Il cambiamento interiore: gli ostacoli da affrontare non sono solo esterni

per Gabriella

da www.comedonchisciotte.org  12 giugno 2014

DI NAOMI KLEIN

La crisi climatica arriva nel momento più sbagliato, per affrontarla serve non solo una nuova economia, ma anche un nuovo modo di pensare.

Questa è una storia di tempi sbagliati.

Uno degli effetti più allarmanti del cambiamento climatico è ciò che gli ecologisti chiamano “sfasamento” o “scarto temporale”. È il processo per cui il riscaldamento globale fa sì che gli animali restino senza una risorsa alimentare cruciale, in particolar modo durante il periodo della riproduzione, quando l’impossibilità di trovare cibo a sufficienza porta a un rapido calo demografico di quella specie. 

Ad esempio, nel corso dei millenni i percorsi migratori di molte specie di uccelli canori si sono evoluti in modo tale che le uova venissero covate proprio nel periodo in cui erano disponibili in abbondanza risorse alimentari, come le larve, rifornendo così i genitori di copioso nutrimento per i loro piccoli affamati. Ma poiché di questi tempi la primavera arriva spesso in anticipo, anche le uova delle larve si dischiudono anticipatamente, il che significa che in alcune zone esse sono meno abbondanti durante il periodo di cova dei volatili, con tutta una serie di gravi impatti su salute e fertilità.

Allo stesso modo, nella Groenlandia Occidentale le renne continuano ad arrivare sulle terre preposte alla riproduzione e puntualmente si ritrovano fuori tempo rispetto alla maturazione delle piante da foraggio, piante su cui hanno fatto affidamento per migliaia di anni e che ora crescono in anticipo a causa dell’aumento della temperatura.

Ciò lascia le femmine di renna con meno energia per l’allattamento, la riproduzione e il nutrimento dei loro piccoli, e questo sfasamento è stato collegato al netto calo delle nascite e dei tassi di sopravvivenza nei cuccioli di renna.

Gli scienziati stanno studiando casi di scarto temporale correlato al clima fra dozzine di specie, dalla sterna artica alla balia nera. Ma vi è una specie importante di cui si stanno dimenticando: la nostra. Quella dell’ homo sapiens. Anche noi subiamo una terribile forma di scarto temporale legato al clima, benché in un’accezione storico-culturale, piuttosto che biologica. Il problema è che la crisi climatica ci è piombata addosso in una congiuntura storica che vede condizioni politiche e sociali quantomai ostili nei confronti di un problema di tale natura e portata: ossia il momento che costituiva il colpo di coda dei rampanti anni ’80 e al contempo il punto d’inizio della crociata per la diffusione del capitalismo sfrenato nel mondo. Il cambiamento climatico è un problema collettivo e in quanto tale richiede azioni collettive di un tipo che l’umanità non è mai riuscita a realizzare pienamente. Eppure è entrato nella coscienza di massa nel bel mezzo di una guerra ideologica combattuta in seno all’idea stessa di sfera collettiva.

Questa disgraziatissima mancanza di tempismo ha creato ogni sorta di ostacoli alla nostra capacità di fronteggiare con efficacia questa crisi. Ciò ha significato un’ascesa del potere delle multinazionali proprio quando avremmo avuto bisogno di esercitare controlli senza precedenti sulle procedure aziendali, allo scopo di preservare la vita sulla terra. Ha trasformato la parola “regolamentazione” in una brutta parola, proprio quando questi poteri di controllo ci servivano di più. Ha permesso che fossimo governati da una classe politica capace solo di smantellare e prosciugare le istituzioni pubbliche, proprio quando  quelle stesse istituzioni avrebbero dovuto essere fortificate e re-inventate. Ha fatto sì che fossimo imbrigliati da un apparato di contratti di “libero mercato” che legavano le mani ai processi di regolamentazione, proprio quando questi ultimi avevano bisogno della massima flessibilità per poter ottenere massicce trasformazioni energetiche.

