OSPITALITÁ E ACCOGLIENZA.
I problemi di oggi attraverso la lezione di ieri.
I.
Spesso sembra che le sfide che oggi si presentano siano del tutto nuove: non è quasi mai così!
Se si ha l’umiltà di studiare il passato e i classici, si scopre che i problemi dell’accoglienza e dell’ospitalità, dell’integrazione o dell’esclusione già si erano posti molti secoli fa. Anzi, a ben vedere, si sono sempre posti.
Se c’è, anzi, una regola che si può ricavare dallo studio della storia è che i popoli si spostano: la cultura occidentale, ad esempio, è nata dall’incontro e dalla fusione delle popolazioni indoeuropee con quelle mediterranee. Una complessa serie di migrazioni, oggetto di svariate teorie che tentano di fornire spiegazioni circa le cause e la cronologia di ciò, ma che è pienamente attestata dagli studi linguistici di Georges Dumézil e di Émile Benveniste.
Dal riscontro di puntuali e costanti analogie siamo certi della parentela delle “lingue indoeuropee” e da tali studi ricaviamo indicazioni preziose per la comprensione della nascita e dell’evoluzione di concetti importanti.
È il caso di “ospite”, la cui etimologia è stata analizzata da Benveniste nel suo Vocabolario delle istituzioni indoeuropee: il termine “hospes” è in stretta relazione col termine “hostis”, “nemico”, ma secondo lo studioso questo secondo significato di “ostilità, inimicizia” si origina nel tempo, giacché inizialmente predominava il valore unico di “ospitalità”.
II.
Nessuna cultura più e meglio di quella della Grecia classica può aiutare a comprendere ciò, attraverso lo studio della lingua e della letteratura: in greco esiste una distinzione fondamentale tra ξένος (lo straniero di stirpe greca) e il βάρβαρος (“lo straniero due volte”: es. il Persiano).
La differenza è – ancora una volta – essenzialmente linguistica: per i Greci chi non parlava la loro lingua (o comunque una lingua affine alla loro) emetteva dei fonemi incomprensivi, dei “bar –bar”, da cui appunto il termine.
L’affinità linguistica è, però, anche e soprattutto riflesso di un’affinità culturale: si noti, ad esempio, che Omero non definisce mai i Troiani “barbari”, proprio perché egli rappresenta una fondamentale condivisione di valori tra loro e gli Achei.
Il termine ξένος ha una doppia valenza semantica: significa sia “straniero” che “ospite”: i Greci hanno elaborato il particolare istituto della ξενία, della “ospitalità” appunto, al riguardo della quale scrive Benveniste: La xenia, posta sotto la protezione di Zeus Xenio, comporta scambio di doni tra i contraenti che dichiarano la loro intenzione di legare i loro discendenti con questo patto.
È, cioè, un legame biunivoco, basato sulla piena reciprocità (l’ospitato diverrà a sua volta ospitante) e trasmesso all’interno del γένος, della famiglia: lo si eredita di padre in figlio, vincola i discendenti.
Lo si comprende leggendo nell’Iliade l’incontro di Glauco e Diomede (Om. Il.VI, 119-236): dopo aver ascoltato le parole con le quali il primo ripercorre la storia della sua stirpe, l’eroe greco alla fine esclama: Ma dunque tu sei ospite ereditario e antico per me; ed immediatamente, invece di venire alle armi, i due si scambiano doni ospitali.
Non si può né si deve combattere con chi appartiene ad una famiglia legata alla propria da vincoli di ospitalità: anche se è un legame lontano nel tempo, che ha riguardato gli antenati.
Nell’Odissea Omero ci fornisce i due paradigmi opposti, quello della piena ospitalità garantita dai Feaci e quello dell’assoluta ripulsa di ciò rappresentato da Polifemo.
Nel primo caso sono degne di nota le parole che Nausicaa, la figlia del re dei Feaci, pronuncia per fare coraggio alle ancelle, fuggite via terrorizzate al solo apparire del “profugo” Odisseo: Questi è un misero naufrago, che c’è capitato, e dobbiamo curarcene: vengono tutti da Zeus gli ospiti e i poveri (Om. Od. VI, 206-8); per l’altro basta rammentare l’atroce sorte che il Ciclope riserva agli sventurati compagni di Odisseo.
Il messaggio è chiaro: civile ed umano (ispirato anche dalla devozione religiosa, si noti la citazione di Zeus “protettore degli ospiti”) è chi pratica l’ospitalità; brutale e criminale (antropofago, addirittura) chi non la rispetta.
