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di Luca Billi 7 maggio 2016
Una persona che legge abbastanza regolarmente quello che scrivo, anche se apprezza poco la mia eversiva radicalità, commentando una delle mie consuete prese di posizione a favore del NO al prossimo referendum costituzionale, mi ha chiesto quali sarebbero le mie proposte di riforma. Non so se quella domanda manifestasse un vero interesse o fosse semplicemente una sfida polemica, ma il tema mi sembra comunque interessante. E merita una risposta.
Sono anni che ci arrovelliamo intorno a questo tema, che discutiamo, anche aspramente, su quali riforme istituzionali fare o non fare – alcune sono state approvate, altre sono state cancellate a seguito di un referendum, altre ancora giacciono da anni in parlamento – ma ormai nessuno pare interrogarsi se queste riforme siano davvero necessarie. Abbiamo ormai dato per scontato che le riforme siano indispensabili; l’ho detto anch’io, tante volte, quando facevo un altro mestiere. Sinceramente non ne sono più convinto.
La Costituzione approvata in via definitiva il 22 dicembre 1947 ed entrata in vigore il 1 gennaio dell’anno successivo non è forse la più bella del mondo, come ama dire un guitto, che si è fatto un po’ di pubblicità grazie a questo tema, e come viene ripetuto da molti, con scarsa originalità. Però è una costruzione solida. La parola costituzione condivide, non a caso, la radice con il verbo costruire; una casa può essere bellissima, ma se non può essere abitata, se non è abbastanza solida, se non è abbastanza sicura, non serve al proprio scopo e quindi quella sua bellezza è perfettamente inutile.
La nostra Costituzione è naturalmente figlia del suo tempo, è nata in un particolare contesto storico, politico e culturale, è stata scritta da uomini e da donne che avevano subito una dittatura e una guerra dagli esiti drammatici. Non possiamo cercare nella Costituzione cose che non possono esserci. Ci sono temi su cui la Costituzione – anche nella sua prima parte, quella più “sacra” – segna il passo, penso ad esempio ai diritti delle persone che costituiscono – o costruiscono – una famiglia, perché per i Costituenti, indipendentemente dalla loro fede religiosa e dalle loro opinioni filosofiche, era semplicemente impensabile un matrimonio contratto da due persone dello stesso sesso. Allo stesso modo non possiamo pretendere di trovare, in un testo scritto settant’anni fa, risposte ai quesiti a cui la scienza, nella sua rapidissima evoluzione, ci ha messo di fronte, ad esempio sul tema della fine vita. Né i Costituenti potevano immaginare che ci sarebbe stata la rete e che l’accesso a essa avrebbe comportato diritti e doveri: erano saggi, erano intelligenti, ma non erano indovini.
La Costituzione del ’48 però, al di là di questi limiti oggettivi, ha una sua unità, una sua coerenza, che credo sia uno degli aspetti più significativi dello sforzo delle persone che l’hanno redatta. La nostra Costituzione è una costruzione ben progettata, con le fondamenta solide e con una propria armonia funzionale: non ci sono né finestre cieche né stanze a cui non si riesce ad accedere. Le riforme che si sono succedute negli anni successivi, specialmente negli ultimi venti, hanno avuto la pretesa di modificare questo o quel punto, ma sono state per lo più disorganiche e, proprio perché rispondevano a idee spesso divergenti tra di loro, hanno finito, quando sono state approvate, per peggiorare la Costituzione.
La Costituzione di oggi – quella adesso vigente, non parlo delle riforme imposte da questa minoranza arrogante e volgare, a cui dovremo dire comunque NO – è peggiore di quella uscita dalle penne dei Costituenti, proprio perché ha perso in parte quel disegno unitario che allora era così forte. Penso ad esempio alla riforma fatta nel 2012 che, modificando gli articoli 81, 97, 117 e 119, ha introdotto l’obbligo del principio del pareggio di bilancio e in questo modo ha tolto sovranità allo stato, introducendo un elemento che limita il potere legislativo, sottomettendolo a un criterio che è alieno allo spirito del resto della Carta. Per non parlare della confusione che è stata fatta nelle varie riscritture del Titolo V, su cui si sono esercitati personaggi per lo più incompetenti, e che ha dato vita a un conflitto permanente tra diversi livelli istituzionali.
La mia proposta di riforma costituzionale è allora piuttosto semplice. Torniamo alla Costituzione del 1948, togliamo le ultime, farraginose e abborracciate modifiche, e proviamo ad applicarla questa Costituzione, con maggior rigore di quanto sia stato fatto in questi settant’anni.
