Il caos climatico contro la reciprocità

per Gabriella
Autore originale del testo: Giuliano Battiston
Fonte: il manifesto
Url fonte: http://www.eddyburg.it/2015/11/il-caos-climatico-contro-la-reciprocita.html

intervista a  Vandana Shiva   di Giuliano Battiston 30 Novembre 2015

Per Vandana Shiva, l’ecologista indiana simbolo della battaglia contro la mercificazione dei beni comuni, fondatrice dell’associazione Navdanya International per la salvaguardia delle sementi, le conseguenze del caos climatico sono il frutto di un modello economico basato sullo sfruttamento e su una logica estrattiva e una delle maggiori sfide del ventunesimo secolo. Ma rappresentano anche l’occasione per archiviare il vecchio paradigma energivoro e meccanicista della civiltà industrializzata in favore di «un nuovo patto con la Terra basato sulla reciprocità».

L’abbiamo intervistata alla vigilia della conferenza Cop 21 di Parigi, dove gli esponenti della rete Navdanya pianteranno un Giardino della speranza «per una nuova cittadinanza Planetaria per un’unica Umanità, con il Pianeta come nostra casa comune, simbolo del patto che stipuliamo con la Terra per proteggerla».

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In genere si tende a usare il termine «cambiamento climatico», che suona piuttosto neutrale, mentre lei preferisce «caos climatico» e «catastrofe climatica». Perché?

Con cambiamento climatico generalmente viene indicato l’aumento delle temperature medie e il relativo aumento delle emissioni di gas a effetto serra. Io credo invece che il cambiamento climatico non abbia a che fare soltanto con l’aumento della temperatura. Riguarda anche i picchi estremi climatici, l’incertezza climatica. Considero il termine caos climatico più appropriato perché, sulla base di ciò che sta accadendo e che accade in particolare a comunità e in luoghi specifichi, si tratta di processi che conducono alla catastrofe. Inoltre, cambiamento implica che si possa prevedere ciò che accadrà. Caos rimanda invece a una totale imprevedibilità.

Di recente ha scritto che il caos climatico «è diventato una questione di vita e di morte». Quali sono gli impatti del caos climatico sulle comunità locali, e quali comunità o categorie sociali ne pagano di più o ne pagheranno le conseguenze in futuro?

Il modello energetico riduzionista basato sui combustibili fossili, inaugurato due secoli fa nei Paesi industriali e poi diffuso in Paesi come l’India attraverso la globalizzazione, è un modello che ha generato dipendenza, fame, povertà, dissipato energia e creato le culture della paura e dell’insicurezza, insieme al caos climatico. Le comunità più vulnerabili sono quelle che vivono nelle montagne, nelle aree costiere, nelle zone aride. Particolarmente vulnerabili sono le donne e i contadini. Le faccio qualche esempio. Nel 1999, nello stato indiano dell’Orissa si è registrato un super-ciclone con una velocità doppia rispetto al normale. Ha ucciso 30.000 persone. Nel 2007, nel Ladakh, in una zona desertica molto alta, si sono registrate alluvioni. Nel 2010, di nuovo, si sono verificate altre alluvioni e 200 persone sono state spazzate via. Oggi è lo Yemen a subire le alluvioni. Ma nel deserto non dovrebbero avvenire alluvioni. Per questo dico caos climatico. In India, i monsoni durano 4 mesi. Nel 2013, nei primi due giorni della stagione monsonica si è registrata una quantità di pioggia del 350% maggiore rispetto alla media. Le alluvioni nel bacino del Gange, nella mia regione del Garwal Himalaya, hanno spazzato via 20.000 persone. Una vera e propria catastrofe climatica. Non è finita qui. I raccolti invernali ormai si fanno ad aprile. Quest’anno, i tradizionali festival del raccolto non si sono tenuti, a causa delle piogge e delle grandinate fuori stagione. Per la prima volta nella mia vita ho assistito ai suicidi perfino tra i contadini benestanti del bacino fertile e produttivo del Gange, dove finora i raccolti erano sempre stati buoni.

Ci spiega meglio cosa intende quando sostiene che il caos climatico «è un sintomo dei sistemi di violenza e irresponsabilità che si appropriano dei benefici, privatizzandoli, ed esternalizzano i costi sociali ed ecologici»?