Se si guarda poi alla storia greca, anche lì emergono con chiarezza due modelli opposti: quello spartano e quello ateniese.
Serviamoci come “guida” di Plutarco, che nelle sue Vite parallele parla di due mitiche figure di sovrani, lo spartano Licurgo e l’ateniese Teseo.
Del primo si legge (Plut. Vita di Licurgo, 27 6-9) che non concesse ai suoi cittadini di vivere all’estero a proprio piacimento e di viaggiarvi, col pericolo di contrarre abitudini straniere e imitare il modo di vivere di popoli privi di educazione e retti da sistemi politici diversi dal loro. Anzi espulse da Sparta la folla degli oziosi che vi confluivano senza esercitare nessuna utile attività[…] Licurgo stimò più necessario preservare la città dall’intrusione e dalla propagazione di cattivi costumi,).
Un regime, quindi, chiuso, misoneista, che vieta ai suoi cittadini di viaggiare e di stabilirsi all’estero e che, con simmetrica coerenza, nega agli stranieri accoglienza ed ospitalità, praticando la ξενηλασία, “il bando” o “la cacciata” degli stranieri: come si vede, “respingimenti” e roba del genere non sono affatto una novità.
Tutt’altra la politica di Teseo ((Plut. Vita di Teseo, 24 e 25): Teseo concepì un piano grandioso e ammirevole. Radunò, cioè, ad abitare in città tutte le genti sparse per l’Attica, e di un popolo sino ad allora disunito, sordo ad ogni chiamata quando si trattava di interessi comuni, anzi, spesso sceso a litigi e talora a guerre intestine, egli fece una sola città.[…]Nell’intento di ingrandire ulteriormente la città, invitò tutti a trasferirvisi alle medesime condizioni dei nativi. La frase: “Venite tutti qua, gente”, sarebbe stato il proclama di Teseo, quando dava assetto ad una popolazione eterogenea.
Se facciamo un improvviso balzo storico in avanti e guardiamo la realtà attuale, constatiamo che oggi Atene ha circa 700.000 abitanti ed è la capitale della Grecia, Sparta circa 36.000 ed è un villaggio di trascurabile importanza: la popolazione ateniese è oggi quasi venti volte maggiore di quella spartana. En passant, nel tremendo scontro diretto della guerra del Peloponneso avvenuto tra il 431 e il 404 a.C. Atene fu sconfitta da Sparta: ma oggi, se si progetta un viaggio in Grecia, Atene è meta imprescindibile, a Sparta non si fa neppure una capatina.
Forse anche questo è un insegnamento importante che la storia, ottima maestra, ci elargisce e che noi, troppo spesso pessimi alunni, non comprendiamo: chi include progredisce, chi esclude decade.
La sopravvivenza e la prosperità di Atene sono motivate dal suo essere sempre stata, da Teseo in poi, un formidabile “magnete” culturale, in grado di attirare gente della più diversa estrazione sociale, garantendo plurime forme di ospitalità: è il caso, ad esempio, della figura del “meteco”, lo straniero che diventava residente, al quale erano riconosciuti pienamente i diritti civili (non però quelli politici) e che poteva far fortuna, arricchendo a sua volta la città che l’ospitava, sia economicamente che culturalmente.
Basta fare qualche nome: meteci furono Lisia, il più importante oratore del genere giudiziario; Ippocrate, il padre della medicina; Erodoto, il padre della storiografia; e infine filosofi come Anassagora, Protagora e Aristotele.
Atene fu consapevole ed orgogliosa di questa sua identità di città ospitale, tanto da alimentare un vero e proprio mito.
Tucidide (II, 39,1) fa dire a Pericle nel suo Epitaffio: (noi Ateniesi) offriamo la nostra città in comune a tutti, né avviene che qualche volta con le cacciate degli stranieri (ξενηλασίαις) noi impediamo a qualcuno di imparare o di vedere qualcosa.
Esplicitamente qui si rivendica il mantenimento della tradizione dell’ospitalità, voluta da Teseo, anche in tempi certamente difficili (in piena guerra) e ci si contrappone a chi invece scaccia gli stranieri perché ha paura di loro: apertura e chiusura; inclusione ed esclusione, ancora una volta.
Le prime derivano da un certo livello di civiltà e di consapevolezza culturale, le altre dall’esatto opposto.
Il tema di “Atene ospitale” diventa un leit-motiv di tutto il teatro greco, i tragediografi non perdono occasione per utilizzarlo ed esaltarlo.
