Fonte: Il Fatto Quotidiano
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Analizzando la socialdemocrazia nel 1911, Robert Michels parlò di legge ferrea dell’oligarchia: per come si organizzano, e per come tendono a occuparsi della sopravvivenza degli apparati, i partiti diventano pian piano gruppi chiusi, corrompendosi. ll loro scopo diventa quello di conservare il proprio potere, di estenderlo e di respingere ogni visione del mondo che lo insidi. Si fanno difensori dei vecchi ordini che Machiavelli considerava micidiali ostacoli al cambiamento e al buon governo delle Repubbliche. Anche le menti si chiudono, e la capacità di riconoscere e capire quel che accade nel proprio Paese e nel mondo circostante si riduce a zero.
Una risposta popolare a questa legge ferrea la stiamo osservando con la vittoria di Trump. Ma ovunque in Europa un numero crescente di elettori boccia i poteri costituiti, se ha l’opportunità di esprimersi in elezioni o referendum. È un rigetto diffuso dell’establishment globalizzato, delle politiche neoliberali che quest’ultimo ha fabbricato per far fronte alla crisi e dei metodi opachi, concordati e decisi “a porte chiuse”, con cui tali strategie continuano a essere imposte. A questa politica del disprezzo, i popoli stanno rispondendo in modi diversi e distinti fra loro: con la rabbia, con il risentimento, o con la tendenza a cercare capri espiatori. Le tre modalità vengono tutte respinte allo stesso modo, senza alcuno sforzo di distinguerle, e la risposta viene in blocco definita populista o estremista. La Clinton ha addirittura parlato di fine del mondo, rivolgendosi agli elettori: “Io sono l’unica cosa frapposta tra voi e l’apocalisse”. Al contempo, non ha esitato ad ammettere la sua “lontananza” dalle classi medie sempre più depauperate e incollerite. In un discorso alla Goldman Sachs nell’aprile 2014 rivelato dalle email pubblicate da Wikileaks, ha detto: “In qualche modo mi sento lontana (dalle lotte della classe media), e questo per la vita che ho vissuto e per il patrimonio economico di cui io e mio marito oggi godiamo”.
Ma Wikileaks ha rivelato altro. Il Comitato nazionale democratico ha commesso un suicidio, facendo di tutto per garantire la vittoria alle primarie del candidato meno competitivo contro Trump, ossia Clinton stessa. Ha sabotato altre candidature: prima fra tutte quella di Bernie Sanders, dato per vincente contro Trump da almeno tre sondaggi (in uno di essi con un distacco di 15 punti). Ha trasmesso in anticipo allo staff di Clinton domande essenziali che sarebbero state poste nel dibattito con Sanders di marzo. Il campo delle cosiddette sinistre negli Usa avrebbe forse potuto vincere contro Trump. Era più forte, organizzativamente, di un fronte repubblicano disgregato da un decennio. Non ha voluto farlo, ha ceduto alla lobby clintoniana, e di fatto ha preferito perdere, precipitando nel baratro senza nemmeno guardarci dentro.
Non siamo di fronte a un’incapacità di percepire lo stato d’animo degli elettori. Siamo di fronte a una precisa non-volontà di capire e imparare. La democrazia comincia a esser qualcosa che mette paura e lo stesso suffragio universale viene messo in questione: il comportamento delle vecchie sinistre europee sdogana un’offensiva che ricorda polemiche ottocentesche e che riappare nelle strategie di Renzi in Italia (mantenimento delle strutture delle province senza partecipazione diretta dei cittadini; creazione di un Senato non più eletto direttamente). Vengono messe in questione perfino le Costituzioni nazionali, sospettate di ostacolare la “capacità di agire rapidamente”degli esecutivi: qualsiasi richiamo al rapporto Jp Morgan è divenuto lo zimbello della rete highbrow, alla stregua delle scie chimiche. Ma contrariamente alle scie chimiche, quel rapporto esiste davvero. Quanto ai giornali, appaiono elogi disinibiti dell’oligarchia, presentata come sviluppo naturale e auspicabile della democrazia: anzi, come la natura stessa della democrazia. Clinton simboleggiava tale involuzione delle cosiddette sinistre, oggi al servizio di lobby nazionali e transnazionali.