Il caos climatico è un sintomo di un problema più profondo: il problema di un sistema economico fondato sulla violenza contro la terra e sulla violenza contra la gente. È un sistema che dichiara la Terra materia inerte, da sfruttare brutalmente, senza limiti. È un sistema inaugurato nel 1493 con la bolla papale Inter caetera (la bolla con cui papa Alessandro VI regolò la contesa sui territori del “Nuovo Mondo” tra il regno del Portogallo e quello di Castiglia, ndr), un sistema che si è sviluppato poi con gli accaparramenti di terra nei periodi coloniali e che è continuato con l’industrialismo, basato sulla schiavitù. È un sistema che consente a pochi di appropriarsi e di privatizzare i regali della natura e il benessere prodotto dalla gente. Un sistema che esternalizza i costi sociali ed ecologici. Perché inquinare l’atmosfera con i gas a effetto serra equivale a un’appropriazione dei beni comuni atmosferici. Promuovere il commercio delle emissioni è un’altra forma di privatizzazione. Tentare di possedere e di commercializzare le funzioni ecologiche della natura è un’appropriazione dei processi rigenerativi della vita.

Sin dai tempi in cui scrisse The Violence of the Green Revolution, lei tende a sottolineare il legame tra i conflitti e le conseguenze ecologiche del modello economico predatorio nel quale viviamo. Dovremmo aspettarci ulteriori, nuovi conflitti legati al caos climatico, se non lo affrontiamo in fretta e adeguatamente?

Il cambiamento climatico inizia dai cambiamenti nella terra – dal modo in cui usiamo il suolo, dalla questione di chi possiede e controlla la terra. La degradazione del suolo e il land grabbing sono già ora delle fonti di conflitto. Allo stesso modo, un utilizzo non sostenibile della terra contribuisce alle emissioni di gas a effetto serra, le quali a loro volta conducono al cambiamento climatico. E il cambiamento climatico destabilizza le comunità, crea scarsità e conflitti. Per cui sì, certo, possiamo aspettarci di vedere altri conflitti, se non affrontiamo il problema alle radici.

Ritiene che oggi la giustizia climatica debba diventare una componente essenziale nella rivendicazioni per la giustizia sociale globale? È ora che le forze progressiste vi si concentrino con più convinzione?

Dal momento che il cambiamento climatico è il risultato di un modello economico basato sullo sfruttamento e su una logica estrattiva – i cui effetti più deleteri ricadono sulle spalle di coloro che meno vi contribuiscono – le questioni climatiche sono una componente essenziale del movimento per la giustizia sociale ed ecologica globale. La giustizia sociale e quella ecologica sono due facce della stessa medaglia.

Di recente, ha scritto che «la maggior parte delle discussioni e dei negoziati sul come affrontare e mitigare il cambiamento climatico nell’ambito della COP 21 si è limitata al paradigma commerciale ed energivoro proprio di una visione del mondo riduzionista e meccanicista e di una cultura consumistica». Le soluzioni emerse finora rischiano di ribadire il paradigma che ha originato i problemi attuali?

È evidente che le discussioni e i negoziati siano limitati al paradigma riduzionista, meccanicista e alla cultura consumistica. Veniamo definiti come consumatori di energia. Non veniamo visti come generatori di energia creativa attraverso un lavoro creativo degno di rilevanza. Ciò che non viene messo in discussione è proprio il nostro consumismo, e neppure il fatto che, se stabiliamo un’equivalenza tra un alto consumo di energia e lo «sviluppo», ciò significa che i privilegiati si accaparrano, per il proprio consumo, le risorse dei poveri. Intendo dire che le questioni della giustizia climatica in queste discussioni vengono sistematicamente eluse. La maggior parte delle soluzioni statali o private al cambiamento climatico si concentrano su strumenti «più puliti», su mezzi e tecnologie più efficienti.

Le sembra una tendenza legittima o ritiene invece che dovremmo considerare non solo gli «strumenti», ma anche e soprattutto gli scopi dei nostri sistemi economici e sociali, ripensando lo stesso significato di concetti come produttività e progresso?

