Le leggi del mercato: al supermercato

per Luca Billi
Autore originale del testo: Luca Billi
Fonte: i pensieri di Protagora...
Url fonte: http://ipensieridiprotagora.blogspot.it/

di Luca Billi  6 giugno 2016

 

Cinque anni fa, quando mia moglie e io siamo venuti a vivere in questa piccola città, a Salsomaggiore c’erano cinque supermercati di medie dimensioni. A me parevano già molti, probabilmente troppi, per una realtà di appena ventimila abitanti, anche tenendo presente che nella vicina e un po’ più grande Fidenza – ad appena otto chilometri – ce n’erano altri sei. Eppure in questi cinque anni ne sono stati aperti altri due (e un altro a Fidenza). E così siamo arrivati a sette. Decisamente troppi; senza ombra di dubbio. E infatti uno ha chiuso e un altro chiuderà tra qualche giorno. E’ il mercato, bellezza.

Nel supermercato che sta per chiudere lavorano ventitré persone: sarebbe meglio dire lavoravano. A dire la verità la catena ha assicurato che nessuno perderà il lavoro: potranno tutti lavorare in un nuovo supermercato che sarà aperto a giorni, vicino a Varese. A sole due ore di auto da Salsomaggiore, sperando di non trovare troppo traffico intorno a Milano. Per una persona che fa un part-time significa passare più tempo in auto che al lavoro, per tacere dei costi. E visti gli orari dei supermercati, una tale distanza diventa davvero proibitiva. Di fatto queste persone sono state tutte licenziate, a meno che non siano disposte a trasferirsi, armi e bagagli, vicino al nuovo posto di lavoro.

Ho raccontato questa vicenda di cronaca non solo per esprimere la mia solidarietà a quelle lavoratrici – per lo più si tratta di donne – e a quei lavoratori, ma per provare a riflettere su cosa è successo in questi ultimi vent’anni in Italia. Come sapete, io mi interrogo spesso sui motivi che hanno condotto noi di sinistra al suicidio. E mi pare che questa vicenda qualcosa racconti e che ci imponga una riflessione.

Nel 2007 Pier Luigi Bersani, ministro dello sviluppo economico del secondo governo Prodi, fece approvare un decreto con cui, insieme ad altre norme, vennero aboliti l’obbligo di una distanza minima tra i supermercati e il criterio di proporzionalità rispetto al bacino potenziale di clienti. Allora queste norme ci parvero dettate da buon senso: dicevamo che l’Italia aveva bisogno di maggiore competitività, che servivano norme che aiutassero le imprese a crescere, sostenevamo che una maggiore concorrenza sarebbe stata un vantaggio per tutti, per i consumatori e per i lavoratori. Anche chi – come il sottoscritto – era un amministratore locale, pensava che quelle norme fossero giuste, perché semplificavano – e di molto – l’iter che si doveva fare per aprire una nuova attività o un esercizio commerciale. Si toglieva il sistema delle licenze, che in tante amministrazioni era diventato sinonimo di corruzione e malaffare, perché le licenze venivano assegnate regolarmente agli amici degli amici e diventavano uno strumento per far arricchire la criminalità. Liberalizzazione divenne una parola d’ordine della sinistra di governo, divenne una nostra parola d’ordine. Era in voga allora l’espressione lacci e lacciuoli – scrisse un libro con questo titolo Guido Carli, uno dei maggiori alfieri del finanzcapitalismo in Italia – e tutti chiedevano che l’Italia ne fosse liberata, e questo avrebbe significato l’inizio di una stagione nuova. Lo ammetto: io ero uno di quelli sinceramente convinti che quella fosse la strada giusta, che in quel modo saremmo riusciti a governare un mondo che stava rapidamente cambiando. E, nel mio piccolo, feci tutto quello che potevo per accompagnare quella svolta, che ovviamente si tradusse in molti altri campi, non solo quello dei supermercati.

Ripensando a quegli anni mi rendo conto che quelle scelte, anche quelle scelte così apparentemente dettate dal buon senso, da un pragmatico realismo, che allora venivano considerate parte della cultura riformista, sono state il cavallo di Troia con cui il finanzcapitalismo ha inciso così profondamente nelle nostre vite. Perché poi a quelle liberalizzazioni ne seguirono altre, ad esempio – sempre rimanendo nel tema di questa definizione – si tolse ogni vincolo rispetto agli orari e ai giorni di apertura. E così ora abbiamo i supermercati, tutti i supermercati, regolarmente aperti le domeniche, tutte le domeniche, e abbiamo i drugstore, come in America, che non chiudono mai, aperti ventiquattro ore al giorno.