Questa sinistra e il giornalismo mainstream sono ovunque sconfitti e smentiti, ma non sembrano voler imparare nulla. L’elettore fa loro sempre più paura, e per questo le sue espressioni di rabbia o risentimento vengono sommariamente declassate come populiste. Lo stesso accade con i Parlamenti: in vari modi si tenta di depotenziarli, perché accusati di impedire politiche decise nei piani alti. Il Partito democratico Usa, i Partiti socialisti in Francia e Spagna, il Partito democratico guidato da Renzi: tutti sono chiusi in trincea, lavorando a larghe intese per fronteggiare il populismo che incomberebbe.
È un fenomeno che dura da tempo. Ricordiamo la paura suscitata nelle vecchie sinistre dalle elezioni e dai referendum in Grecia o dalle elezioni spagnole. Andando più indietro, fu assordante il silenzio del Pd di fronte all’offensiva di Monti contro il Parlamento e, indirettamente, contro il suffragio universale. Il 6 agosto 2012, l’allora presidente del Consiglio rilasciò un’intervista a Der Spiegel e senza remore dichiarò: “Capisco che (i governi) debbano tener conto del loro Parlamento, ma ogni governo ha anche il dovere di educare le Camere: se io mi fossi attenuto meccanicamente alle direttive del mio Parlamento non avrei mai potuto approvare le decisioni dell’ultimo vertice di Bruxelles”.
Poco dopo, nel settembre dello stesso anno, in un incontro a Cernobbio, Monti propose a Herman Van Rompuy, allora presidente di turno del Consiglio europeo, un vertice dell’Unione interamente dedicato alla minaccia del populismo: “Per fare il punto e discutere su come evitare che ci siano fenomeni di rigetto (…) Siamo in una fase pericolosa (…) In Europa c’è molto populismo che mira a disintegrare anziché integrare”.
Tutte ciò è stato completamente assorbito dalle sinistre, fin nel linguaggio. In questa maniera esse hanno legittimato il discorso antidemocratico che serpeggia sempre più insistente nelle élite. Sono entrate anch’esse, senza complessi, nella postdemocrazia descritta da Colin Crouch (Postdemocrazia, Laterza 2003). In Europa si mostrano ogni giorno favorevoli a larghe intese con i Popolari per meglio far quadrato contro i cosiddetti estremismi.
Un’ultima considerazione sul Movimento Cinque Stelle, sbrigativamente assimilato dalla grande stampa ai populismi di Trump o di Le Pen. Poco conta quel che il M5S propone, o le sue battaglie nel Parlamento europeo per una diversa politica economica, per il rispetto delle leggi internazionali nelle politiche di migrazione e asilo, per una politica estera che non trascini l’Europa nella nuova guerra fredda con la Russia che la Clinton favoriva. L’unica frase di Grillo messa in rilievo in questi giorni è quella sul “vaffa day americano”, come se fornendo quest’analisi avesse anche “esultato” per la vittoria di Trump, e non l’avesse invece descritta realisticamente. Non è dato sapere se abbia davvero esultato: tanto più che sul finire della campagna elettorale non si è pronunciato, a differenza di Salvini, in favore di Trump. Grillo ha solo puntato il dito su quel che spinge gli elettori a reagire all’establishment, di volta in volta con rabbia o risentimento o anche con slogan xenofobi. L’Italia è l’unico paese nell’Ue dove l’estrema destra viene “trattenuta” e assorbita da un Movimento per forza di cose contraddittorio, ma democratico. Se Salvini ha un elettorato ristretto lo dobbiamo al M5S.
Marco D’Eramo ha ragione, quando scrive sul sito di Micromega: “Non è per niente certo che si realizzi l’auspicio di Slavoj Zizek, che si augurava la sconfitta di Clinton e l’elezione di Trump perché, secondo lui, avrebbe dato una sveglia alla sinistra. Troppo profondo è il sonno della ragione in cui la sinistra è piombata, da decenni”.
Il guaio è che la vecchia sinistra non crede di vivere il sonno della ragione. Crede d’incarnare la ragione ed esser più sveglia di tutti gli altri.