di Alfredo Morganti – 24 agosto 2016
Parlo da profano. Ma questo non significa che le mie parole non abbiano alcun valore, anzi. Tante volte i profani vedono cose che voi umani nemmeno intuite. Se c’è una cosa che mi fa impazzire, direbbe la grande Mina, è il valore del PIL. Non tanto lo specifico valore in sé, quanto il gioco arzigogolato delle previsioni, a partire dalle quali si costruiscono le manovre economiche o prendono corpo i parametri percentuali di riferimento che vedono il PIL stesso quale divisore di singoli rapporti (es. deficit/PIL). Ebbene, queste previsioni variano ogni volta da ente a ente di riferimento, sia esso la Banca d’Italia, o il MEF, oppure la Confindustria, la CGIA di Mestre, il sindacato, le grandi agenzie internazionali. E spesso variano di moltissimo. Ho avuto l’impressione talvolta che si stessero davvero dando i numeri. Come se non bastasse, i dati reali poi svicolano da ogni previsione, dando l’impressione che le previsioni stesse non siano state formulate per tentare di ‘azzeccare’ il valore vero, ma in termini puramente astratti e convenzionali. Matematica pura, insomma. Autoreferenzialità totale. Mi spiego. Se ho in mente un certo tipo di manovra, mi cerco un valore di PIL di previsione che sia adeguato a quella manovra, che la giustifichi. O comunque, ipotizzo una percentuale adeguata alle scelte che vorrei compiere. Quando si presenterà la realtà, vedremo. Ma è così, a cascata, anche per altri valori, come quello percentuale del deficit. Lo amplio oppure lo riduco sulla base delle mie necessità. A fare le correzioni ci sarà tempo. E se anche non volessi fare manovre correttive, dichiaro di inasprire la lotta all’evasione, oppure taglio le spese sanitarie e chi s’è visto s’è visto.
Ora, fuori di economia, quello che mi colpisce è proprio questa convenzionalità, che rende tutto così virtuale, congetturale, ipotetico. Oggi ci sono gli esperti di economia stocastica, pensate. Una specie di videogioco che ha come posta la nostra vita, questa sì, a meno di smentite, reale. Mi sgomenta che le previsioni non vengano calibrate sulla realtà possibile, su quella che verrà, ma abbiamo quasi un valore in se stesse. Non sono ipotesi che puntino al ‘vero’, ma che valgono da sé e si rispecchiano da sole. Un virtuale senza confini e senza vergogna, aggiungerei. Che però, è perfettamente in linea con il nostro rapporto attuale col mondo, a partire dalla politica. La vita è chiusa in un fazzoletto, le decisioni politiche si ‘verticalizzano, tendono a essere sempre più limitate negli attori che le intraprendono, vengono circoscritte nei luoghi (spesso non elettivi) ed evitano un raffronto con lo scenario reale. Non ‘intendono’ alla realtà, ma ad altro, a eventuali sogni, a frame ideologici, a quel che bolle nella mente di qualche esaltato messo a capo di un Paese. Intendono alle intenzioni, ma non alla realtà. Non è un problema di numeri e cifre, che sono una cosa buona e utile. Ma dell’astrattezza in sé, della riduzione del mondo reale a un combinato disposto ideologico, per il quale a governanti (élite) virtuali, corrispondono politiche e decisioni costruite in stanzette chiuse, astratte e isolate ancor più dei decisori. I numeri divengono di gomma, la realtà un optional, le grandi assemblee istituzionali delle camere di nominati che dichiarano alla stampa all’unisono, le parole del premier un’improvvisazione jazzistica, e le previsioni, appunto, un elastico buono comunque, che poi si correggono altrettanto convenzionalmente, alla bisogna. Chi se ne accorge tanto, con la morìa di memoria che c’è? La nuova politica di tutto questo è infarcita. E non ci salverà anche perché essa per prima è già morta come politica che pretende di trasformare il mondo. Quello reale, non le chiacchiere a bordo di una portaerei con annessa gita agostana a Ventotene.