di Alfredo Morganti – 28 settembre 2016
Ho letto l’intervista di Carlo De Benedetti sul Corriere. Accanto ad analisi anche interessanti (ad esempio, colpisce che un imprenditore faccia una critica aperta della globalizzazione come fonte di deflazione generalizzata e causa di un aumento esponenziale delle ingiustizie sociali), il Presidente del Gruppo L’Espresso si è distinto per non aver mai utilizzato i termini ‘destra’ e ‘sinistra’, se non incidentalmente. La sua interpretazione della crisi non è solo economica, ma gli strumenti che adopera sono ‘tecnici’, ossia non lasciano intravedere e non indicano la possibilità di trasformazioni nell’assetto sociale ed economico, se non aggiustamenti tutti interni al contesto (l’economia globalizzata) pur drasticamente criticato. Per dire, una ‘svolta epocale’ è, secondo De Benedetti, prodotta dalla Cina che compra 70 km di costa cambogiana per farci un porto immenso. Ma anche qui siamo solo alla struttura, siamo all’economia. Come se il mondo potesse davvero ridursi ai soli rapporti economici, alla sola forza latente o manifesta che c’è nella lotta per la conquista delle risorse, per quanto di tratti di una spinta propulsiva decisiva. La visione ‘tecnica’ è tutta in questo sondare la struttura alla ricerca di ragioni fondamentali. Una specie di marxismo della grande borghesia, che non vede o nasconde invece quanto si muove o si potrebbe (dovrebbe) muovere in campo sovrastrutturale. Anche perché oggi molta sovrastruttura non esprime rapporti riflessi, ma è centrale quanto la manifattura, e forse di più. Pensate all’informazione digitale, pensate alla comunicazione, oppure persino alla potenza delle campagne elettorali per la quantità di risorse impegnate a creare PIL, nonché al peso dei servizi (immateriali) compresi nella quota del prodotto interno lordo.
La tecnica è, dunque, questo insistere pervicacemente sulla struttura, sui rapporti di produzione, sulle determinazioni imposte dall’economia, quasi ignorando la politica e la cultura (nonché le istituzioni), che esprimono ben più che l’economia la volontà di trasformazione e il senso di una mutazione degli effettivi rapporti di potere (oppure della loro conservazione). Che non vuol dire abbandonarsi al trionfo della volontà o della vitalità dei movimenti, quanto uscire dall’idea, centrale per la tecnica, che esista una sola ed efficace soluzione possibile al problema posto. Una: quella indotta dai meccanismi economici, e da chi ne tira le leve. In realtà, le soluzioni sono tante, in base alle opinioni politiche, e l’efficacia non è questione matematica o causale ma l’effetto del prevalere di un’opinione o di un interesse sull’altro nel corso di una lotta, che la democrazia regola quotidianamente. Perché la sinistra e la destra muoiono? Perché la sovrastruttura, le ideologie, le istituzioni, i partiti, la cultura perdono di peso, e il mondo viene abbandonato ai servomeccanismi o presunti tali dell’economia e dei poteri che se ne contendono le risorse. È come se una macchina (la struttura) fosse messa a folle velocità e abbandonata a se stessa, senza alcun pilota che ne decidesse il percorso (sovrastrutture). È ovvio che un capitalista pensi alla tecnica come ‘alla’ soluzione (significa avere mani libere rispetto alla politica e alle istituzioni, e quindi meno tasse, meno piani, meno indirizzi, meno gabbie, meno tutela del lavoro), e combatta l’idea che regole, norme, indirizzi politici e opinioni possano indirizzare democraticamente il mondo. Perché senza la politica, la tecnica diventa una specie di somaro malato di coazione a ripetere. Come nel caso del quantitative easing, che non produce alcun effetto davvero inflattivo, anzi, ma si fa perché si è sempre fatto così. Fu Roosvelt a trovare il bandolo della matassa, non un governatore centrale. Fu la politica a salvare l’Europa dal nazismo, non gli industriali. Furono i partiti a guidare il dopoguerra e poi la ricostruzione, non gli imprenditori. Ma questo non è chiaro nemmeno più alla sinistra, ecco perché scompare e finisce per affidarsi (come la destra) ai ponti, alle grandi opere, ai grandi eventi e alla tecnica elettorale per vincere le elezioni. Rinunciando a trasformare il mondo nel senso della giustizia sociale.