Stiamo diventando tutti più scemi?

per Gabriella
Autore originale del testo: Alessandro Gilioli
Fonte: l'Espresso
Url fonte: http://gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it/2016/10/01/stiam-diventando-tutti-piu-scemi/

di Alessandro Gilioli,  1 ottobre 2016

Di dubbia utilità per chiarire agli italiani su che cosa si voterà tecnicamente il 4 dicembre, il dibattito di ieri tra Renzi e Zagrebelsky è stato invece prezioso per confrontare due approcci cognitivi alla democrazia, ai cittadini, ai media, alla politica, al passato e al futuro. E si tratta di due approcci cognitivi agli antipodi.

A destra sul nostro schermo c’era un signore – Zagrebelsky – per il quale la complessità è un valore. Bastava vedere la quantità di frasi subordinate, bastava vedere lo sforzo (spesso “fisico” e quasi sempre vano) nel tentare di sintetizzare nei tempi televisivi questioni costituzionali sempre in bilico tra il giuridico e il politico, tra la forma e la sostanza, tra il singolo articolo e il quadro complessivo.

C’era, a destra dei nostri schermi, un signore che ha dedicato una vita a spiegare che la democrazia rappresentativa non è il sistema in cui comanda chi ha più consenso in un’istantanea dell’opinione pubblica, bensì è un insieme di regole, comportamenti, soppesamenti, bilanciamenti, garanzie, limiti, collaborazioni e confronti: e questo, secondo lui, è ciò che rende migliore una democrazia diffusa da una plebiscitaria.

A sinistra c’era invece un altro signore – Renzi – che ha come visione e obiettivo la semplicità e/o la semplificazione, il superamento degli ostacoli, la realizzazione rapida di ciò che ha deciso il leader che ha preso più voti.

C’era un signore, a sinistra nel monitor, secondo il quale lo scopo di una riforma costituzionale è il superamento dei (troppi, secondo lui) intralci che la democrazia disegnata dai nostri padri costituenti pone al leader della parte che ha vinto le elezioni, anche se le ha vinte di un solo voto e con una maggioranza solo relativa.

Questa dialettica è stata la cifra – a volte sottintesa – di tutto il confronto, la cui natura mediatica ha ovviamente consentito al secondo di maramaldeggiare: la televisione è infatti per antonomasia il luogo della semplificazione, a iniziare proprio dalla banalizzazione del messaggio, dal tempo ridotto in cui lo si deve comunicare, dal reperimento della frase concisa e sintetica che attira l’attenzione del telespettatore e gli resta dentro.

La televisione è il luogo-medium nel quale la semplicità è regina, anzi è essa stessa semplificazione in sé, per natura: quindi è del tutto contronatura farvi passare una teorizzazione del valore della complessità.

La vittoria mediatica di Renzi è stata pertanto evidente e abbastanza strabordante, direi. Al netto forse di qualche strafottenza di troppo, di qualche paraverbale che per artificiosità e arroganza gli ha creato saltuari effetti boomerang nella ricerca della simpatia, ma si sa che Renzi è fatto così e non lo si cambia.

Se però usciamo dalla logica del ring e del chi “ha vinto”, è stato interessante vedere – in controluce, dietro quei due signori, dietro le loro diverse convinzioni e modalità espressive – tutta la crisi della democrazia contemporanea, dagli Stati Uniti all’Europa: un sistema di autogoverno dei cittadini che la cultura occidentale ha elaborato in diversi secoli, con molta fatica e molto sangue, e che adesso attraversa una crisi epocale, svuotata com’è da poteri, meccanismi e dinamiche che nessuno ha eletto.

E l’aspetto interessante stava nelle due diverse risposte a questa crisi: da un lato Renzi, convinto che il problema consista nell’insufficiente perimetro decisionale del leader eletto, quindi nell’eccesso di “intralci”- cioè di distribuzione e bilanciamento dei poteri; dall’altro Zagrebelsky, secondo il quale proprio perché la democrazia decide sempre di meno bisogna renderla più diffusa, più orizzontale, più partecipata, più condivisa, in altre parole più abitata da ciascuno di noi, meno regalata a un “capo”.

“Capo” del resto è stata la parola-boa del confronto, a un certo punto.

