Fonte: huffingtonpost
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di Tomaso Montanari, 21 dicembre 2016
“Facendo, credo, un gesto di coraggio, ma anche di dignità, io ho detto che se perdo il referendum non è soltanto che vado a casa, ma smetto di far politica, magari è un incentivo per tanti per andare a votare contro. Perché però lo dico, non è il tentativo di trasformare un referendum come ha detto qualcuno in un plebiscito, è l’assunzione di un principio, finalmente c’è responsabilità da parte di chi governa: siamo stati abituati ad avere per anni il pantano, sempre gli stessi che si davano il cambio in modo ciclico, io vorrei una cultura più anglosassone in cui fai uno, due mandati, io spero di farne due, e poi te ne vai.
Se però nell’elemento chiave di trasformazione del sistema, dopo che hai fatto la legge elettorale, che con il ballottaggio impedisce il consociativismo, dopo che hai fatto un’operazione di riduzione delle tasse che non aveva fatto nessuno, dopo che hai fatto il jobs act, anche discutendo su alcuni tabù della sinistra e oggi i risultati sono che la disoccupazione scende, dopo che hai fatto la riforma della pubblica amministrazione e della scuola, arrivi alla riforma costituzionale che è la partita sulla quale ti sei giocato tutto. Ecco, se io perdo devo avere il coraggio di dire che devo trarne le conseguenze in un Paese in cui non perde nessuno”.
Questo solenne, argomentato, impegno Matteo Renzi lo ha preso undici mesi fa, esattamente l’11 gennaio del 2016. Indietro non si torna. Non nel senso che Renzi voglia essere di parola: l’avesse fatto, gli avremmo reso l’onore delle armi, e gli avremmo rivolto il caloroso augurio di trovarsi un lavoro (non è mai troppo tardi).
Ma non l’ha fatto: ha lasciato la presidenza del Consiglio (non i fili con cui muove i pupi del Renzi-bis-senza-Renzi) solo per trasformare il Partito Democratico nel suo Fort Alamo (un Alamo dove, però, si spara soprattutto all’interno).
E tuttavia quel pubblico, solenne “patto” con gli italiani ha una sua forza oggettiva. Una forza fatale: Renzi aveva giurato di “lasciare la politica”, ed è quello che sta succedendo. Perché, smentendo se stesso in modo così clamoroso, e dunque perdendo la faccia in modo irreversibile, Renzi lascia la politica e svela platealmente la sua appartenenza al “lato oscuro della forza”: cioè al potere per il potere, all’eterno gioco di corridoio, alla congiura e all’intrigo.
La vera sconfitta – quella indelebile – non è quella inflitta dai 19 milioni e rotti di No: la vera sconfitta è l’immagine orrenda di Renzi che si aggrappa disperatamente alla poltrona di segretario del Pd, e piazza la Boschi e Lotti in pancia al governo Gentiloni.
È l’epilogo – meschino, avvilente, degradante – di un’avventura individuale superomistica, culminata nel clamoroso finale in cui l’uomo della provvidenza porta a sbattere contro un muro il suo partito, il suo governo, il suo Paese. Per poi passare dalla tragedia alla farsa: siccome tutto è finto, tutto è solo storytelling, il capo si rialza, come se nulla fosse.
Se la situazione non fosse terribilmente seria verrebbe da citare Mogol e Battisti: “Ancora tu: ma non dovevamo vederci più?”. O, con i più smaliziati, un verso del surreale Cadavere spaziale di Riz Samaritano, canzone del 1963 splendidamente recuperata da Elio e le Storie Tese: “Il cadavere piangeva, e morire non voleva…”.
E allora, visto che ormai è chiaro a tutti che con Renzi avremo ancora a che fare fino a che non avrà maturato una pensione, bisognerà essere terribilmente (e spiacevolmente) chiari. Si è molto discusso sul rapporto tra Renzi e la sinistra. A me pare che la questione non esista. Se non si fosse fatta la fusione fredda tra eredità democristiana ed eredità comunista, Renzi starebbe dall’altra parte.
Egli non è nemmeno un riformista timido: è un liberista naturale, un conservatore per vocazione e per interesse. Culturalmente, è un prodotto abbastanza tipico degli anni Ottanta e dei primi anni Novanta del Novecento: è lì che si forma il suo orizzonte politico. E non si forma per opposizione, ma per assimilazione: la sua idea di “modernità” coincide con quella di Tony Blair. Politicamente Renzi è post-ideologico: nel senso che non ha alcuna visione, né alcun progetto. Come mi ha detto una volta il suo amico Giuliano Da Empoli, Renzi è “un treno. Velocissimo e capace di sfondare moltissime barriere. Ma rigorosamente vuoto”. Un mezzo senza contenuti: se non lui stesso. È puro marketing: cioè vendita continua.
