Incontro Diego Fusaro in una tiepida serata invernale. Di questo giovane filosofo si è detto oramai di tutto. Gli manca solo l’accusa di aver mandato a morire nei gulag qualche oppositore politico, o di aver scritto di suo pugno le leggi razziali del ’38. Tutto lo stuolo di falsi comunisti non manca di dargli del fascio-marxista un giorno sì e l’altro pure. Non lo si può citare senza andare incontro a occhiatacce e risolini. Delle volte, solo far parte dei suoi followers su Facebook può portare al parossismo di essere ostracizzati dagli amici filopiddini. Sinceramente, non capisco tanta acrimonia ed è per questo che ho voluto conoscerlo e intervistarlo. Del resto, è uno dei pochi, tra i tanti giovani che si definiscono marxisti, a non farmi pensare a quei versi di Tu menti dei CCCP:

Questa volta sul serio, dicono sempre così: / “Io sono l’Anarchia” / “Ecco un altro Anticristo”. / Ma eri solo carino / Proprio carino / Pigro di testa / E ben vestito

Diego si è dimostrato da subito molto disponibile. “Ovviamente”, commentano i soliti maligni, “è un narciso: tu lo intervisti e lui si bea della tua attenzione”. Come se gli servisse un articolo di Matteo Fais per stare sulla cresta dell’onda! Invece, vi stupireste nel vedere che Fusaro non si dà per niente un tono. Il suo atteggiamento è rilassato e privo di affettazione. Si comporta come se ci conoscessimo da tempo. È cordiale, scherza. Non fa niente per far pesare che, pur essendo entrambi laureati in filosofia, lui è un docente universitario e io no. Certo il ragazzo è intelligente, mentalmente elastico, con una cultura straordinaria e parla di filosofia con la stessa naturalezza con cui i suoi coetanei discutono di calcio. Per non parlare del carisma! Ci sediamo per fare l’intervista come due che si incontrano e decidono di bere qualcosa insieme. La sua cortese spontaneità mi lascia di stucco.

A Fusaro si chiede sempre di parlare di argomenti quali Capitale, Potere, UE, oppure dei suoi cavalli di battaglia filosofici, come Marx e Gramsci, ma solo in stretta relazione alla condizione politica attuale. Vorrei invece che questa intervista – a cui preferisco pensare come a un dialogo aperto – vertesse sugli stessi temi, ma in relazione a Letteratura, Musica, Cinema. Per esempio, mi piacerebbe parlare dei rapporti tra Letteratura e Capitale. Ma andiamo con ordine…

Cosa legge Diego Fusaro, quando non legge filosofia? Quali sono i tuoi autori preferiti di narrativa?

Premetto che io leggo sempre di filosofia. Penso quindi di essere una delle persone più noiose al mondo (ride). Scherzi a parte, anche quando non leggo filosofia, leggo autori come John Steinbeck, Ignazio Silone, che hanno un retroterra filosofico piuttosto marcato. Mi piace anche Tabucchi. In generale, vado sui classici. Quelli più attuali, quando li apprezzo, è solo in misura minore. Ovviamente, amo molto anche Pasolini, per quanto lo consideri prevalentemente un filosofo.

Invece che mi dici della poesia, ti piace? Hai qualche poeta preferito?

Amo la poesia. Tra i contemporanei di più stretta attualità, ti direi che apprezzo molto Franco Fortini. Anche nel caso della poesia, vale comunque quanto detto prima: mi piacciono poeti con una chiara vocazione filosofica. Per tanto, amo molto la poesia classica greca, come Alceo, Teognide, Archiloco. Poi, certamente Pasolini, anche nella sua veste di versificatore, nonché Ezra Pound, Bertold Brecht e D’Annunzio.

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Ritieni che vi siano dei filosofi che sono anche dei bravi narratori o poeti?

Sicuramente, un grande filosofo che sia stato al contempo anche un grande scrittore, nel senso di abile nel rendere i suoi testi intriganti sul piano stilistico, è Nietzsche, che era per altro anche un notevole poeta. Però, mediamente i grandi filosofi non sono stati grandi scrittori. Per esempio, Hegel non è stato significativo da questo punto di vista. Marx invece , anche perché veniva dal giornalismo, dove aveva avuto modo di affinare la sua penna. Platone certamente è stato anche un ottimo narratore. In generale, il filosofo può essere un grande scrittore, ma per accidens.