Ho già detto che la nostra Costituzione è figlia del suo tempo, ma questo non è soltanto un aspetto negativo. Anzi. Gli anni immediatamente successivi al conflitto mondiale hanno rappresentato probabilmente il punto più alto di un’elaborazione politica tesa a riconoscere il ruolo preminente dello stato sull’economia, la necessità di garantire diritti universali ai lavoratori, l’obiettivo di trovare strumenti per la redistribuzione della ricchezza, il bisogno di creare una rete di servizi pubblici, finanziati dalla collettività, per aiutare le persone in difficoltà, allo scopo di riconoscere a tutti uguali condizioni di partenza.
La storia del Novecento è stata segnata dalla grande crisi del capitalismo, una crisi di cui adesso – in un’epoca in cui questo è tornato vincente in maniera così violenta – facciamo fatica a capire le possibili conseguenze. Molti, a seguito della crisi del ’29, pensarono che il sistema capitalista fosse destinato a sparire, che si fosse completato quel ciclo descritto da Marx e che sarebbe nato, dalle ceneri del capitale, qualcosa di diverso. Sappiamo che a seguito di questa crisi ci fu la risposta antidemocratica del fascismo, ma – una volta che questo fu sconfitto – si provò a immaginare un sistema che in qualche modo imbrigliasse la bestia del capitale, che ne mitigasse la violenza, anche per ripagare lo sforzo di quelle classe sociali più povere, il cui contributo alla sconfitta del fascismo era stato determinante, che avevano retto lo sforzo durante il conflitto, che si erano messe alla prova, e che avevano vinto quella sfida. Naturalmente sarebbe anacronistico giudicare la nostra Carta – come tutte quelle scritte all’indomani della fine della seconda guerra mondiale – come una costituzione socialista, eppure in essa ci sono tanti elementi socialisti, molti di più di quelli che i conservatori avrebbero voluto concedere, ma che i popoli in qualche modo si presero con la forza, perché avevano combattuto. E avevano vinto.
La vicenda italiana è in qualche modo emblematica di questa storia, che non è appunto solo italiana. Era chiaro che l’Italia non sarebbe diventato un paese socialista, perché così avevano deciso i vincitori della guerra, ed era chiaro che la guida del paese sarebbe toccata ai conservatori, ma le forze socialiste, grazie al ruolo che avevano avuto nella Resistenza e nella guerra di liberazione, assunsero un protagonismo di cui non si poteva non tenere conto e che si tradusse in un dettato costituzionale di forte impianto progressista. Quando diciamo che la Costituzione è nata dalla Resistenza esprimiamo con uno slogan tutto questo.
Sappiamo però che il capitalismo non è stato affatto sconfitto, anzi ha superato quella crisi, si è liberato, a partire dalla fine degli anni Settanta, dai vincoli che le forze progressiste gli avevano imposto finita la guerra ed è tornato a dominare il mondo, sfrenato e violento, come all’inizio del secolo, anzi con una arroganza ancora maggiore. Ha stravinto perché è riuscito a imporre la propria visione del mondo anche alle forze che avrebbero dovuto rappresentare il campo progressista – basti pensare a cosa sono diventati oggi i socialisti europei, per tacere dello schifo che c’è in Italia, dove la sinistra si è suicidata – e domina il mondo con brutalità selvaggia. L’unico limite a questa violenza di classe è rappresentato dalle nostre “vecchie” costituzioni, che infatti sono finite nel mirino delle forze del capitale, che vorrebbero emendarle, modificarle, attenuarne la portata riformista, con la scusa che occorre adeguarsi ai tempi, che servono nuovi strumenti per affrontare le sfide nuove e tutte le menzogne che dicono quelli come renzi, per convincerci che la nostra Carta è da buttare – o da riformare come dicono loro.
Votare NO al prossimo referendum è il nostro modo per cercare di fermare questo attacco, prendendo un po’ di tempo e di fiato. Ma non illudiamoci: ne seguirà un altro, e un altro ancora, perché il loro scopo è distruggere queste costituzioni, e le loro risorse sono moltissime, praticamente illimitate. Non possiamo limitarci a stare fermi, a difenderci dentro le mura assediate: saremmo destinati alla sconfitta, anche perché i traditori sono già qui tra di noi, pronti a venderci al nemico. Una volta che avremo resistito a questo nuovo, subdolo, assalto, dovremo avere la forza di gettarci noi all’attacco.
Io comincerei proprio dalla nostra Costituzione, dalla richiesta di applicarla con rigore. Nella Carta c’è già scritto tutto quello per cui vale la pena di lottare: la difesa della sanità e della scuola pubbliche, il riconoscimento dei diritti dei lavoratori, la salvaguardia dei beni comuni, il riconoscimento delle prerogative democratiche. Perché chi vuole cambiare la Costituzione ha sempre due obiettivi: limitare la democrazia e toglierci diritti. Questi due valori viaggiano sempre insieme e per questo noi dobbiamo continuare a chiedere più democrazia e più diritti.
Così il nostro NO si trasformerà in una vittoria.