di Barbara Spinelli, da Repubblica
Conviene sempre guardarsi indietro e riscoprire da dove veniamo, quando una crisi economica, politica, anche mentale, tende ad avvitarsi e incancrenire. Conviene sapere come e perché ebbe inizio l’unificazione europea, dopo una guerra che devastò il continente. Come la Germania fu riaccolta dalle democrazie, rilegittimata, e potendo rialzarsi conobbe una formidabile ascesa economica. Come infine quest’ascesa ha toccato l’acme, nella grande crisi degli ultimi anni. Una crisi che minaccia l’Unione, la sua moneta unica, e perfino la sua pace interna.
Cominciò dopo il ’45 con la saggezza del vinto, e anche dei paesi vincitori. Il vinto fu saggio perché seppellì il morbo nazionalista, la dismisura del suo desiderio di dominio sull’Europa: ne scaturì quella che in Germania viene chiamata Gedächtnispolitik, politica della memoria. Le più svariate decisioni interne, e la grande apertura all’unificarsi dell’Europa, discendevano tutte dalla scelta, indefessa, di ricordare il passato, di farsi una nuova pelle, di abbandonare la sovranità nazionale assoluta che aveva distrutto gli Europei mettendo fine alla loro centralità mondiale.
Ma ci fu anche la saggezza dei vincitori. Le insanie del primo dopoguerra non si ripeterono. Se l’obiettivo era la pace duratura fra i popoli, e la lotta alla povertà che di tale pace era essenziale presupposto, le vecchie politiche punitive inflitte al vinto andavano bandite. Messo a tacere, emarginato, John Maynard Keynes aveva inveito contro la strategia del castigo fin dalle trattative di pace a Versailles, nel 1919. Fu ascoltato solo nel secondo dopoguerra: a partire dal ’44-45 videro successivamente la luce gli accordi monetari di Bretton Woods, il Piano Marshall di aiuti all’Europa, la remissione dei debiti tedeschi nella Conferenza di Londra nel ’53 e, in concomitanza, il formarsi della Comunità europea.
Di lì bisogna ripartire, davanti a quel bivio siamo di nuovo: ma smarriti, senza più la bussola di storiche lezioni. In Germania soprattutto la memoria sembra come impazzita. Resta più viva che altrove (incomparabilmente più che in Italia) ma fortemente manomessa, quasi fosse mutilata. I dodici anni del nazismo sono costantemente ricordati, ma non come si scivolò nell’orrore, non come al disastro dell’inflazione s’aggiunse quello della deflazione, non la sapienza con cui se ne uscì, dopo il ’45.
Si scivolò nell’orrore per vari motivi (culturali, politici, psicologici) ma anche per condotte economiche folli. Alla crisi del ’29, gli ultimi governi di Weimar sfiniti dal trauma inflazionistico e dalle riparazioni risposero – specie sotto il cancelliere Brüning, nel ’30-32 – con una pesante deflazione che impoverì ancor più la popolazione. Esattamente come accade oggi, i dottrinari dell’austerità puntarono tutto sull’esportazione, trascurando i consumi interni. Stremato, il paese che aveva dato a Hitler il 18,3 per cento nel 1930 gliene diede il 33 nel ’32 e il 43,9 nel ’33, cadendo nelle mani del demagogo che prometteva lavoro, benessere e sangue. Deutschland über alles divenne il motto: la Germania sopra ogni cosa.
Tutto questo ebbe fine. Il primo Cancelliere del dopoguerra, Adenauer, scelse l’Europa e la pace con Francia di De Gaulle. Seguì, abbiamo visto, la lungimiranza dei vincitori: nel ’53, ben 65 Stati consentirono al taglio dei debiti di guerra tedeschi (fra essi Italia e Grecia, paese-cavia delle odierne politiche di compressione dei redditi), permettendo ai tedeschi lo straordinario miracolo dei decenni successivi. Sulla genesi di quel miracolo è caduto l’oblio, e lo stesso oblio spiega il perché di una leadership tedesca che di fatto esiste, ma non viene assunta con lungimirante solidarietà, oltre che con esigente senso di responsabilità.