Che mi dici di Sartre? Lo consideri un grande scrittore?

Diciamo che Sartre è un grande scrittore quando non scrive saggi di filosofia. Leggendo L’Essere e il Nulla, o Critica della ragion dialettica ti devi scontrare col fatto che non sono testi propriamente coinvolgenti da un punto di vista narrativo. Ben diverso è il caso de La nausea e A porte chiuse, che sono opere più accattivanti, ma filosoficamente meno dense.

Proprio Sartre in Che cos’è la letteratura? traccia una netta distinzione tra autori ribelli (ma nella loro essenza borghesi) e autori realmente rivoluzionari (perché spiegano ai propri contemporanei l’uomo in una determinata contingenza storica). Condividi queste categorizzazioni? Chi sono oggi gli autori ribelli e quelli rivoluzionari?

Sai, Sartre ragionava in un altro contesto storico. Direi che oggi i veri autori rivoluzionari sono quelli borghesi. Gli autori invece fintamente rivoluzionari e contestativi sono quelli antiborghesi e antiproletari, quelli che cantano la rivoluzione capitalistica che dissolve le vecchie forme borghesi, o proletarie. Per essere veramente rivoluzionario, a mio avviso, oggi un narratore dovrebbe mantenere un radicamento borghese e proletario, conservare le vecchie strutture di classe che invece il capitalismo vorrebbe far passare per superate…

Ma, tra i viventi, o tra quelli morti relativamente di recente, tu ritieni che ci sia un autore rivoluzionario?

No, non vedo autori rivoluzionari oggi nella letteratura italiana o internazionale. Se penso a qualcuno di rivoluzionario devo per forza guardare al passato. Penso a Steinbeck col suo Furore, a Pasolini. Ma non ne vedo di simili nella contemporaneità.

Ho bisogno di capire prima bene che cosa intenda tu per autori rivoluzionari. Ti ho sentito parlare di intellettuali e pensatori che sarebbero funzionali all’odierno pensiero unico in quanto, pur essendo apparentemente critici verso le storture del sistema, con la loro visione negativa offrono solo e unicamente l’immagine di un mondo inemendabile. Perché uno scrittore sia rivoluzionario pensi gli basti descrivere l’odierna situazione di catastrofe umana, sociale e culturale oppure ritieni che debba andare oltre e prospettare in termini chiari e netti un altro possibile mondo, un mondo positivo, magari scrivendo un’utopia?

Secondo me non basta che uno scrittore sbatta in faccia ai lettori le storture del sistema. Ti porterò un esempio narrativo che ha avuto anche un certo successo in Italia, Walter Siti col suo Resistere non serve a nulla. Un libro che bene o male mette a nudo le ingiustizie, che ti mostra il re nudo. Però poi, già dal titolo ti dice che non c’è nulla da fare, appunto resistere non serve a nulla. E, quindi, anche nella narrativa ritorna l’ideologia dell’intrasformabilità del mondo, che è poi la grande ideologia del Capitale post 1989. Per cui, tutti gli autori che smascherano le contraddizioni, ma poi non propongono il possibile superamento delle medesime, rientrano in questo quadro ideologico-narrativo. Sai, se mostri la stortura di un mondo predicato però intrasformabile in realtà è come se lo assolvessi, come se facessi un’apologetica…

Insomma, mi stai dicendo che è come se l’autore fosse consustanziale al sistema che critica, perché comunque in verità asserisce che dall’odierna situazione di negatività non si potrà mai venire fuori. È questo il concetto, se non ho capito male?