Quando dico che il problema non è Renzi, ma è il pd voglio spiegare, in una battuta, esattamente questo. Il problema non è quello che dice e fa Renzi – o meglio che gli fanno dire e gli fanno fare – ma quello che noi abbiamo seminato in questi anni. La retorica di Renzi è figlia della nostra retorica di quegli anni, renzi è figlio politico di Bersani. Per questo io mi arrabbio quando sento dire da qualcuno, magari in buona fede, che bisogna tornare all’Ulivo, l’Ulivo è stato dove abbiamo cominciato a morire e io sinceramente non ho proprio voglia di tornare daccapo a fare gli stessi errori. Mi sento già abbastanza in colpa per averli commessi la prima volta.

Liberalizzare le licenze è stato un modo – uno dei modi – con cui è stato tolto ai Comuni il potere di governare il proprio territorio e infatti adesso per lo più le decisioni le prendono altri, in luoghi che non conosciamo e secondo logiche che intuiamo, ma che non possiamo controllare. Così ad esempio i due supermercati chiusi in questi mesi a Salsomaggiore si trovano entrambi nella stessa zona della nostra città, che in questo modo è rimasta senza servizi, mentre in un’altra zona i supermercati sono quattro nel giro di pochi metri, due condividono perfino lo stesso parcheggio. Ovviamente il manager che ha deciso di chiudere i supermercati di Salsomaggiore non ha guardato all’indirizzo, non ha considerato la dotazione di servizi della zona, ha indicato un criterio di fatturato e il negozio che non entrava in quel criterio è stato chiuso. Punto e basta. fare i conti è più semplice che fare politica: è perfino capace uno come Marchionne.

In questi anni, al di là del tanto sbandierato federalismo, al di là della retorica sui Comuni come primo presidio del governo del territorio, questi enti hanno perso progressivamente molti poteri. Mi sarebbe piaciuto sentirne parlare in questa campagna elettorale, che pure ha coinvolto le prime quattro città italiane per popolazione. Naturalmente ai Comuni rimane ancora in capo la leva urbanistica, ma si tratta di uno strumento spesso spuntato. Al di là del malaffare, che pure influisce molto sulle scelte di governo del territorio di molte amministrazioni, specialmente qui nel profondo nord, per un sindaco la possibilità di far costruire nel proprio comune rappresenta l’unica leva finanziaria per garantire i servizi ai cittadini. Spesso i cambi di destinazione d’uso sono l’unico modo per riconvertire realtà produttive dismesse all’interno delle città: quante fabbriche, chiuse in questi anni che rischiavano di diventare luoghi di degrado, sono diventate invece centri commerciali? Il sesto supermercato di Salsomaggiore è nato così: meglio un’area commerciale che vecchie lavanderie industriali abbandonate da anni. I sindaci hanno perso progressivamente il potere di governare il proprio territorio, garantendo quindi l’equilibrio degli interessi, e questo potere è andato inesorabilmente a chi ha altri interessi. Così ad esempio quelli che ci guadagnano sempre e sicuramente quando apre un nuovo supermercato – indipendentemente da come andranno poi le vendite – sono quelli che costruiscono l’immobile.

Visto che vorremmo provare a costruire una sinistra nuova, anche a partire dai territori, cominciamo a dire che liberalizzare non è una parola d’ordine di sinistra, perché liberalizzare significa permettere ai padroni di fare i propri interessi, a scapito dei lavoratori – e di tutti i cittadini. La sinistra esiste se governa, se mette delle regole, se pianifica, non per ostacolare le imprese, non per impedire che nascano nuove attività economiche, ma per bilanciare interessi diversi e per tutelare gli interessi di chi lavora e di chi ha più bisogno. Noi allora non lo capimmo. Molti continuano a non capirlo. Lo capiscono benissimo quei ventitré lavoratori. E sarà meglio che lo cominci a capire una sinistra che vuole tornare tale.

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