Il che spiega (sia detto tra parentesi) il suo radicale odio per il senso critico, i “professoroni”, i gufi, la cultura intesa come conoscenza e giudizio sul mondo: cioè verso tutto quello che può rompere l’ipnosi del marketing. All’interno del pacco che egli tele-vende non c’è niente altro che lui stesso: niente altro. In Renzi mezzo e messaggio coincidono perfettamente: il mezzo è Renzi, il messaggio è Renzi. È così da quando faceva “politica” al liceo: il suo unico progetto è il potere.
Potere personale, potere del clan. Bisognerà pure dirlo con chiarezza: il fenomeno Renzi si spiega più con la logica del gangsterismo, cioè delle bande, che non con quella della politica. Il suo “giglio magico” non ha alcun cemento ideologico: non ha contenuti, né progetti. L’unica regola è la sottomissione al capo, l’unico scopo è la conquista e la suddivisione del potere. Il Partito Democratico è stato scelto perché facilmente scalabile a causa dello spappolamento del suo gruppo dirigente. Ma se domani Renzi dovesse essere messo in minoranza, un partito personale (o qualunque altro cavallo potenzialmente vincente) sarebbe dietro l’angolo.
Nessuno è in grado di dire cosa abbia fatto Renzi da presidente della Provincia o da sindaco di Firenze: difficile dire se abbia governato bene o male. Non ha governato: ha garantito interessi, e ha costruito la propria folgorante carriera. Arrivato a Palazzo Chigi Renzi ha avuto un problema: non era più il momento di vendere.
La linea politica del governo romano è stata la stessa del governo fiorentino: semplicemente rafforzare lo stato delle cose, e garantire gli interessi di chi gli aveva consentito di arrivare repentinamente fin lì (tutti tranne il popolo sovrano, per capirsi). Una linea conservatrice, di destra blairiana: non per ideologia, ma perché le cose sono già orientate così, e bastava assecondarne l’inerzia.
Un’inerzia punteggiata da alcuni scossoni a destra (il Jobs Act su tutti, ma anche la legge Madia contro la Pubblica Amministrazione, la Buona Scuola e lo Sblocca Italia) e da una serie di elargizioni una tantum che potessero provare a tappare la bocca alla sinistra. Con vent’anni di Renzi al potere cosa sarebbe successo? I ricchi sarebbero stati più ricchi, i poveri più poveri. Stop.
Ma c’era una sproporzione troppo evidente tra il marketing del cambiamento e della rottamazione e la realtà di una gestione opaca e conservatrice dei rapporti di forza sociali attuali. Insomma: se dopo quasi tre anni di “rivoluzione” non cambia un accidenti, anche lo storytelling più spericolato inizia ad andare in sofferenza.
Soluzione: inventiamo un altro pacco. Il padre di tutti i pacchi: il referendum costituzionale. Poco importa del contenuto: potrei giurare che Renzi nemmeno l’aveva letta tutta, la riforma. Doveva annoiarlo a morte. Era una roba di Napolitano, ma Renzi ci ha visto la grande occasione: mettere se stesso nel pacco (il plebiscito-rischiatutto-prendere-o-lasciare) e ricominciare a correre.
Solo che stavolta era tutto troppo scoperto. Tutto: l’egotismo del capo, la sfacciataggine dei suoi pretoriani, il gioco del potere buttato in faccia ad un Paese sempre più impoverito e abbandonato. Gli italiani hanno capito e hanno detto un monumentale No. Non perché odino Renzi, no: perché hanno capito che Renzi ama solo se stesso.
La sera del 4 dicembre ero contento anche perché pensavo – quanto ingenuamente! – che non avrei mai dovuto scrivere righe come queste. Pensavo che Renzi avrebbe fatto quel che aveva promesso, ritirandosi a una serena vita privata nella provincia toscana: restituendoci la possibilità di parlare di visioni, progetti, problemi e soluzioni. Un finale dignitoso, dopo tanta sguaiatezza.
Gli italiani hanno capito che Renzi non fa politica perché sia curioso di conoscere la realtà. Né tantomeno perché abbia voglia di cambiarla: hanno capito che il suo unico scopo è cavalcarla, il più veloce possibile. Ora la domanda è: lo capirà anche il Partito Democratico? Lo capirà anche quella parte di sinistra che vede se stessa come una corrente esterna di quel partito? Prima lo si capisce, e prima si archivia Renzi, e prima si può ricominciare a pensare al futuro della sinistra e del Paese.
17 milioni di italiani sono sulla soglia della povertà: forse è venuto il momento di concentraci su di loro.