È ad Atene che Eschilo immagina che Oreste trovi rifugio e giustizia e che Euripide inventa il ricovero di Medea dopo l’uccisione dei propri figli, una volta che ella si è garantita l’ospitalità da parte del re Egeo, il padre di Teseo. Atene accoglie persino – grazie sempre all’ospitalissimo Teseo – l’uomo più sciagurato di tutti, Edipo, l’autentico “scandalo” vivente, l’assassino del proprio padre e il marito della propria madre: nei versi del novantenne Sofocle Atene viene celebrata come Atene città religiosissima; Atene, che sola difende il forestiero maltrattato, Atene, rifugio dell’esule.
III.
La latinità, culturalmente deferente verso la grecità, non ci offre concetti o paradigmi nuovi riguardo a questo tema, ma ha il pregio grandissimo di tradurre in prassi e in norma ciò che è stato elaborato altrove.
È sufficiente, allora, riflettere su due “particolarità” giuridiche: la tessera hospitalis, una sorta di antenato del nostro “passaporto” e il praetor peregrinus, una magistratura particolare, la cui istituzione può essere considerata forse come prodromo del diritto internazionale.
La tessera hospitalis era una tavoletta, di forma svariata e di materiale diverso (osso, avorio, bronzo, ecc…), sulla quale venivano incisi i nomi dell’ospite e dell’ospitato: serviva da riconoscimento e da garanzia perché gli stranieri potessero accedere e commerciare a Roma.
Ed è proprio grazie ad una tessera hospitalis che avviene il felice riconoscimento (l’agnitio) dell’identità del Poenulus (letteralmente “Il Cartaginesino”), commedia plautina del 197 a.C.
Nel quinto atto compare in scena Annone, un cartaginese che si è recato nel luogo in cui si svolge la vicenda (Calidone, in Etolia), perché sa che qui abitava una volta il suo ospite Antidamante, ormai morto (v. 956: eum fecisse aiunt sibi quod faciundum fuit, “mi dicono che ha fatto ciò che tutti si deve pur fare”): ma è rimasto il suo figlio adottivo, Agorastocle, al quale egli sta portando la tessera ospitale che ha conservato per farsi riconoscere (v. 958: ad eum hospitalem hanc tesseram mecum fero: “porto con me questa tessera ospitale per lui”), in modo che lo possa aiutare a ritrovare le due figlie che gli sono state rapite. Avviene esattamente così: appena Agorastocle vede la tessera, riconosce che è identica a quella che possiede anche lui (v. 1049: est par probe quam habeo domi, “è identica a quella che ho a casa”) e così Annone può esclamare gioiosamente: “O mio ospite, salute davvero! Tuo padre Antidamante è stato mio ospite, dopo esserlo stato di mio padre e ci siamo scambiati questa tessera ospitale”.
Ma subito dopo si appura che anche Agorastocle è originario di Cartagine, da cui è stato rapito quando aveva sette anni, che i due sono zio paterno e nipote e che le due figlie che Annone cerca sono proprio lì: la più grande andrà in sposa del cugino, col consueto lieto fine che caratterizza la commedia.
Due cose, però, vale la pena sottolineare: in tutta l’opera il tema dell’ospitalità è essenziale e Plauto mette in scena dei nemici, dei cartaginesi (nel 197 le guerre puniche non erano affatto concluse), che riscuotono la simpatia del pubblico.
Il praetor peregrinus fu, invece, istituito nel 242 a.C., quando stava terminando la prima guerra punica e aumentavano sempre più i rapporti economici con gli stranieri grazie all’espansione romana nel Mediterraneo. A tale magistrato fu assegnata la competenza nelle controversie tra cittadini romani e stranieri o tra stranieri: ciò determinò la nascita di una “giurisprudenza creativa”, che affermò e diffuse contratti economici quali la compravendita (emptio/venditio), la locazione (locatio/conductio), la società (societas) e il mandato (mandatum), accessibili sia ai Romani che agli stranieri e si caratterizzò per la duttilità e la rapidità nelle decisioni delle controversie.
Il praetor peregrinus inizialmente si contrappose al praetor urbanus, che giudicava le cause relative a chi godeva della piena cittadinanza (cives pleno iure) in modo più solenne e formalizzato; restò in vita fino al 212 d.C., quando la Constitutio Antoniniana de civitate estese la cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell’Impero.
L’incontro/confronto tra genti diverse e la necessità di normare i rapporti tra cittadini e stranieri, tra chi accoglie e chi viene accolto, hanno dato, quindi, uno straordinario impulso al diritto, per quanto concerne sia i rapporti tra i singoli (diritto privato) che quelli tra i popoli (diritto internazionale).