Con Zagrebelsky che faceva notare come per la prima volta questa parola viene inserita nelle norme fondanti di una democrazia, mentre secondo lui in democrazia non ci deve essere un “capo” come tale, bensì un servizio per la garanzia di tutti; Renzi invece che la difendeva, quella parola, soprattutto dal punto di vista dell’efficacia decisionale, ma anche da quello della legittimità democratica, in quanto capo eletto. In quanto “unto dal Signore”, si diceva un ventennio fa, laddove “il Signore” era il popolo, quindi conferiva piena legittimità democratica al comando.

Tutto questo, appunto, pone domande che travalicano i nostri confini, e che hanno a che fare con tutta la crisi delle democrazie rappresentative, con la personalizzazione-concentrazione della politica ma anche con l’utopia-distopia opposta, quella cioè basata sull’assemblea permanente dei cittadini-decisori nell’agorà digitale.

Tutto questo è stato culturalmente prezioso, si diceva: tuttavia mi pare che ieri sera abbia avuto a che fare un po’ marginalmente – diciamo, “come sfondo” – con i contenuti della riforma Boschi.

La quale riforma ha soprattutto alcune caratteristiche discutibili che in parte ieri sera sono emerse ma in parte no (almeno se non vogliamo credere che il suo ubi consistam sia nel risparmio di qualche stipendio e nell’abolizione del Cnel).

Ad esempio, l’allontanamento dei cittadini dalla rappresentanza e dai luoghi della decisione. Il Senato – con tutti i poteri che gli sono rimasti, tutt’altro che indifferenti – verrebbe scelto dal ceto politico anziché dagli elettori. E questo è un punto non irrilevante: perché se anche accettassimo l’idea che il “capo” debba avere meno intralci, non pare il massimo considerare tra questi intralci anche i cittadini. Un allontanamento, peraltro, confermato dall’aumento di numero di firme necessarie per una legge di iniziativa popolare.

Altrettanto marginalmente – a parte un passaggio quando davanti alla tivù eravamo rimasti in pochi malati di politica – è emersa la questione del nuovo pezzo di classe dirigente con doppio incarico, amministratori locali e senatori della Repubblica: il che nel migliore dei casi significa che questi svolgeranno male uno dei due incarichi, nel peggiore dei casi vuol dire che tra gli amministratori locali si cercherà di diventare senatori per carriera, per status, per traffico di influenze, per ottenere l’immunità parlamentare.

Ma quello che è emerso in modo ancora meno chiaro è il grande paradosso di questa legge, cioè il maggior livello di complicazione dei meccanismi legislativi, determinato sia dall’articolo 70 sia dal nuovo rapporto Stato-regioni. Riuscire a diminuire la partecipazione dei cittadini aumentando il livello di complicazione legislativa è un record tutto italiano e (altro paradosso) è esattamente frutto di quella cultura da azzeccagarbugli che Renzi ha attaccato per tutta la serata.

Infine, grazie al recente cambiamento di rotta voluto da Renzi, non si è di fatto potuta affrontare la questione del sistema di rappresentanza complessivo che emergerebbe dalla riforma Boschi e dalla futura legge elettorale, insieme. Perché il mix tra Italicum e Senato boschizzato era una cosa da brividi, ma adesso il premier si fa forte del fatto che l’Italicum verrà cambiato, quindi non accetta critiche sul “combinato disposto”. Peccato che non si sappia come verrà cambiato, quindi andremo a votare una riforma costituzionale i cui effetti saranno diversi a seconda della legge ordinaria che verrà fatta dopo, per l’altro ramo del Parlamento.

Andremo a votare, in sostanza, senza avere gli strumenti per sapere quali effetti reali avrà il nostro voto: e anche questa impossibilità di conoscere le conseguenze della nostra scelta dà la misura della sempre maggiore sottrazione di potere ai cittadini, dell’allontanamento tra elettori e decisioni reali.

Non so se tutto questo sarebbe potuto emergere, in televisione, per i motivi di cui sopra.

Probabilmente no.

Il che fa venire il dubbio che il referendum del 4 dicembre sia – culturalmente parlando – anche un referendum su questo: cioè sul valore o disvalore della semplificazione estrema, della “SpotPolitik” (cit. Giovanna Cosenza), della politica post-verità o di messaggi iperpopulisti e distorsivi come questo – peraltro non esclusivi di Renzi, sia chiaro, ma trasversalissimi.

Ecco, forse evitare di precipitare lì – nello “stiam diventando tutti più scemi” cantato da Gaber – è perfino più importante che schivare il pasticcio della Boschi.

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