Fronteggiare questi molteplici ostacoli strutturali alla nuova economia è il compito cruciale di ogni movimento ecologista per il clima che voglia dirsi tale. Ma non è l’unica missione da intraprendere. Dobbiamo anche esaminare il modo in cui la sfasatura fra il cambiamento climatico e la dominazione del mercato ha creato barriere fra le persone stesse, rendendo più difficoltoso osservare la crescente urgenza della crisi umanitaria con qualcosa di più incisivo di uno sguardo furtivo e terrorizzato. E poiché le nostre vite quotidiane sono state alterate dal trionfalismo tecnologico e di mercato, ci mancano molti degli strumenti di osservazione necessari per convincerci che il cambiamento climatico sia reale – per non parlare della certezza che un nuovo stile di vita è possibile.

E c’è poco da meravigliarsi: proprio quando avevamo bisogno di legami, la nostra sfera pubblica si andava disintegrando; quando avevamo bisogno di consumare meno, il consumismo ha preso virtualmente possesso di ogni aspetto delle nostre vite; quando avevamo bisogno di rallentare e fermarci a osservare, abbiamo accelerato; e proprio quando avevamo bisogno di prospettive più a lungo termine, ecco che siamo diventati capaci di vedere solo l’immediato presente.

Questo è il nostro scarto temporale sul cambiamento climatico, che si ripercuote non solo sulla nostra specie, ma potenzialmente su ogni altra specie del pianeta.

La buona notizia è che, diversamente dalle renne e dagli uccelli canori, noi umani abbiamo in dono la capacità di ragionamento avanzato e, pertanto, la facoltà di adattarci più consapevolmente – per modificare i vecchi comportamenti con una velocità notevole. Se le idee che regolano le nostre culture ci impediscono di salvarci da soli, allora è in nostro potere cambiare quelle idee. Ma prima che questo si verifichi, abbiamo bisogno di capire la natura profonda del nostro personale scarto climatico.

Il cambiamento climatico ci chiede di consumare meno, ma consumare è ciò che sappiamo fare meglio. Il cambiamento climatico non è un problema che può essere risolto semplicemente cambiando ciò che compriamo – un’auto ibrida invece di un SUV, o un carbon offset [1] ogni qual volta prendiamo l’aereo. Nella sua natura profonda, questa crisi nasce dall’iper-consumo da parte dei più benestanti, ciò significa che i consumatori compulsivi mondiali dovranno per forza consumare meno.

Il problema non è “la natura umana”, come spesso ci viene detto. Non siamo nati con la necessità di comprare così tanto e nel passato recente siamo stati felici lo stesso (in molti casi anche di più) consumando molto meno. Il problema è il ruolo esagerato che i consumi ricoprono nell’era in cui viviamo.

Il tardo capitalismo ci insegna che sono le nostre scelte come consumatori a creare la nostra personalità: acquistare è l’atto attraverso cui plasmiamo le nostre identità, ci relazioniamo con gli altri,  troviamo una comunità (a cui appartenere, ndt) e ci esprimiamo. Pertanto, dire a qualcuno che non può comprare tutto quel che vuole perché i sistemi di sopravvivenza della terra sono sovraccarichi equivale a un vero e proprio attacco, è come se a quel qualcuno stessimo negando la sua identità. Ecco perché, delle “Tre R” originarie – riduci, riutilizza, ricicla – solo la terza ha fatto veramente presa, visto che ci permette di continuare a comprare, fintanto che piazziamo i rifiuti nel contenitore giusto. Invece le altre due, che ci richiedono di consumare meno, erano più o meno già morte in partenza.

Il cambiamento climatico è lento, invece noi siamo veloci. Sfrecciando attraverso un paesaggio di campagna a bordo d’un treno ad alta velocità, sembra che tutto ciò che si oltrepassa sia fermo: persone, trattori, macchine sulla strada sterrata. Non è così, ovviamente. In realtà si muovono, ma a una velocità così lenta in confronto a quella del treno, che sembrano immobili.

