettorale? Cos’era la costruzione del consenso, oggi che tutta la politica si articola intorno al marketing? Cos’era il nazionalsocialismo, oggi che in Europa si espandono destre dai connotati sociali come la Lega? E per cosa si è battuta la Resistenza? Quali gli esiti politici, in Italia ed in Europa, delle guerre di Liberazione? E quali i risultati 70 anni dopo?
La Resistenza fu un fenomeno che unì le diversità, sia politiche che sociali, ma non all’insegna del vuoto, bensì in un progetto di rigenerazione dai tratti politici marcati. E fornì protagonismo agli esclusi, che in quella lotta trovarono una dignità anche nelle loro umili condizioni. Come Giacinto, un personaggio di Calvino: «Per questo facciamo i partigiani: per tornare a fare lo stagnino, e che ci sia il vino e le uova a buon prezzo». L’antifascismo seppe traghettare il popolo italiano fuori dal fascismo verso la democrazia, fino al passaggio dalla Monarchia alla Repubblica. C’era cioè una tensione al cambiamento in direzione della giustizia sociale, della solidarietà, dell’inclusione, c’era un concetto di pubblica utilità nel quale trovava un limite la libertà.
Basta leggere in fila alcuni articoli della Costituzione, esito della Resistenza, per coglierne il senso. Non solo il tanto citato art.1 dove la Repubblica viene fondata sul lavoro. L’art. 2 parla del dovere inderogabile di solidarietà politica, economica e sociale. L’art. 3 afferma la pari dignità sociale per tutti e prosegue: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e la eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». L’art. 4 afferma che: «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto». Con l’art. 35: «La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni». L’art. 36 stabilisce che: «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge. Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi». Nell’art. 37: «La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore». Nell’art. 38 viene stabilito che: «Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria». Gli articoli 39 e 40 affermano la libertà dell’organizzazione sindacale democratica e il diritto di sciopero. Infine, gli articoli 41 e 46 si spingono ancor più avanti. Nel primo si sancisce che l’iniziativa economica privata e sì libera ma: «Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali», ed il secondo ci porta ancor più in là: «Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende».
È sufficiente guardarsi intorno per vedere la distanza che ci separa fra quanto progettato dall’antifascismo e la nostra vita attuale. Per questo anche la festa torna ad essere scomoda se non viene svuotata nei suoi riferimenti: è bene perciò accantonare i temi della Resistenza, deviare sull’emotività legata al coraggio dei giovani partigiani, perché l’antifascismo, nelle sue varie anime, aveva previsto un futuro diverso da quello in cui invece viviamo e che le nostre classi dirigenti sostengono con tutti i mezzi a loro disposizione.
È la stessa constatazione che pochi anni fa ha animato l’invettiva di un vecchio partigiano francese, Stéphane Hessel, con una chiamata all’indignazione per le nuove generazioni che ha infiammato mezza Europa, ad eccezione dell’Italia, dove tutto si è risolto in maniera innocua – e con tutt’altre mire – su un blog. Scriveva Hessel ai giovani: «Hanno il coraggio di raccontarci che lo Stato non è più in grado di sostenere i costi di queste misure per i cittadini. Ma com’è possibile che oggi manchi il denaro necessario a salvaguardare e garantire nel tempo tali conquiste, quando dalla Liberazione […] la produzione di ricchezza è considerevolmente aumentata? Forse perché il potere dei soldi, tanto combattuto dalla Resistenza, non è mai stato così grande, arrogante, egoista con i suoi stessi servitori, fin nelle più alte sfere dello Stato. Le banche, ormai privatizzate, dimostrano di preoccuparsi anzitutto dei loro dividendi e degli stipendi vertiginosi dei loro dirigenti, non certo dell’interesse generale. Il divario tra i più poveri e i più ricchi non è mai stato così significativo; e mai la corsa al denaro, la competizione, erano state a tal punto incoraggiate. Il motore della Resistenza era l’indignazione. […] ora tocca a voi, indignatevi! I responsabili politici, economici, intellettuali e la società non devono abdicare, né lasciarsi intimidire dalla dittatura dei mercati finanziari che minaccia la pace e la democrazia».
Eppure, nonostante tutto, il 25 aprile è una festa popolare radicata, in molte zone d’Italia partecipata, non uccisa dalla classe politica – come si è voluto sostenere – ma ancora spazio di identificazione e di impegno. Una festa che necessità di ritrovare la sua ragion d’essere a partire proprio dalla politica dell’antifascismo, che significa oggi come allora saper riconoscere quel che avviene, ma non solo in chiave di semplice comparazione storica bensì al fine di attivarsi per una società basata sulla giustizia sociale e i diritti civili e non dominata dagli interessi di pochi.