In realtà alcune dottrine economiche dei vecchi tempi persistevano, e persistono. In particolare la dottrina cui vien dato il nome di “casa in ordine“: prima che scatti la cooperazione internazionale o sovranazionale, occorre che ogni paese metta a posto da solo i propri conti. Il cosiddetto ordoliberalismo aveva messo le radici fra le due guerre nella scuola di Friburgo, fu sposato dopo il ’45 dal futuro cancelliere Erhard, e negli ultimi sei anni di crisi ha assunto le fattezze di un dogma. Sappiamo come i dogmi chiudano la mente alle alternative, nonché alle soluzioni. L’offensiva di gran parte delle élite tedesche contro la Banca centrale europea è l’effetto di questa dottrina, ancora sotterraneamente intrisa di nazionalismo.
Sono anni che a proposito dell’Europa ascoltiamo una leggenda che non ha più senso. L’Unione non sarebbe più quella degli esordi, quando la questione centrale, dopo il conflitto di trent’anni del 1914-1945, era per ogni cittadino la pace e la guerra, la dittatura e la democrazia. Ora non è più così, guerre e dittature non sarebbero più concepibili. Inane leggenda: anche la crisi è una sorta di guerra, e bellicoso è oggi il rapporto tra le nazioni europee, fondato com’è su reciproci sospetti, su risentimenti, sulla dialettica letale fra delitto e castigo, fra colpevolizzazione e espiazione. In tedesco Schuld significa colpa, e anche debito.
Della colpa del debito gli Stati europei devono lavarsi – sostiene Berlino – prima che intervenga l’Europa con solidali piani comuni di salvataggi, e innanzitutto investimenti. Anche se il boom delle esportazioni, provenienti negli ultimi sei anni dalla Germania, ha contribuito grandemente al formarsi di bolle finanziarie nella periferia Sud, in ragione di ingenti flussi di capitali non compensati da adeguate importazioni. Lo spiega bene l’economista Ulrich Schäfer, sulla Sueddeutsche Zeitung del 13 novembre: le critiche di questi giorni all’irresistibile export tedesco – della Commissione europea, del Fondo monetario, del Sud Europa – “sono giustificate”, e grave è la sordità tedesca. È un boom che in Germania s’accompagna a bassi consumi, al precariato che cresce, a gracili importazioni: dunque a un’incuria verso l’Unione. Gli errori commessi negli anni ’30 tendono a riprodursi.
Fare l’Europa resta un caposaldo della politica tedesca, ma spesso è più flatus vocis che realtà. Gli stessi accenni ripetuti a uno sviluppo federale dell’Unione sono spesso inconsistenti, anche se è vera la principale obiezione di Berlino: il cruciale ostacolo alla Federazione viene dalla Francia (destra e sinistra comprese), attaccata al dogma della sovranità politico-militare come la Germania è attaccata ai dogmi economici.
Uscire dall’impasse è possibile se la memoria si rimette in moto. Se ancora una volta i paesi vinti – schiacciati dal debito – vengono sorretti da una cooperazione internazionale che si attivi durante, non dopo i “compiti a casa”. Se si opera perché i compiti mutino natura, e non si arrivi a guarire quando gran parte dei pazienti è già morta da tempo. È quel che Keynes temeva nel 1919. Lo stesso dovrebbe temere Berlino, oggi, per l’Unione che guida e non guida.
Come allora, l’Europa ha bisogno di un piano Marshall (lo propongono i sindacati in Germania) e di una conferenza sul debito delle periferie Sud, simile a quella che nel ’53 cancellò generosamente i debiti tedeschi. Ha bisogno che finisca l’età dei dogmi e dei finti sovrani nazionali, a Berlino come a Parigi. Perché in quei dogmi è il suo male; è l’origine della sua presente prigionia nella smemoratezza e nel peccato di perfecta nolitio, di completa non-volontà. E ha bisogno di ripensare la pace e la guerra, sia dentro che fuori casa. Dentro casa ponendo termine alla semiguerra tra paesi santi e peccatori. Fuori casa smettendo di affidarsi a una pax americana che sta creando caos più che ordine, in una mondializzazione dove nessuno da solo si salverà. Ridivenire veramente Stati sovrani, nel nostro continente, è possibile solo se l’Europa la si fa sul serio.