Lo stesso vale per il cambiamento climatico. La nostra cultura, alimentata da carburanti fossili, è come quel treno ad alta velocità, proiettato verso il prossimo resoconto trimestrale, la prossima tornata elettorale, il prossimo piccolo spazio di distrazione o momento di autoaffermazione attraverso i nostri smartphone e tablet. Il nostro cambiamento climatico è come quel paesaggio fuori dalla finestra: dal nostro osservatorio decisamente privilegiato, appare statico, eppure si muove, e a misurarne il lento progresso sono la recessione delle croste di ghiaccio, l’innalzamento delle acque e l’incremento della temperatura. Se ci ostiniamo a ignorarlo, prima o poi il cambiamento climatico si velocizzerà a un punto tale da catturare la nostra attenzione intermittente – gli stati insulari spazzati via dalle mappe e le mega-tempeste che annegano intere città servono a questo. Ma a quel punto potrebbe essere troppo tardi perché le nostre azioni possano fare la differenza: verosimilmente sarà già iniziata l’era dei punti di non ritorno.

Il cambiamento climatico è legato a un particolare territorio, mentre noi, in uno stesso momento, siamo ovunque. Il problema non risiede solo nel fatto che ci muoviamo troppo velocemente, ma anche nel fatto che il terreno su cui tali cambiamenti si verificano è sensibilmente locale: la fioritura precoce di un particolare fiore, lo strato di ghiaccio insolitamente sottile sopra un lago, l’arrivo ritardato di un uccello migratore. Per accorgersi di questo tipo di cambiamenti impercettibili ci vuole una connessione profonda con un ecosistema specifico. Questo tipo di legame si instaura solo quando un luogo lo si conosce in profondità, non solo come paesaggio, ma anche come sistema di risorse, e quando la conoscenza territoriale viene tramandata ritualmente da una generazione all’altra.

Ma questo, in un mondo urbanizzato e industrializzato, diviene sempre più raro. Tendiamo ad abbandonare le nostre case con leggerezza – per un nuovo lavoro, una nuova scuola, un nuovo amore. E mentre lo facciamo, veniamo automaticamente esclusi/tagliati fuori da qualsiasi tipo di conoscenza di quel posto, conoscenza che eravamo riusciti ad accumulare finché ci abitavamo, così come dal patrimonio di conoscenze messe insieme dai nostri progenitori (i quali, almeno nel mio caso, migravano continuamente anch’essi).

Anche per chi, fra noi, riesce a rimanere stanziale, l’esistenza quotidiana può rivelarsi slegata dai luoghi fisici in cui viviamo. Schermati dagli elementi come siamo, in case, luoghi di lavoro e veicoli climatizzati, i cambiamenti che si verificano nel mondo naturale ci passano accanto senza toccarci. Potremmo non accorgerci affatto che una siccità di portata storica sta distruggendo i raccolti delle aziende agricole che circondano i nostri quartieri urbani, almeno finché i supermercati continuano a esporre piccole montagne di prodotti importati, che arrivano ogni giorno, sempre di più, con i camion. Ci vuole qualcosa di enorme – come un uragano che travalichi ogni stima precedente, o un’alluvione che distrugga migliaia di abitazioni – perché ci si renda davvero conto che qualcosa è andato perduto. E anche in tal caso, faremmo fatica a restare ancorati a lungo a questa consapevolezza, poiché ci ritroveremmo scaraventati nella crisi successiva prima che queste verità abbiano avuto il tempo di radicarsi.

Nel frattempo il cambiamento climatico ha il suo bel daffare, ogni giorno, a ingrossare le fila dei senza patria, visto che i disastri naturali, i raccolti rovinati, il bestiame affamato e i conflitti etnici alimentati dal clima costringono sempre più persone a lasciare le abitazioni dei loro antenati. E con ogni migrazione umana, si perde un numero sempre maggiore di legami cruciali con luoghi specifici, e sono sempre meno le persone capaci di restare in stretto contatto e ascolto della terra.

Gli inquinanti climatici sono invisibili, e noi abbiamo smesso di credere a ciò che non riusciamo a vedere. Quando nel 2010 si ruppe il pozzo Macondo della British Petroleum, rilasciando torrenti di petrolio grezzo nel Golfo del Messico, una della cose cha abbiamo sentito dire all’amministratore delegato della compagnia, Tony Hayward, è stata che “il Golfo del Messico è un grande oceano. La quantità di petrolio e solvente che stiamo immettendo è irrisoria, in confronto al volume complessivo dell’acqua.” Questa affermazione fu largamente derisa all’epoca, e a ragione, ma Hayward stava soltanto dando voce a una delle credenze predilette della nostra cultura: ciò che non vediamo non può farci del male; anzi, non esiste proprio.