Questa è anche la vexata quaestio del posizionamento di Heidegger rispetto alla società capitalistica. Heidegger è un nemico del capitalismo, o è un suo apologeta? È una vecchia domanda, su cui si discuteva negli anni settanta. Da un certo punto di vista critica il capitalismo anche più di Marx, perché lui non ha più quelle illusioni che erano frutto, per esempio, di una certa idea di progresso. In questo egli è persino più radicale dell’autore del Manifesto. Però in Heidegger non c’è neanche lo slancio utopico-trasformativo. Non per niente dice, nella nota intervista apparsa sul Der Spiegel, che solo un Dio ci può salvare. Come dire che non c’è nulla da fare. Ciò lo mostra bene Lukács, che applica questo discorso finanche alla scuola di Francoforte: quando tu critichi anche fortemente una determinata società e insieme neutralizzi la possibilità del superamento della medesima, in realtà stai facendo un’apologetica di essa. Oggi, se vai a vedere, il successo dei critici sponsorizzati dal sistema capitalista sta in questo. Per un verso, dichiarano orribile il capitalismo, ma allo stesso tempo lo dipingono come intrasformabile. Io li chiamo i cantori della tecnica, quelli che si pongono nel solco di Martin Heidegger. E dall’altra, sul côté marxista, hai gli autori che, opposti al côté Heidegger, fanno la critica del capitalismo, però poi criticano in maniera altrettanto intensa le possibili alternative al capitalismo. Pensa a Toni Negri, o a Slavoj Žižek. Biasimano il capitalismo e poi dicono che lo Stato sovrano nazionale è fascista, o la famiglia in quanto tale omofoba. Criticano, nel contempo, il sistema e la possibile soluzione a esso…

Quindi un narratore, come un filosofo, per poter essere realmente rivoluzionario, non dovrebbe solo criticare le storture del sistema, ma anche proporre una possibilità altra?

Sì, il narratore è un filosofo che usa le immagini, un filosofo che usa la narrazione

Ma consideriamo per esempio un autore come George Orwell in 1984, oppure Saramago in Cecità. Secondo te in loro non c’è una reale antitesi al capitalismo, al sistema e al potere?

No che non c’è. Chiunque si ricordi il finale di 1984 lo sa: il protagonista finisce per amare il Grande Fratello. C’è quindi una sorta di pessimismo cosmico che glorifica il potere stesso. Infatti Lukács diceva in La distruzione della ragione che il vero autore di riferimento del capitalismo, nella sua fase moderna e contemporanea, è Schopenhauer. Quando questi fa valere il suo pessimismo, in realtà non fa altro che trasporre sul piano ontologico le contraddizioni della società capitalistica. In tal modo se ne ricava che, se le contraddizioni sono dell’esistente, non resta che rassegnarsi e accettare l’esistente così com’è.

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Esiste oggi uno scrittore che possa definirsi marxista, come a suo tempo vi furono Moravia, o Pasolini?

No, direi proprio di no.

Quindi, secondo te, con Pasolini muore il marxismo applicato alla letteratura?

Direi di sì. A te viene in mente qualche altro?

Direi di no. Dopo Pasolini, Moravia, Volponi…

Comunque, lasciami dire che li ritengo meno profondi di Pasolini, pur con tutto il rispetto. Stiamo pur sempre parlando di autori di serie A.

Ma anche a livello stilistico pensi che non ci sia nessuno che abbia equiparato Pasolini?

No, assolutamente. C’è qualcuno che, come Tabucchi con Sostiene Pereira, azzecca un libro, però poi manca quella produzione complessiva di livello sempre alto, come aveva appunto Pasolini.

Mi piacerebbe che ci parlassi del rapporto tra Letteratura e Capitale a partire da certi episodi delle ultime “produzioni” dell’industria culturale, quali a esempio Cinquanta sfumature di grigio. La letteratura è dunque veicolo di diffusione della mentalità capitalistica?

Mediamente sì. Lo è sempre stata. Solo che, ai tempi del capitalismo classico, la letteratura veicolava (pensa a Verga e Pirandello) un mondo valoriale borghese che non era solo quello del profitto. C’era dentro tutto un universo etico. Pensa adesso alla differenza tra Benedetto Croce e gli autori del liberismo contemporaneo. Benedetto Croce facendo l’apologia della società borghese capitalistica, come diceva Gramsci, difende non solo il capitale, ma anche la civiltà di Goethe e di Beethoven. Chi oggi fa l’apologetica del capitalismo finanziario difende solo il nudo rapporto di forza finanziario dietro il quale non c’è nient’altro. Quindi la letteratura diventa una pura narrazione encomiastica.