Sotto questo aspetto, ritengo che le crisi climatiche rappresentino un sintomo dell’elevazione degli strumenti a nuova religione: la religione della tecnologia. Invece di una valutazione intelligente, responsabile ed etica sul come certi particolari strumenti di trasformazione delle sementi e del nostro cibo, del nostro suolo e della nostra acqua influiscano sulla struttura della vita, sulle altre specie, sui contadini e sul benessere umano, gli strumenti vengono innalzati al di sopra di ogni giudizio, oltre il «dharma», oltre il giusto o sbagliato, al di là della domanda fondamentale sul dove debba orientarsi la vita umana, sugli scopi dei sistemi che costruiamo, ai quali i nostri strumenti dovrebbero adeguarsi. Non viceversa. Il cambiamento climatico non è dunque una semplice questione di tecnologia. È una questione di Right Livelihood, di un corretto sostentamento in opposizione al dominio dell’avidità, del potere, del controllo, della hubris umana. Riguarda il nostro dovere di prenderci cura della Terra e dell’intera famiglia terrestre, inclusi gli essere umani, in opposizione alla mancanza di cura e alla violenza esercitata nelle relazioni con le altre specie e all’interno della comunità umana.

Lei è convinta che l’agricoltura industriale globalizzata stia contribuendo in modo diretto al cambiamento climatico. Come? E in che modo l’agroecologia e l’agricoltura rigenerativa possono contribuire alla resilienza climatica?

L’agricoltura industriale globalizzata contribuisce al cambiamento climatico perché si basa sui combustibili fossili, che oltre alle emissioni di Co2 producono le emissioni provenienti dai fertilizzanti azotati. Come ho scritto nel mio libro del 2007 Soil not Oil (Ritorno alla Terra, Fazi 2009), le emissioni causate dall’agricoltura industriale e dal sistema alimentare globalizzato rappresentano il 40% delle emissioni totali. Oggi considero quella stima al ribasso. La falsa retorica dominante suggerisce che l’agricoltura industriale usi meno terra per produrre maggiore quantità cibo, e che in questo modo riesca ad affrontare il problema della fame. La realtà ci dice invece che la produzione mercificata per il sistema industrializzato globale sta conducendo alle invasioni delle foreste e delle praterie, e che il cambiamento d’uso della terra contribuisce per il 18% a tutte le emissioni di gas a effetto serra. Il metano usato nelle aziende agricole contribuisce dall’11 al 15%, i trasporti per il 6%, i processi di lavorazione, confezionamento e refrigerazione per circa il 14% e lo spreco di cibo per il 4%. L’agroecologia e l’agricoltura rigenerativa contribuiscono alla resilienza climatica sbarazzandosi degli input chimici e integrando allevamenti e coltivazioni. Attraverso l’intensificazione della biodiversità e dell’intensificazione ecologica – anziché dei combustibili fossili e dell’intensificazione chimica – l’agroecologia e l’agricoltura rigenerativa riparano il carbone e l’azoto «danneggiati». Espellono il Co2 in eccesso dall’aria, dove non dovrebbe stare, e lo ricollocano nel suolo, a cui appartiene. In un decennio, una transizione generalizzata all’agricoltura ecologica e ai sistemi alimentari locali sarebbe in grado di rimuovere tutte le scorte in eccesso di Co2 presenti nell’atmosfera.

Sembra che per lei affrontare le conseguenze dei cambiamenti climatici non sia soltanto una delle maggiori sfide del ventunesimo secolo, ma anche un’occasione per archiviare il vecchio paradigma della civiltà industrializzata, in favore di quel «nuovo patto con la Terra basato sulla reciprocità» di cui l’organizzazione da lei fondata, Navdanya International, parla nel «Manifesto Terra Viva»….

Le profonde crisi che affrontiamo come specie rappresentano anche un’opportunità per compiere un cambiamento di visione e di paradigma. Da padroni e conquistatori della terra a co-creatori e co-produttori, insieme alla Terra. Dobbiamo smettere di pensare a noi stessi come parti dipendenti all’interno di una macchina globale delle corporation, o come consumatori del loro cibo spazzatura, del loro abbigliamento spazzatura, della loro plastica spazzatura. Come dice il nostro Manifesto Terra Viva, abbiamo la possibilità di creare economie che guardino al futuro, nuove democrazie, e tramite esse una nuova Democrazia della Terra. Per queste ragioni, a Parigi pianteremo un Giardino della speranza per una nuova cittadinanza Planetaria per un’unica Umanità, con il Pianeta come nostra casa comune, oltre che come simbolo del patto che stipuliamo con la Terra per proteggerla. Facendolo, ci proteggiamo l’un l’altro.

 

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