IV
La cultura cristiana – di cui troppo spesso si evidenzia lo iato e troppo poco invece si coglie la connessione con la cultura classica – continua e potenzia l’etica degli antichi, conservandone persino il lessico.
Ai fini del nostro discorso, è sufficiente leggere rapidamente qualche passo: ad esempio, il Vangelo di Matteo (25, 34-35), dove Gesù dice: Venite, voi benedetti del Padre mio, e ricevete il regno preparato per voi sin dalla creazione del mondo. Perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; sono stato forestiero (ξένος) e mi avete ospitato.
Il termine che compare è, appunto, ξένος (si noti: non βάρβαρος): sarà accolto in Cielo chi è stato pronto ad accogliere su questa terra; il valore dell’ospitalità è, ovviamente, da Gesù riconosciuto e addirittura santificato.
Paolo, poi, nella Lettera agli Ebrei (13,2) così scrive: Permanga la fraternità. Non dimenticatevi l’ospitalità (φιλοξενία); alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo.
Φιλοξενία, cioè “l’amicizia, la disposizione favorevole nei confronti dello straniero; non la ξενοφοβία, “la paura per lo straniero”, che è la vera responsabile dell’odio e del rifiuto aprioristico dell’Altro.
Il greco cristiano riprende la lezione di Atene, non quella di Sparta.
V.
E noi oggi?
Mi ha colpito quanto ha scritto Giuseppe Sciortino su Il Sole XIV Ore, (06.03.2016) a proposito dell’attuale situazione della Svezia, per tanto tempo definita la “superpotenza umanitaria”: i toni iniziali dell’articolo sono alti, entusiastici:
Meno di dieci milioni di persone, ma la bandiera svedese sventola su tutte le crisi del pianeta, primi ad arrivare, ultimi a darla per persa. I loro politici vengono uccisi cercando di scongiurare massacri. La Svezia riceve più rifugiati, li accoglie meglio, investe di più su di loro. Gli svedesi sono sempre i buoni.
Questa “bontà” (innata? frutto di educazione e cultura?) li induce a stupirsi e a rattristarsi del fatto che altri popoli non siano ospitali come loro.
Sciortino scrive da Malmö e così descrive la reazione della città alla notizia di come si comportano gli Ungheresi:
Quando i rifugiati premevano ai confini dell’Ungheria, la città era mobilitata. Tutti mi chiedevano sempre la stessa cosa: Perché gli altri non riescono a fare la cosa giusta? Perché non possono essere solo un pochino più simili a noi? Di sabato, a Malmö si va a fare la spesa a Möllan, il quartiere degli immigrati e degli accademici. La verdura è buona, la scelta ampia, il posto così esotico che si usa ancora il contante. Attraversando il centro, conto quanti espongono il cartello che dà il benvenuto ai rifugiati. A metà settembre sono 8 su 10, supermercati e tabacchini, barbieri e società di ingegneria civile. Quando la Merkel diventa un po’ svedese, la città è pronta. Davanti alla stazione compare un grande tendone bianco. Pronto ad accogliere i rifugiati che, ogni venti minuti, escono dai treni. Pochi giorni dopo, il tendone viene sostituito da container decorati con improbabili luci natalizie.
Tutto perfetto, quindi, tutto incredibilmente “buono”.
Ma nello spazio di pochi mesi, da settembre a novembre tutto cambia in Svezia (e in Europa?):
A novembre ascoltiamo il ministro, che poi è una ministra, annunciare un «temporaneo» cambiamento delle politiche. E il ritorno dei controlli di frontiera, che interrompe una pratica qui molto più antica di Schengen. Mentre parla, comincia a piangere, e non credo per aumentare la sua visibilità. Due giorni dopo, ritornando da Copenaghen, meno di venti minuti di treno, devo mostrare il passaporto. Non so se siano più tristi i poliziotti o i passeggeri. Sotto Natale, le luminarie sui container si spengono. Dopo capodanno, i container sono spariti. È così che le superpotenze umanitarie si estinguono, non con uno schianto, ma con un gemito.
Noi oggi stiamo ascoltando, impotenti, questo gemito: dalla libera circolazione delle persone al ritorno alle frontiere, da Schengen ai muri.
Purtroppo un’altra cosa insegna la storia, a chi la studia con interesse e con umiltà: che il gemito delle democrazie (e non solo delle “superpotenze umanitarie”) spesso si trasforma nelle grida esaltate delle tirannidi.
Ed esattamente questo il rischio che stiamo correndo.
Stefano Casarino