E in Cinquanta sfumature di grigio?

In quel libro hai proprio, nella fattispecie e ben condensato, lo spirito del tempo. È la grande narrazione odierna, dove c’è l’individuo isolato che racconta autisticamente le sue esperienze erotiche di godimento illimitato e dove l’altro – questo è curioso! –  figura sempre come mezzo per il godimento dell’individuo. In esso, il vecchio amore borghese è morto. C’è il godimento di un individuo che, come una monade senza finestre, mira al proprio piacere illimitato e acefalo, usando il suo prossimo. Non c’è nemmeno più il rapporto sessuale, solo l’autismo del godimento solitario. Se il capitalismo è sul piano economico plusvalore, deregulation, e abbattimento dei limiti dello stato sovrano; sul piano sentimentale diventa plusgodimento (come diceva Lacan), abbattimento della famiglia tradizionale che è l’equivalente dello stato su piano sentimentale, e fine di ogni forma di regolamentazione, deregulation erotica, cioè l’individuo che gode e che vede come fascista, omofobo ogni tentativo di dare un ordine alla propria vita.

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In realtà, però, qualcosa di simile a quello che si legge in Cinquanta sfumature lo si trovava anche in Venere in Pelliccia di von Sacher-Masoch, no?

Sì, solo che allora qualcuno ancora storceva il naso, mentre adesso quella è la norma. Intendiamoci: c’è sempre stato l’imprenditore capitalista votato al godimento, però un tempo era un’eccezione all’interno di un sistema ancora tutto sommato etico. Adesso, la figura dell’imprenditore gaudente è diventata punto di riferimento anche per le masse precarizzate.

Parliamo di musica, adesso. Che musica ascolti? Solo classica, o apprezzi anche qualcosa della così detta pop music?

Quando scrivo, ascolto sempre musica classica, Beethoven segnatamente. Mi interessa la musica pop, ma solo nella misura in cui mi restituisce il quadro della società in cui viviamo. Lo diceva già Adorno, del resto, parlando del jazz: in esso si condensa lo spirito del tempo. Se ascolti i testi delle canzoni odierne, senti proprio lo spirito del capitalismo attuale, liquido e flessibile. C’era una canzonetta di qualche anno fa che diceva “questa insensata voglia di equilibrio”. Mi colpiva, ogni volta che la sentivo. In realtà l’uomo ha sempre cercato di stabilizzarsi in forme equilibrate. Già lo stare, l’abitare, implica in sé la ricerca di una stabilità, di un equilibrio. Oggi, invece, la voglia di equilibrio diventa insensata, perché bisogna essere mobili, precari e liquidi. “Voglio una vita spericolata”, insomma, come cantava qualcuno.

Come vedi il Nobel conferito a Bob Dylan? Ha un senso parlare di un cantautore come fosse un poeta?

Onestamente, io considero il premio Nobel del tutto irrilevante, quindi che lo diano a Bob Dylan o ai Lùnapop non mi interessa. È un riconoscimento della società capitalistica, e sottolineo: capitalistica, ma senza essere più borghese. Che conferiscano i loro riconoscimenti a chi preferiscono!

Il tuo film preferito.

Beh, ne ho parecchi di film preferiti. Mi piace molto Goodbye Lenin, Il cielo sopra Berlino, Arancia Meccanica.

Il cinema può rappresentare realmente una possibilità di sovversione, malgrado i grandi capitali che devono essere mossi per produrre un film? Se pensi di sì, ti chiederei di fare il nome di un regista che ritieni essere effettivamente rivoluzionario.

Oggi non ne vedo, ma è possibile che sia per via della mia scarsa consuetudine con l’universo cinematografico. In passato ce ne sono stati… ecco, certo, Pasolini! Vedi, Pasolini lo troviamo ovunque perché è stato un grande regista, un grande poeta, un grande scrittore e anche un grande filosofo. Io lo vedo “un genio universale”, come si diceva sempre di Leibniz e il fatto che sia morto in solitudine, per poi diventare oggetto di un culto agiografico, la dice lunga…