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di Domenico De Masi
Il futuro passa attraverso una ridistribuzione del lavoro, della ricchezza, del sapere, del potere, delle opportunità, delle tutele e attraverso la possibilità anche per chi non lavora, nelle fasi in cui non lavora, di percepire un reddito di cittadinanza.
La nostra evoluzione sociale ha attraversato tre fasi molto diverse l’una dall’altra. Una lunghissima, dalla Mesopotamia fino alla metà del 1700 dopo Cristo, dominata praticamente dal modo di produzione agricolo e artigianale. E’ stata una lunga fase in cui però non c’è stato grande sviluppo tecnologico. Pensate ad esempio se Hammurabi, Giulio Cesare, Napoleone a tanti secoli di distanza l’uno dall’altro avessero voluto coprire il tratto Roma Parigi avrebbero impiegato lo stesso tempo, perché la tecnologia non ha avuto grande sviluppo.
Poi alla fine del Settecento c’è stata una grande rivoluzione dovuta allo sviluppo tecnologico, lo sfruttamento dell’energia a vapore, poi subito dopo l’energia elettrica, e poi i soldi, le ricchezze, le materie prime che arrivavano dal terzo mondo, e poi idee nuove portate avanti dai filosofi illuministi. L’insieme di tutto questo crea una grande rivoluzione che noi oggi chiamiamo “rivoluzione industriale”. In che cosa si distingueva la società industriale che poi è durata dalla metà del Settecento alla metà del Novecento, in che cosa si distingueva dalla società preindustriale? Per il fatto che al centro del sistema non c’era più la produzione agricola: si continuavano a consumare prodotti agricoli, anzi se ne producevano molti di più, però con meno contadini che erano sostituiti dai trattori automatici e dai concimi chimici.
La nuova società invece aveva al suo centro la produzione in grandi serie di beni materiali, i beni materiali sono i frigoriferi, i televisori, le automobili, tutto l’apparato ferroviario e così di seguito. Questa seconda società invece è vissuta sulla base di principi completamente diversi: la specializzazione spinta, la gerarchia nei luoghi di lavoro, la creazione di grandi fabbriche, la creazione di grandi città, pensate che New York nel 1801 aveva 70000 abitanti, nel 1901 aveva 7 milioni di abitanti, e questo è avvenuto anche a Parigi, a Londra in tutte le grandi città. E poi il consumismo: produrre molto per consumare molto, consumare molto in modo che si possa produrre sempre di più. Ma anche questa seconda tipologia di società dal suo stesso interno, dopo la seconda guerra mondiale, ha partorito una terza fase che io per comodità chiamo “società postindustriale”. Che significa? Significa qualcosa che continua a consumare molti beni agricoli, facendo riprodurre in gran parte da sistemi automatici, continua a consumare ancora di più prodotti industriali: automobili, frigoriferi e così di seguito, però il suo epicentro non è più la produzione di beni materiali ma la produzione di beni immateriali.
Cosa sono i beni immateriali? Sono i servizi, sono le informazioni, sono i simboli, sono i valori, sono l’estetica. Ora parallelamente a questa grande triplice trasformazione anche il lavoro si è trasformato. Per lunghi secoli è stato prevalentemente un lavoro fisico, nella metà dell’Ottocento quando Marx scrive il Capitale, la città più avanzata del mondo la più industrializzata è Manchester. Ebbene a Manchester 94 lavoratori su 100 sono operai, solo 6 sono impiegati o dirigenti o imprenditori. La evoluzione che c’è stata successivamente ha portato ad avere bisogno sempre meno di operai, sostituiti con sistemi meccanici, sempre meno di impiegati, sostituiti con gli elaboratori elettronici, sempre più invece di creativi.
Quindi allo stato attuale non abbiamo più il lavoro, dove per lavoro si intendeva il lavoro operaio prevalentemente metalmeccanico, ma abbiamo “i lavori”, cioè un lavoro di tipo lavoro fisico che è quello dell’operaio, c’è un lavoro intellettuale ma ripetitivo proprio come se fosse una catena di montaggio, in effetti è la catena burocratica quella dell’impiegato, e poi c’è il lavoro creativo vero e proprio. La situazione oggi è un terzo, un terzo e un terzo: cioè un terzo di lavoro operaio, un terzo il lavoro impiegatizio, un terzo di lavoro creativo. Però le leggi hanno tutte come punto di riferimento ancora l’operaio metalmeccanico, per cui alla fine poi non ci si ritrova con i conti. Per esempio che un minatore, un giornalista, un professore di università, un artista, un poeta vadano in pensione tutti allo stesso tempo, lo stesso anno, la stessa data, questo capiamo subito che è un’ingiustizia perché alcuni lavori sono usuranti altri no, alcuni lavori è bene non farli dopo una certa età e altri è invece necessario. Come evolverà tutto questo? Beh l’evoluzione principale, quella che costituirà il problema grande per i prossimi decenni, è che noi avremo sempre meno bisogno di lavoro umano per produrre sempre più beni e sempre più servizi.
Però questa è una bellissima notizia, da sempre abbiamo sognato di avere beni e servizi senza fatica, questo ora è possibile. Però come lo si risolve il problema poi della distribuzione del lavoro? In effetti mentre il comunismo sapeva distribuire i beni ma non li sapeva produrre, noi sappiamo produrre beni ma non li sappiamo distribuire, e uno di questi è proprio il lavoro. Per cui il padre lavora 10 ore al giorno e il figlio è completamente disoccupato. Come si capisce, il futuro passa attraverso una ridistribuzione del lavoro, della ricchezza, del sapere, del potere, delle opportunità, delle tutele e attraverso la possibilità anche per chi non lavora, nelle fasi in cui non lavora, di percepire un reddito di cittadinanza.
4 commenti
Non
mi sembra una gran novità la redistribuzione: novità sarebbe passare
dalla teoria alla pratica. Ma c’è sempre di mezzo il mare, un mare di
mediocrità: Renzi, Salvini, Berlusconi, Alfano, Meloni e i loro sodali e complici
in Parlamento. Poi c’è il M5S, senza storia
ne titoli ne padri nobili, con Grillo e Casaleggio…difficile gettare
il cuore ed il voto oltre ogni ragionevole dubbio, fortunato chi riesce a
farlo a cuor leggero.
Paolo Barbieri
Infatti il reddito di cittadinanza è all’ordine del giorno, in Italia, grazie ai partiti e il jobs act va proprio nella direzione che dice De Masi (o Rifkin).
Ho scritto che “non è una novità” giacchè se ne parla da anni, mentre novità sarebbe la sua realizzazione, che invece è di la da venire.
Mi pare che la proposta non sia dei 5stelle, ma con tanto di raccolta di firme è una proposta di SEL, del 2012.
Però va bene, vediamo.