da notizie.tiscali.it di Giovanni Maria Bellu 30 giugno 2014
In Canada, a Vancouver, hanno trasformato le panchine in rifugi provvisori ma accoglienti. A Bergamo il nuovo sindaco Giorgio Gori, come primo atto della sua amministrazione, ha ordinato la rimozione del bracciolo divisorio che il suo predecessore aveva fatto sistemare per impedire che le panchine venissero utilizzate dai senzatetto come giacigli. Invece, nella civilissima e tollerante Londra, sul pavimento all’esterno di alcuni lussuosi palazzi, proprio dove i muri formavano certe nicchie “interessanti” per gli homeless, sono stati fissati degli spunzoni di metallo che solo un fachiro potrebbe sopportare sotto il suo corpo.
Forse un giorno qualcuno scriverà la storia dell’immigrazione e della povertà metropolitana attraverso le storie delle panchine nei luoghi pubblici. Non c’è dubbio, infatti, che le misure anti-homeless o anti-clochard rivelano un’idea della società e delle relazioni tra le persone. Negli Stati Uniti, le associazioni che difendono i diritti umani hanno composto delle antologie che raccolgono i provvedimenti più assurdi e crudeli. Come l’ordinanza che, a San Francisco, vietava di sedersi o sdraiarsi sui marciapiedi della città dalle 7 alle 23. O l’interpretazione estensiva delle norme contro il campeggio abusivo che ha portato a multare persino chi si era per un momento seduto sul proprio zaino in un parco pubblico.
In Italia l’”uso discriminatorio della panchine” è stato introdotto a metà degli anni Novanta dal sindaco leghista di Treviso Giancarlo Gentilini, noto “lo sceriffo”, il quale, per impedire che si trasformassero in luoghi d’incontro per gli extracomunitari, decise di rimuoverle. E spiegò il provvedimento con queste parole: “Ho tolto le panchine perché era domenica e ho visto nella zona della stazione decine di negri seduti sulle spallette del ponte, altri extracomunitari seduti sulle panchine e sacchi e zainetti attaccati penzoloni ai rami degli alberi”. Da allora le panchine sono entrate nel dibattito politico nazionale. E la loro trasformazione, o ripristino, ha cominciato a segnare simbolicamente gli avvicendamenti tra sindaci.
A Treviso le panchine sono ricomparse dopo che, nel giugno dello scorso anno, Gentilini è stato sconfitto dal candidato del centrosinistra, il democratico Giovanni Manildo. Il quale, per “giustificare” la scelta – che dopo tanto tempo era quasi rivoluzionaria – ha dovuto imbastire un ragionamento analogo a quello che i fabbricanti d’armi oppongono a quanti vorrebbero impedire o limitare la vendita di pistole e mitra: “Se c’è un uso deviato di un mezzo – ha detto Manildo – non elimino il mezzo, ma creo le opportunità perché venga utilizzato in modo differente e corretto”.
D’altra parte, l’utilizzo della panchina, o meglio della sua eliminazione, a tutela del decoro cittadino, non è una prerogativa del centrodestra. L’annuncio del ritorno delle panchine a Treviso ha coinciso con l’annuncio della “rimozione selettiva” delle medesime a Mestre, cioè nella Venezia governata dal centrosinistra. “Le panchine – ha spiegato l’assessore all’Ambiente Gianfranco Bettin – verranno ripulite e collocate in giardini e spazi condominiali. Non c’è, in questo momento, altro modo per garantire la tranquillità ai residenti”.
A un certo punto, come in tutte le vicende della politica, anche nella questione delle panchine si è cercato un compromesso. A Bergamo l’assessore leghista Massimo Bandera, riprendendo un “esperimento” realizzato poco tempo prima a Gorizia sotto la pensilina di una fermata dell’autobus, anziché rimuovere le panchine ha pensato di ‘proteggerle’ facendovi sistemare al centro un bracciolo metallico. In questo modo la panchina rimaneva, e ci si poteva anche sedere, ma non sdraiare. Idea non priva di una certa astuzia che, però, non è bastata a evitare le polemiche. Appena ha visto il bracciolo, un consigliere dell’opposizione l’ha smontato e l’ha portato in consiglio comunale, come fosse l’ordine del giorno di un dibattito, che in effetti ha chiesto. Un mese fa la rimozione totale dei braccioli su ordine del nuovo sindaco.
La panchina è ormai diventata la trincea metropolitana delle battaglie contro (o per) l’emarginazione sociale. Tanto che uno scrittore dichiaratamente e radicalmente di sinistra come Beppe Sebaste alcuni anni da ci ha scritto un libro – “Panchine, come uscire dal mondo senza uscirne” (Laterza) – dove si può per esempio leggere: “La panchina è l’ultimo simbolo di qualcosa che non si compra, di un modo gratuito di trascorrere il tempo e di mostrarsi in pubblico, di abitare la città e lo spazio. La panchina è un luogo di sosta, un’utopia realizzata. È il margine sopraelevato della realtà, vacanza a portata di mano. È anche il posto ideale per osservare quello che accade”.
Sicuramente la vedono così a Vancouver dove l’associazione RainCity Housing, insieme all’agenzia Spring Advertising, ha installato una serie di panchine non solo accoglienti ma in un certo senso anche parlanti. Sullo schienale – che prosegue in un piccola tettoia, in modo che ci si possa riparare in caso di pioggia- ci sono delle scritte realizzate con una vernice sensibile ai raggi ultravioletti e alla luce del sole. Così l’avviso “Questa è una panchina”, leggibile la mattina, la notte diventa “Questo è il tuo letto”. E compaiono poi altre informazioni su dove recarsi se si vuole cercare una sistemazione più comoda o avere assistenza.
Anche in questo caso, è possibile rintracciare nelle “panchine umanitarie” di Vancouver un messaggio politico. Precisamente un messaggio interno al Commonwealth rivolto alla capitale Londra dove un mese prima erano comparsi gli spunzoni anti-homeless. Notizia che ha fatto rapidamente il giro del mondo suscitando molte critiche. Tanto che il sindaco Boris Johnson alla fine ha deciso di intervenire definendo l’iniziativa “stupida e autolesionista”.