di Alfredo Morganti – 19 novembre 2015
Ve lo dico francamente. Io non avrei sdoganato la retorica della ‘guerra’, soprattutto se fossi stato un Presidente socialista. Nemmeno per dire: ‘ci siamo dentro, è uno stato imposto da altri’. Il linguaggio è importante, è evocativo. Suscita scenari, delinea un contesto. Dire ‘guerra’ (anche quale mera ‘constatazione’, ammesso che si possa ‘constatare’ in modo distaccato l’esistenza di una guerra) è come dire che la guerra c’è, e quindi deve essere combattuta, non c’è scelta. È come dare corpo a una escalation linguistica che è, tout court, una escalation politica e bellica. Se ammetto l’esistenza di una guerra, se interpeto come guerra quel che accade (anche quando è qualcosa di inedito o di diverso) ecco che la guerra si manifesta e deve essere combattuta. E quindi lo stato d’emergenza deve essere prorogato, e quindi esso deve entrare in Costituzione, e quindi si decide ‘sullo’ stato d’eccezione e si ‘eccede’ la norma, modificando quella fondamentale. In realtà non c’è parola più inadatta oggi a indicare come ‘guerra’ il sistema sparso di focolai bellici, conflitti regionali e atti di terrorismo che punteggiano l’intero mondo. Invece di pensare la novità di questo nuovo ‘sistema’ di regolazione dei conflitti, si arranca dietro una vecchia ‘parola’, si torna a legittimarla, si fa leva su di essa persino per cambiare la Costituzione.
Il linguaggio è importante. L’uso inappropriato delle parole è un danno. Non mi meraviglio che poi non si abbia una strategia all’altezza della fase. E si arranchi o si temporeggi. Oppure si ceda alla retorica della guerra. Hollande ha scelto questa strada, quella di attizzare la vampa già accesa. Altri temporeggiano, come il nostro premier, e capisco la loro difficoltà a intravedere una strada in mezzo a questo caos strategico. Ogni giorno ci riserva delle novità. Putin ieri era fuori oggi è dentro, per dire. Io li chiamo sbandamenti, prodotti da una classe dirigente e da élite mondiali che hanno perso il filo, che non governano più un mondo senza blocchi, senza confini, ad alleanze variabili e a scenari cangianti. La politica e la guerra oggi si sovrappongono, difficile distinguerne i confini. Vuol dire che la guerra regola i conflitti, mentre la politica bombarda. Vuol dire che viviamo in un mondo dove i confini tra pace e guerra sono caduti o quasi. In una specie di simultaneità di bombe a affari che lascia inorriditi. La ‘visione strategica’ non è fare comunque affari con chi spalleggia Daesh, non è barcamenarsi tra bombe e petrolio, conflitti armati e commesse di opere pubbliche assegnati alle proprie imprese nazionali. Non può essere così. ‘Visione strategica’ è chiarezza nella scelta tra, da una parte, i bombardamenti, le politiche interne securitarie, la retorica della guerra, e, dall’altra invece, politiche regionali più avvedute, difesa interna a trazione democratica, stop con gli affari con chi arma i terroristi, lavoro di intelligence più accurato, sostegno a chi si batte localmente contro Daesh.
Si deve sempre poter scegliere. Sennò finisce la politica ed essa diventa solo guerra, o meglio uno strano ibrido di entrambi. La retorica della ‘guerra’ ci mette in un vicolo cieco, certifica che essa è guerra, punto, e quindi deve essere combattuta, magari modificando la Costituzione e facendo venire meno pezzi consistenti di democrazia. E in tal caso non c’è scelta possibile, perché la scelta è già stata fatta imponendo un ‘termine’ al dibattito e la retorica corrispondente. E quando non c’è scelta non c’è democrazia, e dunque diventa naturale che la Costituzione, alla fine, restringa i diritti e le libertà in nome della ‘sicurezza’. Tutto si tiene, insomma. Ma proprio tutto. Il linguaggio è importante.