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Intervista a Stefano Fassina di Roberto Scafuri 9 marzo 2016
Il primo dei gufi potrebbe essere oggi il re dell’allegrezza. Ma non lo si conosce mai abbastanza. «Provo una tristezza sconfinata, sì la definirei così…», sospira Stefano Fassina.Se c’è un motivo antropologico che lo portò a sbattere la porta del Pd, da solo o quasi, dopo aver ingoiato rospi su rospi, è racchiuso in questa sua misura umana, non politica. Forse, persino, impolitica e impopolare. Misura nelle parole, come negli atteggiamenti, che ne fanno l’Anti-Renzi in un senso non mediatico ma reale. Quello sbruffoneggia, Fassina s’intimidisce; Matteo vola via di selfie in selfie, Stefano s’affligge di Pil. I tempi sembrerebbero decretare una condanna a vita per lui, eppure il precipizio imboccato dal Pd gli dà ragione su tutta la linea (ovviamente ha il buongusto di non rivendicarlo). «Sono triste. Ma non è la prima volta che le primarie si risolvono in questo sfacelo. In Liguria fu peggio che a Napoli, per non parlare dell’Emilia Romagna nel 2014 o di Toscana e Umbria l’anno scorso. Le nostre roccaforti».
Il male ha radici lontane.
Già. Ma mi fa ancora più male vedere il clima che si respira nel mio vecchio partito: mi colpiscono le reazioni, la voglia di minimizzare, di rendere fisiologico un dato gravissimo come quello di 40mila votanti a Roma. L’assenza di partecipazione presentato come attestato di qualità.
È la tesi del presidente Orfini, che lamenta le «truppe cammellate di una volta».
È questa la cosa più patetica e paradossale. Il Pd a Roma sa benissimo come stavano e stanno le cose. Anche perché gli stessi capibastone sono protagonisti pure oggi. La gente che non è andata a votare, il Massimo Bray che pensa di candidarsi contro il Pd – non un pericoloso estremista – sono segnali precisi. Non di nostalgia per Mafia capitale, ma del fatto che il Pd è andato da un’altra parte, ha rotto con la parte migliore di noi.
Il partito della Nazione è irreversibile e irrefrenabile.
Il partito della Nazione c’è già. È questa cosa qui, vive e lotta – contro di noi.
Dunque non vede due Pd che si fronteggiano.
Mi spiace per chi è ancora dentro e ha bisogno di far sogni belli. Quel che si vede è un protagonista assoluto. Poi una pletora di gregari… Molti folgorati sulla strada di Rignano. Ma certa subalternità fa parte della statura dei personaggi.
Pensano che la segreteria Renzi sia ancora scalabile.
Non lo credo affatto, altrimenti non sarei qui a lavorare al progetto di una sinistra di governo per Roma. Il passaggio decisivo non potrà essere certo il congresso del Pd, bensì il referendum di autunno sulle riforme. Lì si decidono le sorti di Renzi, e quindi le prospettive del partito. Una vittoria dei sì porterebbe alla celebrazione di un congresso plebiscitario. Altro che chiacchiere e finte alternative interne.
Pantomime. Come il candidato Giachetti che si fa immortalare quale Petroselli redivivo.
Giachetti-Petroselli? Un ossimoro, che trovo anche un po’ di cattivo gusto. Se volesse davvero provare a richiamarsi a quell’esperienza, gli basterebbe dire no ai palazzinari, no alla privatizzazione degli asili nido e del patrimonio capitolino; dire sì invece agli investimenti sui servizi per i cittadini, come la Roma-Lido o gli autobus…
Alt. Non facciamo propaganda elettorale. Lei forse dovrà correre alle primarie con Bray, mentre Cuperlo chiede una lista di «Sinistra per Giachetti», ma anche di riunificare la sinistra dopo le Comunali. Dal di fuori si fatica a capire il senso.
Anche dal di dentro. Fatico davvero anche io a capire certe elucubrazioni dei miei ex compagni. Anzi, non ho capito neppure a chi si rivolge.
Il popolo fugge dal Pd che ha in Verdini, dice lei, un «alleato organico».
Non può esistere solo Renzi e i riferimenti economico-finanziari che interpreta. Il lavoro ha bisogno di una rappresentanza. Abbiamo il dovere di provarci. Almeno quello.