Una grossa fetta della nostra economia poggia sull’assunto che esista sempre un “altrove” nel quale possiamo gettare i nostri rifiuti. C’è l’altrove dove finisce la nostra spazzatura quando viene prelevata dai cassonetti lungo i marciapiedi,  e l’altrove dove vanno a finire i nostri rifiuti organici quando sono rilasciati negli scarichi fognari. C’è l’altrove dove vengono estratti i minerali e i metalli di cui sono fatti i nostri oggetti, e l’altrove dove questi materiali vengono trasformati in prodotti finiti. Ma la lezione dello sversamento della BP, nelle parole del teorico ecologista Timothy Morton, è che il nostro è “un mondo dove non esiste nessun ‘altrove’.”

Quando, una quindicina di anni fa, pubblicai No Logo, i lettori rimasero scioccati nell’apprendere che i loro vestiti e accessori venivano confezionati in condizioni abusive. Dopodiché, abbiamo imparato a convivere con tutto ciò – non proprio a perdonarlo, certo, ma a indugiare in uno stato d’animo di costante dimenticanza. La nostra è un’economia di fantasmi, di cecità deliberata.

L’aria è l’invisibile definitivo e i gas serra che la riscaldano sono il nostro fantasma più sfuggente. Il filosofo David Abram sottolinea come, per gran parte della storia dell’umanità, sia stato questo peculiare carattere di invisibilità ad aver conferito all’aria il suo potere, costringendoci a rispettarla. “Ciò che gli Inuit chiamano Sila, il vento-mente del mondo; Nilch’i, o Vento Sacro, per i Navajo, Ruach, o Spirito-che-Corre, per gli Ebrei,” “l’atmosfera era ‘la dimensione più misteriosa e sacra della vita’. “Ma al giorno d’oggi, “sono sempre più rare le volte in cui ci rendiamo conto della presenza dell’atmosfera, poiché essa fluttua impalpabile fra due persone”. Dimenticandoci dell’aria, scrive Abram, ne abbiamo fatto la nostra cloaca, “la discarica perfetta per i sottoprodotti indesiderati delle nostre industrie… anche il fumo più opaco, acre, che soffia dalle ciminiere, è destinato a dissiparsi e disperdersi, a dissolversi sempre e per sempre nell’invisibile. È andato. Lontano dagli occhi, lontano dal cuore.”

* * *

Un altro elemento che rende il cambiamento climatico tanto difficile da afferrare è insito nella nostra cultura, una cultura dell’eterno presente che consapevolmente si taglia fuori dal passato che ci ha creato, così come dal futuro che andiamo plasmando con le nostre azioni. Il cambiamento climatico riguarda il modo in cui ciò che abbiamo compiuto molte generazioni fa influenzerà inspiegabilmente non soltanto il presente, ma anche le generazioni future. Per la maggior parte di noi questa visione temporale è ormai un linguaggio incomprensibile.

Il punto non è esprimere un giudizio individuale, né rimproverarci per la nostra superficialità o mancanza di radici. Si tratta, piuttosto, di riconoscere che noi siamo i prodotti di un progetto industriale, legato storicamente e intimamente ai carburanti fossili.

E così come siamo già cambiati prima di ora, potremo cambiare di nuovo. Dopo aver ascoltato il grande poeta-contadino Wendell Berry tenere una lezione su come ognuno di noi abbia il dovere di amare il luogo dove si trova la nostra casa più di ogni altro, gli ho chiesto se avesse qualche consiglio per le persone senza radici come me e i miei amici, che viviamo nei nostri computer e sembriamo sempre alla ricerca di una casa da acquistare. “Fermatevi da una parte”, mi ha risposto. “E iniziate quel processo millenario che porta alla comprensione di quel luogo”.

Da molti punti di vista, questo è un buon consiglio. Perché, se vogliamo vincere questa battaglia per la sopravvivenza, abbiamo tutti bisogno di un posto in cui stare.

Naomi Klein

Fonte www.thenation.com

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